Danno Morale e Danno Biologico: la Cassazione ricorda la distinzione che non va dimenticata

Quando il risarcimento per lesioni personali è incompleto: importante pronuncia della Suprema Corte sulla necessaria liquidazione autonoma della sofferenza soggettiva oltre al danno biologico Con l’ordinanza n. 27102 del 9 ottobre 2025, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è intervenuta su una questione tecnica ma di grande rilevanza pratica nell’ambito del risarcimento dei danni alla persona: la necessità di liquidare separatamente tutte le componenti del danno non patrimoniale, compreso il danno morale inteso come sofferenza soggettiva e dolore patito dalla vittima. La pronuncia rappresenta un importante richiamo ai giudici di merito affinché non omettano, nell’operare la liquidazione equitativa dei danni, di considerare e quantificare autonomamente anche la componente morale del pregiudizio subito. La vicenda processuale e il contesto fattuale La controversia trae origine da un sinistro stradale avvenuto in una giornata di pioggia battente del giugno 2013. Una pedona, mentre attraversava una strada comunale nei pressi di una scuola dell’infanzia, veniva investita da un furgone. L’impatto, violento, la proiettava a terra causandole lesioni che richiedevano il ricovero ospedaliero e determinavano postumi permanenti quantificati nella misura dell’11-12% di invalidità. La vittima agiva quindi in giudizio contro il conducente del veicolo e la sua compagnia assicuratrice, chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti. Il giudizio di primo grado si concludeva con esito sfavorevole per la danneggiata. Il Tribunale, infatti, riteneva provata la sua esclusiva responsabilità per non aver utilizzato correttamente le strisce pedonali nell’attraversamento della carreggiata, rigettando quindi la domanda risarcitoria. La sentenza veniva però riformata in appello dalla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado di Venezia, che riconosceva un concorso di colpa tra pedona e conducente, attribuendo alla prima una responsabilità del settanta per cento e al secondo del trenta per cento. La Corte territoriale fondava questo riparto sulla considerazione che, da un lato, la pedona aveva effettivamente attraversato la strada al di fuori delle strisce pedonali, ma dall’altro il conducente viaggiava a una velocità che, sebbene ridotta, non era adeguata alle condizioni meteorologiche avverse e alla presenza di una scuola nelle immediate vicinanze. Applicando quindi le percentuali di concorso di colpa e utilizzando le Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione equitativa, la Corte d’Appello condannava il conducente e la compagnia assicuratrice al pagamento della somma di euro 2.477,35, già comprensiva delle spese mediche sostenute e già ridotta in ragione del settanta per cento di responsabilità della danneggiata. Contro questa sentenza la pedona proponeva ricorso per cassazione articolando ben sette motivi di impugnazione. La struttura del ricorso e le questioni sottoposte alla Suprema Corte Il ricorso per cassazione si componeva di due gruppi distinti di censure. I primi quattro motivi contestavano l’accertamento della responsabilità civile e il riparto di colpa operato dalla Corte d’Appello, lamentando vizi di motivazione e violazioni di legge in relazione alla ricostruzione della dinamica del sinistro, all’applicazione degli artt. 2043 e 2054 c.c. in tema di responsabilità civile e circolazione stradale, nonché dell’art. 1227 c.c. sul concorso del fatto colposo del danneggiato. Gli ultimi tre motivi riguardavano invece la quantificazione del danno, contestando la determinazione dell’invalidità permanente, l’omessa liquidazione del danno morale e la mancata rifusione delle spese di consulenza tecnica di parte sostenute in primo grado. La Suprema Corte ha respinto o dichiarato inammissibili le censure relative alla responsabilità civile, confermando sostanzialmente l’impianto motivazionale della sentenza d’appello. In particolare, quanto al primo motivo che lamentava la carenza o apparenza della motivazione sulla ricostruzione dinamica del sinistro, i giudici di legittimità hanno ricordato il principio consolidato secondo cui il sindacato sulla motivazione della sentenza impugnata resta circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., senza che sia necessario esaminare le risultanze processuali. La Corte d’Appello aveva infatti richiamato puntualmente la documentazione prodotta, le dichiarazioni testimoniali, il verbale delle autorità intervenute e gli elaborati fotografici, fornendo quindi una motivazione non apparente e costituzionalmente adeguata. Per quanto riguarda i motivi secondo, terzo e quarto, tutti relativi all’accertamento della responsabilità e al concorso di colpa, la Cassazione li ha dichiarati inammissibili rilevando che, al di là dei vizi di legge formalmente evocati, essi mascheravano nella sostanza una richiesta di riesame del merito e della ricostruzione fattuale operata dai giudici di appello. Tale rivalutazione del giudizio di fatto sull’attribuzione di responsabilità e sulla comparazione delle condotte costituisce profilo estraneo al sindacato di legittimità, che non può sostituirsi alla valutazione delle prove compiuta dai giudici del merito. Il cuore della decisione: l’omessa liquidazione del danno morale Il punto decisivo della pronuncia riguarda il sesto motivo di ricorso, con il quale la ricorrente denunciava, in via principale, la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno morale inteso come dolore e sofferenza soggettiva. In via subordinata, qualora la Cassazione avesse ritenuto che la sentenza d’appello contenesse implicitamente un rigetto di tale domanda, veniva lamentata la nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione previsto dagli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 111, comma 6, Cost. La Suprema Corte ha accolto questa censura, rilevando che la Corte d’Appello aveva effettivamente omesso di pronunciarsi sulla specifica richiesta di ristoro del danno morale quale componente autonoma del danno non patrimoniale. Per comprendere la fondatezza del motivo occorre analizzare nel dettaglio come la Corte territoriale aveva operato la liquidazione del danno. La sentenza impugnata, dopo aver determinato l’invalidità permanente nella misura dell’undici per cento, aveva applicato le Tabelle del Tribunale di Milano edizione 2021. Considerando l’età della danneggiata al momento del sinistro (trent’anni) e la percentuale di invalidità accertata, la Corte aveva liquidato a titolo di danno non patrimoniale permanente la somma di euro 22.112,00, alla quale aveva poi aggiunto le somme relative all’invalidità temporanea totale e parziale e le spese mediche, giungendo a un totale di euro 35.154,50, poi ridotto in ragione del settanta per cento di concorso di colpa della vittima. Il problema rilevato dalla Cassazione risiede nel fatto che le Tabelle Milanesi, correttamente richiamate e applicate dalla Corte d’Appello, prevedono per un soggetto di trent’anni con invalidità permanente dell’undici per cento un