Amministratore di fatto e dichiarazione infedele: quando il prestanome risponde penalmente

La Cassazione chiarisce i confini della responsabilità penale tributaria dell’amministratore formale e l’applicabilità del dolo eventuale nei reati di dichiarazione infedele Con sentenza n. 34191 depositata il 22 settembre 2025, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione si pronuncia su una questione di particolare rilevanza per il diritto penale tributario: la configurabilità della responsabilità penale dell’amministratore formale di una società che si difende sostenendo di essere un mero prestanome inconsapevole delle condotte illecite poste in essere dal vero dominus dell’impresa. La vicenda trae origine dalla condanna pronunciata dal Tribunale di Milano e confermata dalla Corte d’Appello nei confronti di un soggetto per il reato di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, commesso nella sua qualità di amministratore unico di una società a responsabilità limitata. L’imputato aveva impugnato la sentenza di appello articolando il ricorso in tre motivi, lamentando vizi di motivazione e violazioni di legge sia sul piano processuale che sostanziale. La questione della documentazione digitale: il sistema TIAP nel processo penale Il primo motivo di ricorso solleva una questione processuale di crescente attualità nell’era della digitalizzazione della giustizia: la valenza probatoria degli atti processuali conservati in formato digitale attraverso il sistema TIAP (Trattamento Informatico degli Atti Processuali). La difesa lamentava che la deposizione del teste dell’accusa si era fondata su documenti mai prodotti materialmente nel fascicolo del Pubblico Ministero, denunciando una lesione dei diritti di difesa e del contraddittorio. La Corte di Cassazione ha respinto questa censura come infondata, richiamando il proprio insegnamento consolidato in materia di amministrazione digitale degli atti processuali. I giudici di legittimità hanno evidenziato che, secondo quanto previsto dall’art. 22 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), le copie digitali di atti rilasciate dai depositari pubblici autorizzati o dai pubblici ufficiali, prodotte mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico, assumono la stessa efficacia dell’atto cartaceo. Tale principio è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 27910/2019 e Sez. 3, n. 5018/2024). Nel caso concreto, la Corte ha rilevato che la difesa non aveva contestato la precisazione effettuata in udienza dal Pubblico Ministero secondo cui gli atti erano stati “tiapizzati”, né aveva dedotto la sussistenza di condizioni ostative all’utilizzo degli atti medesimi. In tale contesto, la difesa avrebbe dovuto chiedere l’accesso al sistema TIAP per esaminare ed estrarre copia degli atti, operazione che possono compiere tutti i soggetti che sostengono l’ipotesi di accusa. La Suprema Corte ha quindi chiarito che il mancato accoglimento di tale richiesta avrebbe certamente dato luogo alla lesione dei diritti di difesa denunciata, ma nel caso di specie il difensore avrebbe dovuto sollecitare la controparte alla produzione degli atti prima della conclusione dell’istruttoria, oppure chiedere un termine per poter controesaminare il teste di accusa alla luce degli atti evocati nel corso della deposizione. Non risultando che la difesa avesse intrapreso alcuna iniziativa in tal senso, la stessa aveva accettato la situazione per poi proporre la questione in appello in modo tardivo. Prestanome o amministratore consapevole? La valutazione del dolo nel reato tributario Il secondo motivo di ricorso – il più rilevante sul piano sostanziale – attiene alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato. L’imputato si difendeva sostenendo di aver accettato di rivestire, per amicizia, la carica di amministratore della società e di aver sottoscritto le dichiarazioni fiscali per l’anno 2015 senza operare alcun controllo, configurandosi quindi come mero prestanome inconsapevole del vero dominus della società. I giudici di merito avevano invece concordemente ritenuto che, pur essendo emersa la figura di altro soggetto come dominus effettivo della società, l’imputato non poteva essere considerato un semplice inconsapevole prestanome. Tale valutazione si fondava su una serie di elementi convergenti accuratamente valorizzati nelle sentenze di merito. In particolare, era emerso che l’imputato aveva lavorato per circa un decennio nelle aziende del gruppo facente capo al vero dominus. Il Tribunale di primo grado aveva richiamato alcune significative dichiarazioni dello stesso ricorrente, dalle quali emergeva che questi era impegnato sia quale docente nei corsi di formazione tenuti dalla società, sia nel coordinamento delle unità operative, fungendo da riferimento tecnico per gli altri docenti. Aveva inoltre accettato la carica di amministratore delegato della società senza ricevere compensi correlati alla carica stessa e senza conoscere le ragioni che avevano indotto il dominus a nominarlo, pur avendo quest’ultimo comunicato di non poter comparire come amministratore per ragioni legate evidentemente ad aspetti di rischio. Su tali basi, e alla luce delle condizioni personali dell’imputato – soggetto non esperto di contabilità ma culturalmente attrezzato, oltre che a conoscenza dei meccanismi di funzionamento della realtà imprenditoriale in cui si trovava ad operare – il Tribunale aveva ritenuto che il ricorrente fosse pienamente consapevole degli obblighi inerenti la carica rivestita e responsabile delle condotte penalmente rilevanti. La Corte d’Appello aveva confermato tale valutazione, ritenendo configurabile il dolo specifico del reato di dichiarazione infedele nella forma del dolo eventuale, non solo alla luce di quanto evidenziato dal primo giudice, ma anche sottolineando che l’imputato era tenuto a verificare che la società da lui rappresentata fosse in regola con la normativa fiscale. Il dolo eventuale nei reati tributari: l’orientamento giurisprudenziale La Cassazione ha confermato l’impostazione dei giudici di merito, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di dolo nei reati tributari. La giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (Sez. 3, n. 52411/2018 e Sez. 3, n. 12680/2020). Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto applicabile tale indirizzo interpretativo sulla scorta di plurime convergenti indicazioni: il risalente rapporto fiduciario che legava il ricorrente al vero dominus; l’accettazione della carica amministrativa nella piena consapevolezza che quest’ultimo corresse “rischi” nel comparire ufficialmente come amministratore; l’accettazione per il dominus di essere esautorato

Dichiarazione infedele e metodi di accertamento: i limiti dello spesometro secondo la Cassazione

La Suprema Corte chiarisce quando il giudice può utilizzare l’accertamento induttivo e quando occorre un fondamento documentale preciso per condannare per dichiarazione infedele La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32593 del 21 maggio 2025, offre un importante contributo interpretativo in materia di reati tributari dichiarativi, chiarendo i confini tra i diversi metodi di accertamento utilizzabili dal giudice penale per valutare la sussistenza del reato di dichiarazione infedele. La decisione interviene su una questione tecnica ma dalle rilevanti implicazioni pratiche: quando è possibile fondare una condanna penale tributaria esclusivamente sui dati dello spesometro e quando invece è necessario un accertamento più articolato basato sulla documentazione contabile. La vicenda processuale trae origine dalla condanna in primo e secondo grado di una contribuente accusata di avere indicato nelle dichiarazioni fiscali relative agli anni 2015 e 2016 elementi passivi fittizi, conseguendo un profitto determinato complessivamente in circa sedicimila euro tra le due annualità. Il Tribunale di Milano aveva dichiarato la responsabilità penale per il reato previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000, che punisce la dichiarazione infedele quando l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, supera determinate soglie di rilevanza penale. La Corte d’Appello di Milano aveva confermato integralmente la sentenza di primo grado, respingendo le censure difensive articolate dall’imputata. Il ricorso per cassazione si sviluppava attraverso quattro distinti motivi, ciascuno dei quali merita un’analisi specifica perché consente di chiarire aspetti rilevanti della disciplina penale tributaria che interessano tanto i professionisti quanto i contribuenti. Il primo motivo, quello più significativo dal punto di vista tecnico-giuridico, lamentava una violazione di legge relativa ai criteri di accertamento della violazione tributaria. La difesa sosteneva che i giudici di merito avessero erroneamente ritenuto sufficiente lo strumento dello spesometro per accertare l’evasione, laddove tale strumento avrebbe carattere meramente presuntivo e non potrebbe sostituire un vero e proprio accertamento contabile accompagnato dalla verifica dell’effettiva realizzazione delle operazioni. Secondo la ricorrente, i precedenti giurisprudenziali richiamati nelle sentenze di merito riguardavano in realtà l’omessa dichiarazione fiscale e non la dichiarazione infedele, trattandosi di fattispecie diverse che richiedono metodi probatori differenti. La Cassazione accoglie parzialmente le premesse teoriche di questa censura ma ne respinge le conclusioni concrete, offrendo così un importante chiarimento di principio. La Suprema Corte conferma che effettivamente lo strumento dello spesometro, inteso come sistema di controllo delle operazioni rilevanti ai fini IVA attraverso l’incrocio dei dati comunicati dai diversi operatori economici, non può costituire da solo il fondamento di una condanna per dichiarazione infedele. Questo strumento trova invece applicazione tipica nella fattispecie dell’omessa dichiarazione, prevista dall’articolo 5 del medesimo decreto legislativo, dove il contribuente non abbia presentato la dichiarazione pur essendo obbligato a farlo e le scritture contabili siano irregolarmente tenute. La distinzione appare sottile ma è in realtà fondamentale. Nel caso dell’omessa dichiarazione, il contribuente non ha adempiuto affatto all’obbligo dichiarativo e generalmente tiene una contabilità irregolare, sicché il fisco deve ricostruire la base imponibile utilizzando metodi presuntivi o indiretti, tra cui appunto lo spesometro. Nel caso della dichiarazione infedele, invece, il contribuente ha presentato la dichiarazione ma ha indicato dati falsi, e la falsità deve essere provata confrontando quanto dichiarato con la reale situazione contabile e documentale. In questo secondo caso, quindi, non è sufficiente un accertamento presuntivo basato su dati indiretti, ma occorre un riscontro documentale specifico che dimostri l’infedeltà della dichiarazione. Tuttavia, precisa la Cassazione richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, anche in tema di dichiarazione infedele il giudice può legittimamente fare ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, e può anche utilizzare il metodo induttivo di accertamento quando le scritture contabili siano state irregolarmente tenute. La sentenza richiama espressamente una pronuncia del 2008 secondo cui lo strumento dello spesometro consente la determinazione del reddito imponibile di un soggetto che debba regolarmente provvedere alla tenuta di scritture e documenti contabili comprovanti i suoi flussi, attivi e passivi, di reddito, sulla base della documentazione emessa o a lui indirizzata e conservata dai soggetti che con codesto soggetto siano venuti in affari. La Corte chiarisce quindi che nel caso concreto non si è trattato di un vero e proprio accertamento induttivo basato su presunzioni semplici, bensì di un accertamento documentale fondato su specifici dati contabili risultanti dai sistemi di controllo fiscale. La differenza è sostanziale: l’accertamento induttivo ricostruisce la base imponibile attraverso elementi indiziari e presunzioni quando manchi una documentazione attendibile, mentre l’accertamento documentale si fonda su documenti contabili specifici la cui concludenza e veridicità è compito del contribuente contestare. Nel caso esaminato, dunque, la condanna non si fondava su mere presunzioni ricavate dallo spesometro, ma su specifici riscontri documentali che dimostravano l’indicazione di elementi passivi inesistenti. Questa precisazione consente alla Cassazione di respingere anche il secondo e il terzo motivo di ricorso, che lamentavano rispettivamente la violazione delle norme sui requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per le presunzioni semplici e la contraddittorietà della motivazione in punto di legittimità del ricorso al metodo induttivo. Poiché, come chiarito, non si è trattato di accertamento induttivo in senso proprio ma di accertamento documentale, le doglianze relative ai requisiti delle presunzioni semplici risultano ultronee. Il carattere non meramente presuntivo dell’accertamento operato, fondato invece su precisi dati contabili estratti dai sistemi di controllo fiscale, rende irrilevanti le censure sulla necessità di un ragionamento inferenziale particolarmente rigoroso. La Corte sottolinea che l’accertamento è stato di natura documentale perché fondato su specifici dati contabili risultanti dalla documentazione fiscale e non su una ricostruzione presuntiva del reddito. Nel caso specifico, quindi, le doglianze difensive si rivelavano infondate perché fondate su un equivoco di fondo circa la natura dell’accertamento effettivamente posto a base della condanna. I giudici di merito non avevano utilizzato lo spesometro come strumento presuntivo isolato, ma lo avevano impiegato come fonte di dati documentali che, incrociati con la documentazione contabile dell’imputata, dimostravano oggettivamente l’indicazione di costi inesistenti. Il quarto motivo di ricorso riguardava il diniego delle circostanze attenuanti generiche previste dall’articolo 62-bis del codice penale. Anche questa censura viene respinta dalla Cassazione con