Intelligenza Artificiale e tutela del diritto d’autore: le nuove sfide legali

Introduzione Nel panorama giuridico contemporaneo, pochi temi risultano tanto complessi e attuali quanto l’intersezione tra intelligenza artificiale e diritto d’autore. L’avvento di sistemi di IA generativa capaci di produrre testi, immagini, musica e video di qualità sorprendente ha sollevato interrogativi fondamentali che il nostro ordinamento è chiamato ad affrontare con urgenza. Come studio legale attivo nella consulenza in materia di proprietà intellettuale, abbiamo osservato il rapido evolversi di questo scenario e riteniamo doveroso offrire una disamina delle principali questioni giuridiche emergenti, con particolare attenzione al contesto italiano ed europeo. La natura delle opere generate dall’IA: chi è l’autore? Il nostro ordinamento, così come la maggior parte dei sistemi giuridici occidentali, ha tradizionalmente riconosciuto diritti d’autore alle creazioni dell’ingegno umano. L’art. 6 della legge sul diritto d’autore (l. 633/1941) stabilisce che “il titolo originario dell’acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale”. Tuttavia, i sistemi di IA generativa come DALL-E, Midjourney o ChatGPT pongono un interrogativo fondamentale: può un’opera generata autonomamente da un algoritmo essere oggetto di tutela autoriale? E in tal caso, a chi spetta la titolarità dei diritti? Le possibili risposte a questa domanda si articolano su più livelli: Ad oggi, l’ordinamento italiano non ha ancora fornito risposte definitive, ma la giurisprudenza più recente sembra orientarsi verso un riconoscimento della tutela autoriale solo in presenza di un apporto creativo umano significativo. L’addestramento dei modelli IA: questioni di copyright Un secondo aspetto critico riguarda l’utilizzo di opere protette da copyright per l’addestramento dei modelli di IA. I Large Language Models (LLM) e i sistemi generativi di immagini vengono “nutriti” con enormi quantità di dati, che spesso includono opere soggette a diritti d’autore. La questione è se tale utilizzo possa configurare una violazione dei diritti esclusivi degli autori originali. Il dibattito si articola intorno a diversi punti: La controversia ha già generato significativi contenziosi a livello internazionale. Ne è un esempio la causa intentata nel 2023 da diversi autori contro OpenAI, accusata di aver utilizzato libri protetti da copyright per addestrare ChatGPT senza autorizzazione. Analogamente, artisti e fotografi hanno avviato azioni legali contro Stability AI e Midjourney per l’utilizzo non autorizzato delle loro opere. L’AI Act europeo e le sue implicazioni per il copyright Il recente Regolamento sull’Intelligenza Artificiale (AI Act), approvato dal Parlamento Europeo nel marzo 2024, pur non affrontando direttamente le questioni di copyright, introduce obblighi di trasparenza che avranno un impatto significativo sulla proprietà intellettuale. In particolare, i fornitori di sistemi di IA generativa saranno tenuti a: Questi requisiti, pur non risolvendo il nodo fondamentale della legittimità dell’utilizzo di opere protette, rappresentano un primo passo verso una maggiore trasparenza e responsabilizzazione degli sviluppatori di sistemi IA. Strategie di tutela per i professionisti creativi In attesa di un quadro normativo e giurisprudenziale più definito, è possibile suggerire alcune strategie pratiche per i professionisti che utilizzano strumenti di IA generativa: Prospettive future e possibili interventi legislativi Il legislatore italiano ed europeo sarà inevitabilmente chiamato a intervenire per fornire maggiore certezza giuridica in questo ambito. Tra le possibili soluzioni normative in discussione: Conclusioni L’interazione tra intelligenza artificiale e diritto d’autore rappresenta una delle sfide più significative per il sistema della proprietà intellettuale nel XXI secolo. Come studio legale specializzato, riteniamo che l’approccio più efficace sia quello di coniugare la tutela dei diritti degli autori tradizionali con l’esigenza di non ostacolare l’innovazione tecnologica. La soluzione non potrà che emergere da un dialogo costruttivo tra legislatore, giurisprudenza, sviluppatori tecnologici e comunità creativa, con l’obiettivo di aggiornare il sistema del diritto d’autore mantenendone intatti i principi fondamentali.
Le tendenze antidemocratiche globali: sfide e implicazioni per il diritto internazionale

Il panorama geopolitico attuale presenta segnali preoccupanti di erosione democratica che meritano un’attenta analisi da parte dei giuristi internazionalisti. I recenti rapporti di prestigiose organizzazioni di monitoraggio dei diritti umani confermano un deterioramento sistemico dei principi democratici e dello stato di diritto, con ripercussioni significative sul diritto internazionale e sulla sua applicazione. Il declino delle libertà democratiche: un fenomeno globale Il 2024 ha segnato il diciannovesimo anno consecutivo di declino globale delle libertà democratiche, come evidenziato dal Rapporto “Freedom in the World 2025” pubblicato da Freedom House. Ben 60 paesi hanno subito peggioramenti nei diritti politici e nelle libertà civili, mentre solo 34 hanno registrato progressi significativi4. Questo trend negativo coinvolge non solo regimi autoritari consolidati, ma anche nazioni tradizionalmente considerate baluardi democratici. Particolarmente allarmante è la situazione in Europa, dove il Rapporto 2025 sullo stato di diritto di Liberties documenta un aggravamento della recessione democratica. Paesi un tempo considerati modelli di democrazia stanno scivolando verso tendenze autoritarie, con alcuni governi classificati come “Smantellatori” che minano sistematicamente lo stato di diritto in quasi tutti i suoi aspetti5. Persino le democrazie storicamente solide come Belgio, Francia, Germania e Svezia mostrano segnali di deterioramento in alcuni ambiti fondamentali. Human Rights Watch: manipolazione elettorale e discriminazione Il Rapporto mondiale 2025 di Human Rights Watch mette in evidenza fenomeni particolarmente preoccupanti: la manipolazione dei processi elettorali e la diffusione di pratiche discriminatorie basate su razzismo e odio1. Questi elementi rappresentano una minaccia diretta ai fondamenti stessi del diritto internazionale, che si basa sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Il rapporto sottolinea come molti governi, anche quelli che formalmente sostengono i principi dei diritti umani, applichino gli standard internazionali in modo incoerente o inadeguato, alimentando dubbi sulla legittimità di questi principi a livello globale1. Questa selettività nell’applicazione del diritto internazionale ne mina l’autorevolezza e l’efficacia. Implicazioni per il diritto internazionale Le tendenze antidemocratiche hanno profonde implicazioni per il diritto internazionale, che meritano particolare attenzione: 1. Indebolimento del consenso normativo Il diritto internazionale, privo di un “legislatore” centrale, si fonda essenzialmente sul consenso tra Stati e sull’osservanza spontanea delle norme3. L’ascesa di governi che contestano apertamente i principi fondamentali del diritto internazionale mette in crisi questo consenso di base, rendendo più difficile sia la formazione di nuove norme consuetudinarie sia l’applicazione di quelle esistenti. 2. Sfide all’efficacia dei meccanismi di enforcement I meccanismi di attuazione coercitiva del diritto internazionale – dalle contromisure alla legittima difesa, fino al sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite – subiscono pressioni crescenti in un contesto di polarizzazione geopolitica3. La tendenza di alcuni Stati a ignorare deliberatamente le decisioni di organismi internazionali compromette l’intero sistema di enforcement. 3. Relativizzazione dei diritti umani Si assiste a una preoccupante tendenza alla relativizzazione dei diritti umani, presentati sempre più come “valori occidentali” anziché come principi universali. Questa narrativa indebolisce la forza normativa degli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani e legittima violazioni sistematiche. 4. Rischi per il principio di non aggressione Il caso dell’invasione dell’Ucraina rappresenta un esempio paradigmatico delle sfide attuali. Come evidenziato da giuristi internazionalisti, l’azione armata contro l’Ucraina costituisce chiaramente un’aggressione che integra quasi tutte le fattispecie previste dalla definizione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 19742. Tuttavia, la persistenza del conflitto e l’incapacità della comunità internazionale di imporre il rispetto del divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali evidenziano le fragilità dell’attuale sistema giuridico internazionale. Prospettive e possibili risposte Di fronte a queste sfide, il diritto internazionale deve evolvere per mantenere la propria rilevanza e capacità di regolamentazione delle relazioni tra Stati. Alcune possibili direzioni includono: Conclusioni Le tendenze antidemocratiche a livello globale rappresentano una sfida esistenziale per il diritto internazionale contemporaneo. Come giuristi, abbiamo la responsabilità di analizzare criticamente questi sviluppi e di contribuire all’elaborazione di risposte adeguate. Il diritto internazionale ha dimostrato in passato una notevole capacità di adattamento ai mutamenti della società internazionale; oggi è chiamato a una nuova, difficile prova di resilienza. La posta in gioco non è solo teorica: dal mantenimento di un ordine internazionale basato su regole dipendono la pace, la sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali di milioni di persone. In un’epoca di crescenti tensioni geopolitiche e di erosione democratica, il ruolo dei giuristi internazionalisti diventa ancora più cruciale nel difendere i principi fondamentali del diritto e nel promuovere soluzioni innovative alle sfide contemporanee.
Dati biometrici e autenticazione: il delicato equilibrio tra sicurezza e privacy

La crescente diffusione dell’autenticazione biometrica Negli ultimi anni abbiamo assistito a una rapida diffusione dei sistemi di autenticazione biometrica in molteplici ambiti della nostra vita quotidiana. Dall’impronta digitale per sbloccare lo smartphone al riconoscimento facciale per accedere ai servizi bancari online, dalla scansione dell’iride per l’ingresso in aree riservate al riconoscimento vocale per interagire con assistenti virtuali: i dati biometrici sono diventati la nuova frontiera dell’identificazione personale. Questa evoluzione è guidata da esigenze di sicurezza sempre più stringenti e dalla ricerca di sistemi di autenticazione più efficaci rispetto alle tradizionali password. Tuttavia, l’unicità e l’immutabilità che rendono i dati biometrici così preziosi per la sicurezza sono anche le caratteristiche che sollevano le maggiori preoccupazioni in termini di privacy. Il quadro normativo: GDPR e dati biometrici Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) classifica i dati biometrici tra le “categorie particolari di dati personali” (art. 9), riconoscendone la natura sensibile e prevedendo tutele rafforzate. L’art. 4 del GDPR definisce i dati biometrici come “dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca”. Il trattamento di tali dati è, in linea di principio, vietato, salvo specifiche eccezioni, tra cui: È importante sottolineare che, anche in presenza di una delle eccezioni previste, il trattamento deve rispettare i principi generali del GDPR, in particolare quelli di minimizzazione, proporzionalità e necessità. Il principio di necessità e proporzionalità Un recente provvedimento del Garante Privacy italiano (n. 9908105 del 25 gennaio 2025) ha ribadito che l’utilizzo di dati biometrici deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Nel caso specifico, il Garante ha sanzionato un istituto bancario che imponeva ai clienti l’utilizzo del riconoscimento facciale come unica modalità di accesso ai servizi online, senza offrire alternative meno invasive. Il Garante ha chiarito che, sebbene la sicurezza sia un obiettivo legittimo, essa non può giustificare l’imposizione di sistemi biometrici come unica opzione di autenticazione. Gli utenti devono sempre poter scegliere metodi alternativi che comportino un minor impatto sulla privacy. Questo principio è stato recentemente confermato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-456/24, che ha stabilito che l’imposizione di sistemi biometrici come unica modalità di accesso a servizi essenziali costituisce una violazione del principio di proporzionalità sancito dal GDPR. Rischi e vulnerabilità dei sistemi biometrici A differenza delle password, che possono essere modificate in caso di compromissione, i dati biometrici sono permanenti e non modificabili. Se una password viene rubata, può essere cambiata; se viene compromessa un’impronta digitale, questa non può essere sostituita. Inoltre, i sistemi biometrici non sono immuni da vulnerabilità: Questi rischi impongono l’adozione di misure di sicurezza particolarmente robuste e l’implementazione di tecniche di pseudonimizzazione e cifratura avanzate. Best practices per un utilizzo conforme dei dati biometrici Per le aziende e le organizzazioni che intendono implementare sistemi di autenticazione biometrica, è fondamentale adottare un approccio conforme al GDPR: Conclusioni L’utilizzo dei dati biometrici per l’autenticazione rappresenta un’importante innovazione tecnologica che può migliorare significativamente la sicurezza dei sistemi informatici. Tuttavia, la natura particolarmente sensibile di questi dati impone un approccio cauto e rispettoso della privacy. Il quadro normativo europeo, con il GDPR in prima linea, fornisce linee guida chiare per un utilizzo equilibrato dei dati biometrici, bilanciando le esigenze di sicurezza con il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali. Per le aziende e le organizzazioni, la sfida consiste nel trovare il giusto equilibrio tra questi due valori, implementando sistemi di autenticazione biometrica conformi ai principi di necessità, proporzionalità e minimizzazione, e offrendo sempre alternative meno invasive per rispettare la libertà di scelta degli interessati. In questo contesto, il ruolo dei professionisti legali specializzati in diritto dell’informatica e privacy diventa cruciale per guidare le organizzazioni verso soluzioni tecnologiche innovative e, al contempo, rispettose dei diritti fondamentali degli individui.
La tutela delle vittime di caporalato nel Decreto 145/2024: nuove misure di protezione e assistenza

Il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento lavorativo rappresenta una delle piaghe più gravi che affliggono il mercato del lavoro italiano, colpendo in particolare i lavoratori stranieri in condizione di vulnerabilità. Il recente Decreto-Legge 145/2024, convertito in Legge 187/2024 lo scorso dicembre, ha introdotto importanti novità in materia di tutela delle vittime di questo fenomeno, rafforzando gli strumenti di protezione e assistenza. Il nuovo permesso di soggiorno per casi speciali Una delle innovazioni più significative introdotte dal Decreto 145/2024 è la creazione di un nuovo permesso di soggiorno per “casi speciali”, specificamente pensato per le vittime di sfruttamento lavorativo. L’articolo 5 del decreto ha infatti inserito nel Testo Unico sull’Immigrazione (D.lgs. 286/1998) il nuovo articolo 18-ter, che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per gli stranieri vittime di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo7. Questo permesso viene rilasciato dal questore, su proposta dell’autorità giudiziaria, con procedura d’urgenza, nei confronti degli stranieri che: Il permesso ha una durata iniziale di sei mesi, rinnovabile per un ulteriore anno e prorogabile fino alla copertura delle esigenze di giustizia5. Questa misura rappresenta un importante strumento di tutela, poiché consente alle vittime di regolarizzare la propria posizione sul territorio nazionale e di sottrarsi al ricatto degli sfruttatori. Caratteristiche e vantaggi del permesso per vittime di sfruttamento Il permesso di soggiorno rilasciato alle vittime di caporalato presenta diverse caratteristiche vantaggiose: È importante sottolineare che, secondo quanto chiarito dalle autorità competenti, sono considerate vittime di sfruttamento lavorativo coloro che si trovino in una o più delle condizioni previste dall’art. 603-bis del Codice penale, tra cui: Misure di assistenza e inclusione sociale Il Decreto 145/2024 non si limita a regolarizzare la posizione delle vittime, ma prevede anche un articolato sistema di assistenza e supporto. L’articolo 6 del decreto istituisce misure di assistenza finalizzate alla formazione e all’inserimento sociale e lavorativo per i titolari del permesso di soggiorno2. Queste misure si concretizzano in programmi individuali di assistenza, elaborati sulla base delle “Linee-Guida nazionali in materia di identificazione, protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura”. Ogni programma include un progetto personalizzato di formazione e avviamento al lavoro, anche mediante l’iscrizione dei soggetti alla piattaforma del Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL)2. Come ha spiegato il Ministro Calderone, l’obiettivo è “mettere in protezione le vittime di sfruttamento che collaborano con la giustizia” e accompagnarle in un percorso di inclusione sociale e lavorativa, assegnando loro anche una protezione economica attraverso il riconoscimento dell’assegno di inclusione5. Tutele legali e procedurali Il decreto prevede ulteriori tutele per le vittime di caporalato: È interessante notare che, in alcuni casi, la vittima di grave sfruttamento lavorativo può ottenere un permesso di soggiorno anche senza denunciare direttamente i propri sfruttatori. Qualora siano riscontrati in un contesto di sfruttamento lavorativo i presupposti richiesti dall’art. 18 del TUI (situazione di violenza e grave sfruttamento, concreto pericolo per l’incolumità), il permesso può essere rilasciato dal questore anche su proposta dei servizi sociali degli enti locali o delle associazioni iscritte nel registro degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati6. Revoca delle misure di assistenza Il decreto prevede anche meccanismi di controllo sull’efficacia delle misure di assistenza. L’articolo 7 introduce la possibilità di revocare tali misure in caso di: Questa disposizione mira a garantire che le risorse siano destinate a chi effettivamente intende intraprendere un percorso di inclusione sociale e lavorativa. Conclusioni Il Decreto 145/2024 rappresenta un importante passo avanti nella lotta al caporalato e allo sfruttamento lavorativo in Italia. Attraverso l’introduzione di un permesso di soggiorno specifico e di misure di assistenza e inclusione, il legislatore ha cercato di fornire alle vittime gli strumenti necessari per sottrarsi alle situazioni di sfruttamento e intraprendere un percorso di integrazione nella società e nel mercato del lavoro regolare. La sfida ora è quella di garantire l’effettiva applicazione di queste misure, attraverso un’adeguata informazione ai potenziali beneficiari e una formazione specifica degli operatori coinvolti. Solo così sarà possibile trasformare queste disposizioni normative in un reale strumento di tutela per le persone più vulnerabili.
L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DELLE REGIONI: PROSPETTIVE, RISCHI E COMPATIBILITÀ COSTITUZIONALE

L’autonomia differenziata, prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione italiana, rappresenta uno dei temi più controversi nel dibattito istituzionale contemporaneo. La proposta di attribuire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario solleva interrogativi cruciali sul bilanciamento tra pluralismo territoriale e unità nazionale, nonché sulle garanzie di equità sociale e coesione economica. Questo articolo analizza le radici costituzionali del principio, le recenti iniziative legislative, i nodi giuridici emersi nella prassi e le implicazioni sistematiche di un’eventuale attuazione, con particolare attenzione ai profili di costituzionalità e agli impatti sulla cittadinanza. Quadro costituzionale e evoluzione storica dell’autonomia regionale Le basi giuridiche nell’ordinamento repubblicano L’autonomia regionale trova il suo fondamento nell’articolo 5 della Costituzione, che riconosce e promuove le autonomie locali nel contesto dell’unità indivisibile della Repubblica. Il terzo comma dell’articolo 116, introdotto dalla riforma del 2001 (legge costituzionale n. 3), consente alle Regioni a statuto ordinario di richiedere ulteriori competenze legislative, previo accordo con lo Stato e approvazione parlamentare. Tale disposizione è stata a lungo inapplicata, fino alla riscoperta politica degli ultimi anni, alimentata dalle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. La riforma del Titolo V del 2001 ha segnato una svolta nel riparto di competenze, ampliando la potestà legislativa regionale nelle materie concorrenti e residuali. Tuttavia, l’assenza di un chiaro quadro attuativo per l’autonomia differenziata ha generato un vuoto interpretativo, oggi al centro del dibattito sul disegno di legge Calderoli (AS 615). Gli sviluppi giurisprudenziali della Corte Costituzionale La giurisprudenza costituzionale ha progressivamente delineato i limiti all’autonomia regionale, affermando il primato dei principi di unità nazionale e solidarietà interterritoriale. Nella sentenza n. 118 del 2015, la Corte ha sottolineato come le competenze aggiuntive non possano ledere i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) né compromettere l’esercizio dei diritti civili e sociali su base uniforme. Successivamente, la sentenza n. 50 del 2022 ha precisato che l’autonomia differenziata deve rispettare il principio di leale collaborazione, evitando contrasti con gli interessi generali dello Stato. La sentenza n. 192/2024: un freno costituzionale alla legge CalderoliCon la pronuncia n. 192 del 2024, la Corte Costituzionale ha affrontato direttamente i profili critici del disegno di legge Calderoli, dichiarandone parzialmente l’illegittimità. La Corte ha evidenziato come il meccanismo previsto per l’attribuzione delle competenze violi l’articolo 116, terzo comma, nella parte in cui non garantisce preventivamente la definizione dei LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), condizione indispensabile per assicurare l’uniformità dei diritti su tutto il territorio nazionale. Inoltre, la sentenza ha censurato il modello di autonomia fiscale integrale, ritenendolo incompatibile con l’articolo 119 della Costituzione, che subordina l’autonomia impositiva regionale al rispetto della perequazione finanziaria. La Corte ha sottolineato che consentire alle Regioni di trattenere la quasi totalità del gettito tributario, senza meccanismi compensativi per le aree svantaggiate, lede il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost. Infine, è stata dichiarata incostituzionale la clausola di silenzio-assenso nel procedimento di approvazione degli accordi Stato-Regione, poiché priva il Parlamento del suo ruolo decisorio, violando il principio democratico di cui all’articolo 1. Le proposte attuali e il contesto politico-istituzionale Le richieste delle Regioni e il disegno di legge Calderoli Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna hanno avanzato richieste per l’attribuzione di competenze esclusive in materie quali istruzione, ambiente, salute e infrastrutture. Il disegno di legge governativo, noto come “Calderoli”, mira a disciplinare i procedimenti di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, attraverso un meccanismo di intesa Stato-Regione seguito da un voto parlamentare a maggioranza semplice. Il testo prevede una fase negoziale della durata massima di 12 mesi, con la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale in caso di disaccordo. Critici segnalano l’assenza di una previa definizione dei LEP, rischiando di consentire alle Regioni più ricche di svincolarsi dagli obblighi di perequazione fiscale. Il Parlamento europeo, in una risoluzione del 2024, ha espresso preoccupazione per le possibili violazioni del principio di coesione territoriale sancito dall’articolo 174 TFUE. Il ruolo del Parlamento e le divisioni partitiche L’iter legislativo, già complesso per le divisioni politiche, è stato ulteriormente complicato dalla sentenza n. 192/2024. La Corte ha imposto al legislatore di ridefinire il testo in cinque punti chiave: La sentenza ha quindi ridisegnato i termini del dibattito, spostando l’attenzione sulla necessità di un federalismo cooperativo anziché competitivo. Profili di costituzionalità e criticità applicative Il bilanciamento tra autonomia e unità nazionale L’articolo 5 della Costituzione impone di contemperare l’autonomia regionale con l’indivisibilità della Repubblica. La dottrina costituzionalistica sottolinea come il terzo comma dell’articolo 116 non possa essere interpretato nel senso di una “secessione dei ricchi”, ma debba garantire forme di differenziazione funzionale al miglioramento dei servizi. La mancata definizione dei LEP prima dell’attribuzione delle competenze rappresenta un vulnus costituzionale, poiché rischia di privare lo Stato degli strumenti per assicurare l’uniformità dei diritti. I rischi per la solidarietà interregionale Uno studio della Banca d’Italia (2024) stima che l’autonomia fiscale integrale comporterebbe una riduzione del 18% delle risorse per le Regioni del Sud, aggravando il divario Nord-Sud. L’articolo 119 della Costituzione, che impone la perequazione finanziaria, entrerebbe in tensione con le rivendicazioni di trattenere il gettito fiscale locale. Inoltre, la differenziazione nell’istruzione e nella sanità potrebbe ledere il diritto alla mobilità dei cittadini, creando disparità di trattamento su base territoriale. La lezione della sentenza 192/2024: verso un regionalismo costituzionalmente orientatoLa pronuncia della Corte costituisce un chiaro indirizzo per il legislatore: ogni forma di autonomia differenziata deve essere funzionale alla valorizzazione delle peculiarità territoriali, non alla creazione di disparità strutturali. La mancata attuazione dei LEP, come evidenziato nella sentenza, comporterebbe una violazione dell’articolo 3 (eguaglianza sostanziale) e dell’articolo 117, secondo comma (tutela della concorrenza e dell’unità giuridica ed economica). Prospettive future e raccomandazioni La mediazione istituzionale e il ruolo della Corte Per evitare un conflitto permanente tra Stato e Regioni, è essenziale prevedere meccanismi di mediazione amministrativa prima del ricorso alla Corte costituzionale. L’esperienza tedesca del Bundesrat dimostra come forme di partecipazione regionale al processo legislativo statale possano prevenire contrasti. La definizione preliminare dei LEP, attraverso una legge quadro, costituirebbe un prerequisito per qualsiasi devoluzione di competenze. Verso un federalismo solidale Il modello svizzero di federalismo fiscale, basato su trasferimenti compensativi tra Cantoni, offre spunti per coniugare autonomia
Videosorveglianza sul lavoro? Solo per tutelare il patrimonio

Tempo di lettura: < 1 minuti La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla controversa questione della installazione di un impianto di videosorveglianza sul luogo di lavoro. Nel caso preso in esame dai giudici (Cass. 27 gennaio 2021 n. 3255) un commerciante cinese, che aveva subito una condanna in sede civile per aver fatto uso di telecamere in un negozio da lui gestito, senza preventivo accordo con le organizzazioni sindacali o l’ispettorato del lavoro .Il ricorrente aveva però dimostrato in giudizio che l’impianto installato non era puntato sui lavoratori o sui clienti, ma solo sugli scaffali e sulla cassa. Gli ermellini hanno così chiarito che non è violata la norma dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970 (o statuto dei lavoratori) quando l’impianto di videocontrollo a distanza è concepito per la sola repressione delle condotte illecite e non per il controllo sull’attività lavorativa ordinaria.
Bollo auto: prescrizione decorsi tre ann

Tempo di lettura: < 1 minuti La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con la sentenza n. 625 del 2021 ha ribadito il più recente principio giurisprudenziale che fissa in tre anni il termine di prescrizione della tassa di circolazione degli autoveicolo. Già la Corte di Cassazione, con la sentenza a sezione unite n. 23397 del 2016, aveva fissato il diverso principio, ora confermato anche dal giudice tributario di appello. La decisione si inserisce quindi nel solco di un filone giurisprudenziale divenuto ormai costante, e fuga definitivamente le contrastanti, ma più datate, interpretazioni che fissavano il termine di prescrizione nel più lungo termine decennale.
Il cognome paterno: retaggio della società patriarcal

Tempo di lettura: 2 minuti La Corte Costituzionale è tornata ad esprimersi sulla attribuzione ai figli del cognome paterno, definendo la disposizione di legge che ancora lo prevede come il prodotto di una società patriarcale ormai superata e desueta (ordinanza n. 18 del 2021). L’occasione è stata fornita dall’esame della disposizione contenuta nell’articolo 262 del codice civile italiano, secondo cui ai figli nati fuori dal matrimonio, che siano stati riconosciuti da entrambi i genitori, va attribuito il solo cognome del padre. La Corte delle leggi era stata investita della questione dal Tribunale di Bolzano, che aveva sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale del primo comma dell’articolo 262 c.c., nella parte in cui non consente ai genitori, benché in accordo tra di loro, di attribuire al figlio il solo cognome della madre. La questione è stata dichiarata quindi ammissibile e fondata, e verrà decisa in via pregiudiziale rispetto al giudizio pendente innanzi il Tribunale, prefigurandosi un contrasto dell’articolo 262 c.c con gli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione, ed anche con le disposizioni di cui agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Va ricordato come già nel 2016 (sentenza n. 286) la Corte Costituzionale aveva disposto l’abrogazione le norme che disponevano un identico meccanismo di attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, pur in presenza di una diversa volontà da parte dei genitori. In quell’occasione la Corte ebbe a sollecitare il legislatore ad intervenire organicamente con un riordino della materia, secondo principi rispettosi dell’indiscusso e condiviso principio di parità di genere, ma l’invito, fino ad oggi, non è stato ancora raccolto.
Decreto Ingiuntivo: la banca può chiederlo solo con l’estratto conto analitico

Tempo di lettura: 2 minuti Art. 50 del T.U.B. Indice articolo L’art. 50 del T.U.B. dispone che la banca può richiedere l’emissione del decreto ingiuntivo nei confronti del proprio correntista con la produzione dell’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti. Tuttavia è ancora diffusa la prassi delle banche di depositare, nel procedimento monitorio, il solo attestato di “saldaconto”, cioè una attestazione con cui il dirigente dichiara l’ammontare del valore numerico finale risultante a credito della banca, senza alcun dettaglio delle operazioni registrate in dare ed avere nel rapporto di conto corrente. Intervento Corte di Cassazione La Corte di Cassazione è intervenuta di recente sull’argomento (ordinanza n. 29577 del 24 dicembre 2020), precisando che l’estratto conto richiesto dall’art. 50 T.U.B., per la emissione del decreto ingiuntivo a richiesta della banca, consiste in una elencazione analitica dei movimenti registrati in dato arco di tempo, che determinano il saldo finale per il quale viene chiesta l’ingiunzione. Giurisprudenza Resta discusso, in giurisprudenza, se vada allegato alla richiesta di ingiunzione di pagamento un estratto conto completo, a far data dall’inizio del rapporto bancario (Cass. n. 9695 del 2011), o se piuttosto l’espressione al singolare adottata dall’art. 50 del T.U.B. consenta una ragionevole semplificazione probatoria e quindi la produzione dei soli estratti conto dell’ultima fase di movimentazione del conto (Cass. n. 18541 del 2013). Conclusioni L’ultima pronuncia, nel ribadire il primo orientamento, certamente più rigoroso, sottolinea la necessità, per la banca che agisca in sede monitoria, di depositare tutti gli estratti conto dai quali sia possibile ricostruire, nel lasso di tempo rilevante, l’insorgere del credito per il quale è chiesta l’ingiunzione.
In monopattino senza casco: per il TAR si può

Tempo di lettura: < 1 minuti Il Tribunale Amministrativo della Regione Toscana, con sentenza dell’8 febbraio 2021, ha annullato l’ordinanza con cui il Sindaco di Firenze aveva imposto l’obbligo di indossare il casco protettivo, sul territorio comunale, anche per i conducenti maggiorenni. La decisione del T.A.R. è stata motivata da un vizio dell’atto amministrativo, poiché la competenza ad emettere una tale ordinanza, secondo il Tribunale, sarebbe stata del dirigente del settore, e non del sindaco. Secondo quanto spiegato nella sentenza, i provvedimenti che disciplinano la circolazione sulla viabilità comunale, assunti secondo il disposto degli articoli 6 e 7 del Codice della Strada, hanno natura gestoria ed esecutiva, e ricadono quindi sotto la competenza dei dirigenti dell’ente. Il T.A.R. ha escluso che per la materia oggetto del provvedimento impugnato potesse essere adottato un ordinanza contingibile ed urgente da parte del sindaco, in assenza della oggettiva necessità di un intervento indifferibile.