Compensi professionali dell’avvocato: la Cassazione chiarisce i criteri di liquidazione tra attività stragiudiziale e giudiziale

La Suprema Corte definisce i confini applicativi del rito sommario per i compensi forensi e ribadisce i principi di interpretazione contrattuale nella determinazione degli onorari Una recente pronuncia della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, affrontando questioni cruciali che riguardano tanto i professionisti legali quanto i loro assistiti. La decisione interviene su temi di grande rilevanza pratica, quali l’ambito di applicazione del procedimento sommario previsto per le controversie sui compensi, i criteri di interpretazione degli accordi tra avvocato e cliente, e le regole per la determinazione delle maggiorazioni tariffarie in presenza di pluralità di controparti. La vicenda processuale trae origine da una richiesta di pagamento di compensi professionali avanzata da un avvocato nei confronti del proprio assistito, un ingegnere, per l’attività svolta sia in fase stragiudiziale sia nel corso di un complesso giudizio civile relativo a una successione ereditaria. L’importo richiesto ammontava complessivamente a circa duecentodiciassettemila euro, di cui circa novantacinquemila per l’attività stragiudiziale e circa cinquantaquattromila per quella giudiziale. Il professionista aveva assistito il cliente inizialmente in una fase negoziale e successivamente in un procedimento giudiziario conclusosi con una transazione dopo un tentativo di mediazione. Le parti avevano stipulato un primo accordo nel novembre duemilanove, prevedendo che il compenso sarebbe stato determinato secondo le tariffe forensi vigenti all’epoca. Con una successiva scrittura del maggio duemiladodici, avevano precisato che gli onorari sarebbero stati applicati nella misura massima prevista dal decreto ministeriale. Tuttavia, il cliente aveva corrisposto al professionista soltanto un acconto di diecimila euro, senza poi saldare il residuo nonostante le reiterate richieste. Il Tribunale di Milano, investito della controversia attraverso un procedimento per decreto ingiuntivo, aveva accolto solo parzialmente le richieste del professionista, riconoscendo compensi per circa ventottomila euro relativi esclusivamente all’attività giudiziale, rigettando invece integralmente la domanda concernente l’attività stragiudiziale. Questa decisione aveva spinto l’avvocato a proporre ricorso per cassazione, articolato su quattro distinti motivi di censura. Il procedimento sommario e i compensi stragiudiziali Il primo nucleo tematico affrontato dalla Suprema Corte riguarda l’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione previsto dall’articolo quattordici del decreto legislativo centocinquanta del duemilaundici per le controversie relative ai compensi professionali forensi. Il ricorrente sosteneva che anche le prestazioni stragiudiziali potessero essere richieste mediante tale rito speciale, in quanto strettamente connesse all’attività giudiziaria successivamente svolta per il medesimo cliente e con finalità unitarie. La Corte ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il procedimento sommario contemplato dalla norma si applica esclusivamente ai giudizi concernenti la liquidazione di compensi per prestazioni giudiziali rese in materia civile, potendosi estendere alle attività stragiudiziali soltanto quando queste risultino strettamente correlate alle prime. Il discrimine fondamentale risiede nel carattere di autonomia o di complementarietà dell’attività stragiudiziale rispetto a quella propriamente processuale. Nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che il Tribunale milanese avesse correttamente accertato il carattere autonomo delle prestazioni stragiudiziali rispetto all’attività giudiziaria successiva. Tale valutazione, fondata sull’esame delle concrete modalità di svolgimento del mandato professionale, appartiene al merito della controversia e non può essere rimessa in discussione in sede di legittimità se adeguatamente motivata. Il giudice di merito aveva infatti rilevato che le attività stragiudiziali svolte tra il duemilanove e il duemiladodici presentavano una propria fisionomia distinta, non configurandosi come mera preparazione o complemento necessario dell’azione giudiziaria intrapresa successivamente. Questo principio assume particolare rilievo pratico per i professionisti legali, poiché impone una valutazione attenta della natura delle prestazioni rese prima di scegliere lo strumento processuale attraverso cui far valere le proprie ragioni creditorie. L’utilizzo improprio del rito sommario per prestazioni stragiudiziali autonome può infatti esporre al rischio di un rigetto in rito della domanda, con conseguente necessità di instaurare un nuovo giudizio secondo le forme ordinarie. L’interpretazione degli accordi sul compenso professionale Il secondo aspetto di grande interesse riguarda l’applicazione dei principi di interpretazione contrattuale agli accordi intercorsi tra avvocato e cliente in ordine alla determinazione del compenso. Il caso presentava la peculiarità che le parti avevano formalizzato la propria intesa attraverso due distinti documenti scritti, redatti a distanza di tempo l’uno dall’altro. La Cassazione ha accolto la censura del ricorrente su questo punto, richiamando il fondamentale principio stabilito dall’articolo milletrecentosessantatré del codice civile. Tale norma impone al giudice, quando una medesima vicenda negoziale e i relativi effetti abbiano formato oggetto di più atti scritti, di esaminarli tutti congiuntamente per stabilire il rapporto intercorrente tra le varie clausole e documenti. Occorre cioè verificare se le pattuizioni successive costituiscano un chiarimento, un’integrazione, una modificazione, una trasformazione oppure un annullamento delle precedenti convenzioni. Il Tribunale di primo grado aveva invece compiuto un errore metodologico, concentrando la propria analisi esclusivamente sulla scrittura del maggio duemiladodici e deducendone che il professionista non avesse diritto ad alcun compenso oltre ai soli onorari. Tale approccio risultava viziato perché non prendeva in considerazione l’originario accordo del novembre duemilanove, che aveva costituito la base iniziale del rapporto professionale e nel quale erano stati definiti i criteri generali di determinazione del compenso. La corretta metodologia interpretativa avrebbe richiesto un esame sistematico di entrambi i documenti, per verificare se la seconda scrittura intendesse effettivamente escludere i diritti precedentemente riconosciuti oppure se si limitasse a specificare la misura degli onorari senza incidere sulle altre componenti del compenso previste dalla tariffa professionale vigente. In particolare, il ricorrente sosteneva che la precisazione relativa all’applicazione degli onorari nella misura massima non implicasse necessariamente la rinuncia ai cosiddetti diritti, che costituivano una voce distinta e autonoma della parcella professionale, caratterizzata da importi fissi e inderogabili secondo la disciplina tariffaria dell’epoca. Questo aspetto della pronuncia riveste notevole importanza pratica perché evidenzia come la formazione progressiva degli accordi professionali richieda particolare attenzione nella redazione dei documenti successivi, che devono chiarire in modo inequivocabile se intendano sostituire integralmente le precedenti pattuizioni oppure semplicemente integrarle o specificarle. Per il professionista, ciò comporta la necessità di prestare massima cura nella formulazione delle scritture integrative, evitando ambiguità che possano successivamente essere interpretate in senso sfavorevole. Per il cliente, emerge l’importanza di verificare che ogni modifica degli accordi originari venga espressa in termini chiari e