Morso del Cane: Quando il Proprietario Risponde Sempre (O Quasi)

Una recente sentenza del Tribunale di Roma ribadisce la natura oggettiva della responsabilità ex art. 2052 c.c. e i limiti ristretti per l’esenzione Il proprietario di un cane che aggredisce un passante deve risarcire i danni, anche se l’animale era affidato a un familiare e anche se ha adottato tutte le precauzioni possibili. È quanto emerge dalla sentenza n. 12916/2025 del Tribunale di Roma, pubblicata lo scorso 22 settembre, che offre l’occasione per fare chiarezza su un tema che tocca da vicino moltissimi cittadini: la responsabilità civile per i danni causati dagli animali domestici. Il caso: un’aggressione nel parco cittadino La vicenda trae origine da un episodio apparentemente ordinario ma dalle conseguenze dolorose. Una donna, mentre passeggiava con il proprio cagnolino al guinzaglio in un parco pubblico, veniva aggredita da un pastore tedesco lasciato libero di correre senza museruola. L’animale, condotto in quel momento dalla figlia minorenne della proprietaria, si avventava sulla donna mordendola al fianco destro e causandole lesioni che richiedevano l’intervento del Pronto Soccorso, con una prognosi iniziale di dieci giorni. La danneggiata decideva quindi di agire in giudizio nei confronti della proprietaria del cane, chiedendo il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, quantificati complessivamente in oltre dodicimila euro. La convenuta, tuttavia, sceglieva di non costituirsi in giudizio, rimanendo contumace per l’intero corso del processo. Il fondamento giuridico: l’art. 2052 c.c. e la responsabilità oggettiva Il Tribunale capitolino ha fondato la propria decisione sull’applicazione dell’art. 2052 c.c., norma cardine in materia di responsabilità per danni cagionati da animali. Tale disposizione stabilisce che il proprietario di un animale, o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale stesso, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito. Come chiarito da consolidata giurisprudenza di legittimità, citata puntualmente nella sentenza in commento (Cass. civ., Sez. III, n. 10402/2016; Cass. civ., Sez. III, n. 17091/2014; Cass. civ., Sez. III, n. 15895/2011), questa forma di responsabilità presenta carattere oggettivo. Ciò significa che non si fonda su un comportamento colposo del proprietario o del custode, né su una condotta commissiva o omissiva specifica, ma esclusivamente sulla relazione intercorrente tra il soggetto responsabile e l’animale, unitamente al nesso causale tra il comportamento dell’animale e l’evento dannoso. La ratio della norma risiede nell’esigenza di tutelare i terzi dai rischi connessi alla detenzione di animali, attribuendo al proprietario o custode un dovere qualificato di controllo e vigilanza. Tale dovere non si esaurisce nella comune diligenza, ma impone un’effettiva disponibilità giuridica e materiale sull’animale, con il correlato potere-dovere di intervento per controllarlo, evitare situazioni di pericolo e impedire che produca danni. La prova liberatoria: il caso fortuito e i suoi requisiti stringenti Il Tribunale di Roma ha ribadito con fermezza che l’unica causa di esonero dalla responsabilità è rappresentata dal caso fortuito. Ma cosa si intende esattamente per caso fortuito in questo contesto? La giurisprudenza ha elaborato criteri rigorosi: deve trattarsi di un fattore esterno, estraneo alla sfera soggettiva del convenuto, che presenti congiuntamente i caratteri dell’imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità, risultando idoneo a interrompere il nesso causale tra l’animale e il danno. Non è sufficiente, dunque, dimostrare di aver tenuto l’animale al guinzaglio, di averlo affidato a persona capace, di aver adottato tutte le precauzioni normalmente richieste. Occorre provare l’intervento di un evento del tutto imprevedibile ed eccezionale che abbia reso inevitabile il danno nonostante ogni possibile precauzione. Nel caso deciso dal Tribunale romano, la proprietaria non ha fornito alcuna prova in tal senso, rimanendo contumace, ma il giudice ha escluso che potesse comunque configurarsi un caso fortuito sulla base dei fatti accertati. Elemento significativo è che la responsabilità del proprietario sussiste anche quando l’animale è affidato alla vigilanza di un terzo. Nel caso di specie, il pastore tedesco era condotto dalla figlia minorenne della proprietaria, ma ciò non ha esonerato quest’ultima dalla responsabilità. Il principio è chiaro: chi detiene la proprietà o il possesso dell’animale mantiene la responsabilità per i danni da esso cagionati, indipendentemente da chi materialmente lo accudisce o lo porta a passeggio in quel momento specifico. La ripartizione dell’onere probatorio La sentenza offre anche utili indicazioni sulla distribuzione degli oneri probatori tra le parti. Grava sul danneggiato l’onere di provare tre elementi: l’esistenza del rapporto di proprietà o custodia tra il convenuto e l’animale, il nesso causale tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, e l’entità del danno subito. Nel caso esaminato, la danneggiata ha assolto pienamente a tale onere mediante la produzione del certificato di proprietà dell’animale dall’anagrafe canina, le testimonianze di chi aveva assistito all’aggressione e la consulenza tecnica d’ufficio che ha accertato il nesso causale tra le lesioni e il morso del cane. Sul convenuto, invece, grava l’eventuale onere di provare il caso fortuito quale causa interruttiva del nesso causale. Si tratta di un onere particolarmente gravoso, data la natura oggettiva della responsabilità e i requisiti stringenti richiesti per la configurazione del caso fortuito. La liquidazione del danno: criteri e parametri applicati Accertata la responsabilità, il Tribunale ha proceduto alla quantificazione del danno avvalendosi della consulenza tecnica d’ufficio medico-legale. Il consulente ha accertato che la danneggiata aveva riportato una ferita lacero-contusa al fianco destro, con esito cicatriziale permanente, configurante un lieve pregiudizio fisiognomico. Il danno biologico permanente è stato quantificato nella misura del 3,5%, con un’invalidità temporanea assoluta di dieci giorni e successiva invalidità temporanea parziale al 50% per ulteriori dieci giorni. Per la liquidazione, il giudice ha fatto riferimento alle tabelle in uso presso il Tribunale di Roma, aggiornate al 2025, riconoscendo alla danneggiata la somma di euro 4.610,50 per l’invalidità permanente ed euro 1.953,75 per l’inabilità temporanea, per un totale di danno biologico pari a euro 6.564,25. A tale importo è stato aggiunto il danno morale, liquidato equitativamente in euro 500,00 in considerazione del dolore, del disagio e delle sofferenze patite, nonché le spese mediche documentate pari a euro 27,48. Significativo è il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.