L’Assegno Divorzile tra Prova e Strategia: Come Dimostrare i Presupposti dopo la Rivoluzione delle Sezioni Unite

L’evoluzione giurisprudenziale recente offre preziose indicazioni operative per orientare la strategia difensiva nelle controversie matrimoniali Quando un matrimonio giunge al capolinea, una delle questioni più delicate che si presenta all’avvocato riguarda la valutazione delle concrete possibilità di ottenere l’assegno divorzile per il proprio assistito. Non si tratta soltanto di applicare una norma, ma di costruire una strategia probatoria che tenga conto di un’evoluzione giurisprudenziale profonda, che ha radicalmente trasformato l’approccio a questo istituto negli ultimi anni. Dal Tenore di Vita al Principio dell’Autosufficienza: La Svolta del 2018 Per comprendere le sfide probatorie attuali, è necessario partire dalla rivoluzione copernicana operata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287 del 2018. Prima di quella pronuncia, l’assegno divorzile era sostanzialmente ancorato al mantenimento del tenore di vita matrimoniale, creando una sorta di “pensione coniugale” che spesso prescindeva dalle effettive capacità economiche del richiedente. La nuova impostazione ha invece introdotto un sistema a doppio binario che richiede una comprensione più sofisticata da parte del professionista. Da un lato troviamo la funzione assistenziale, destinata a chi versa in stato di bisogno economico effettivo. Dall’altro emerge la funzione compensativa-perequativa, che mira a riequilibrare situazioni di squilibrio derivanti dalle scelte condivise durante il matrimonio. Questo cambiamento di paradigma ha inevitabilmente trasformato anche l’onere probatorio delle parti, richiedendo un approccio strategico completamente diverso. Lo Squilibrio Economico come Porta d’Ingresso: Il Nuovo Filtro Preliminare La giurisprudenza di legittimità ha chiarito un aspetto fondamentale che ogni avvocato deve comprendere profondamente: prima ancora di verificare i tradizionali parametri dell’articolo 5 della Legge 898/1970, il giudice deve accertare l’esistenza di uno squilibrio economico-patrimoniale significativo tra i coniugi. Questo rappresenta la vera “conditio sine qua non” per accedere al beneficio. Dal punto di vista pratico, questo significa che l’avvocato deve oggi strutturare la propria strategia su due livelli distinti e sequenziali. Il primo livello, che possiamo definire “filtro di accesso”, richiede la dimostrazione di un divario economico reale e sostanziale tra le parti. Questa valutazione non può limitarsi ai soli aspetti reddituali, ma deve estendersi alla considerazione patrimoniale complessiva, includendo beni immobili, investimenti, liquidità disponibili e ogni altro elemento che concorra a definire la situazione economica effettiva. Il secondo livello, che si attiva solo se superato positivamente il primo, riguarda la verifica dei criteri equiordinati stabiliti dal legislatore. È fondamentale comprendere che saltare o sottovalutare il primo livello comporta inevitabilmente il fallimento dell’intera strategia processuale. La Rivoluzione delle Presunzioni: Nuovi Strumenti Probatori Uno degli aspetti più interessanti dell’evoluzione giurisprudenziale riguarda l’ammissibilità delle presunzioni come strumento probatorio principale. La Cassazione ha progressivamente abbandonato l’esigenza di prove documentali specifiche sui sacrifici professionali compiuti durante il matrimonio, accettando invece quello che viene definito come un “quadro probatorio comparativo” basato su una “chiara fotografia della conduzione della vita familiare”. Questo approccio pragmatico rappresenta una svolta significativa per la pratica forense che merita di essere analizzata nel dettaglio. Non è più necessario dimostrare puntualmente le aspirazioni professionali cui si è rinunciato o quantificare esattamente il danno economico subito. La giurisprudenza ha riconosciuto che spesso questi elementi sono difficilmente documentabili in modo specifico, soprattutto quando si tratta di scelte familiari che si sono consolidate nel tempo attraverso comportamenti conclusivi piuttosto che decisioni formali. Diventa invece cruciale ricostruire in modo convincente e documentato la divisione dei ruoli familiari e l’impegno prevalente di uno dei coniugi nella gestione domestica e nella cura dei figli. Questa ricostruzione può avvalersi di testimonianze, documentazione relativa alle attività scolastiche dei figli, prove della gestione delle attività domestiche, evidenze dei viaggi di lavoro dell’altro coniuge e tutti quegli elementi che, nel loro insieme, delineano un quadro probatorio convincente. Strategie Defensive: Costruire la Narrazione Processuale La giurisprudenza recente offre preziose indicazioni su come strutturare efficacemente la difesa nelle controversie matrimoniali, evidenziando errori comuni che possono compromettere l’esito del giudizio. Dal lato del coniuge richiedente, emerge l’importanza di costruire un quadro probatorio che evidenzi chiaramente il proprio ruolo prevalente nella gestione familiare durante il matrimonio. Questo richiede una strategia articolata che dimostri non solo il sacrificio professionale compiuto, ma anche il contributo concreto dato alla famiglia e, parallelamente, il vantaggio che ne ha tratto l’altro coniuge in termini di carriera e sviluppo professionale. Contemporaneamente, è fondamentale documentare la propria situazione economica attuale attraverso una fotografia completa che non si limiti ai soli redditi da lavoro, ma che includa anche le prospettive future, le limitazioni derivanti dall’età o dalle condizioni di salute, e tutti gli elementi che possano influire sulla capacità di raggiungere l’autosufficienza economica. Dal lato opposto, la strategia difensiva deve puntare sulla dimostrazione dell’autosufficienza economica dell’ex coniuge, valorizzando tutti gli elementi patrimoniali disponibili. La giurisprudenza ha censurato severamente i giudici di merito che hanno ignorato elementi probatori significativi come vendite immobiliari, estinzioni di mutui, cessazioni di oneri locativi o altre modificazioni patrimoniali rilevanti. Questi elementi dimostrano come una valutazione superficiale delle condizioni economiche possa comportare l’annullamento della decisione e la necessità di rinnovare il giudizio. L’Importanza del Timing: Quando Valutare le Condizioni Economiche Un aspetto spesso trascurato nella pratica forense riguarda il momento in cui deve essere effettuata la valutazione delle condizioni economiche delle parti. La giurisprudenza sottolinea l’importanza di considerare i cambiamenti intervenuti tra la fase della separazione e quella del divorzio, evidenziando come situazioni inizialmente legittime possano perdere i propri presupposti a causa di mutamenti sopravvenuti. Questo principio ha implicazioni pratiche immediate che ogni professionista deve considerare. Nel periodo che intercorre tra separazione e divorzio possono verificarsi cambiamenti significativi: uno dei coniugi può trovare un’occupazione stabile, possono essere venduti beni immobiliari, possono estinguersi debiti o mutui, o possono modificarsi le condizioni di salute. Tutti questi elementi devono necessariamente incidere sulla valutazione complessiva del diritto all’assegno. La strategia processuale deve quindi prevedere un costante aggiornamento della situazione economica delle parti, evitando di basare le proprie argomentazioni su dati obsoleti che potrebbero compromettere l’efficacia della difesa. Gli Errori da Evitare: Lezioni dalla Giurisprudenza L’analisi della giurisprudenza recente evidenzia alcuni errori ricorrenti che possono compromettere l’esito del giudizio. Il primo e più grave riguarda la valutazione incompleta delle condizioni economiche delle parti. Limitarsi a considerare i

Detrazioni per figli maggiorenni di genitori separati: la Cassazione chiarisce definitivamente i criteri di ripartizione

La recente pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Tributaria (ordinanza n. 15224/2025 del 7 giugno 2025) ha definitivamente risolto una questione interpretativa di particolare rilevanza pratica in materia di detrazioni fiscali per carichi di famiglia, concernente specificamente il regime applicabile ai figli che raggiungano la maggiore età in costanza di separazione legale dei genitori. La fattispecie concreta e l’evoluzione del contenzioso Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dalla vicenda di una contribuente, legalmente separata e affidataria esclusiva dei figli durante la loro minore età, che aveva indicato nella propria dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2012 la detrazione per figli a carico nella misura integrale del 100%. L’Amministrazione finanziaria aveva successivamente contestato tale comportamento dichiarativo attraverso l’emissione di una cartella esattoriale, sostenendo che al raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, in assenza di uno specifico accordo tra i genitori separati, la detrazione avrebbe dovuto necessariamente essere ripartita nella misura del 50% tra ciascun genitore. Il contenzioso aveva registrato esiti alterni nei gradi di merito. La Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone aveva inizialmente accolto le ragioni della contribuente, annullando l’atto impositivo. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, aveva successivamente riformato tale decisione, ritenendo fondata la tesi dell’Ente impositore e riaffermando la piena validità della cartella di pagamento. Il quadro normativo di riferimento La disciplina delle detrazioni per carichi di famiglia è regolata dall’art. 12 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. n. 917 del 1986), il quale, nella formulazione applicabile ratione temporis, stabilisce che “dall’imposta lorda si detraggono per carichi di famiglia i seguenti importi: c) 800 euro per ciascun figlio. In caso di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, la detrazione spetta, in mancanza di accordo, al genitore affidatario”. La norma delinea pertanto un criterio generale di attribuzione della detrazione al genitore affidatario nelle ipotesi di separazione legale, senza tuttavia specificare espressamente le conseguenze derivanti dal raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, momento in cui cessa l’istituto dell’affidamento. L’orientamento della prassi amministrativa Un elemento di particolare significato nell’economia della decisione è rappresentato dalla circostanza che la stessa Amministrazione finanziaria aveva fornito, attraverso la normativa di prassi, un’interpretazione della disciplina sostanzialmente divergente rispetto alla tesi sostenuta nel contenzioso in esame. Con Circolare n. 15/E del 16 marzo 2007, l’Agenzia delle Entrate aveva infatti chiarito che “nelle ipotesi in cui la norma richiede la condizione dell’affidamento disgiunto o congiunto per l’assegnazione della detrazione, rispettivamente, nella misura intera ovvero nella misura del 50 per cento, si ritiene che i genitori possano continuare, salvo diverso accordo, a fruire per il figlio maggiorenne e non portatore di handicap, della detrazione ripartita nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio”. Tale orientamento era stato successivamente confermato con Circolare n. 34/E del 2008, consolidando così un indirizzo interpretativo che privilegiava la continuità del regime di ripartizione delle detrazioni anche oltre il raggiungimento della maggiore età. La soluzione adottata dalla Suprema Corte La Cassazione ha accolto il ricorso della contribuente, cassando la decisione impugnata e decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, del Codice di Procedura Civile. La motivazione della Suprema Corte si articola su una duplice argomentazione, di carattere sia sistematico che teleologico. In primo luogo, i giudici di legittimità hanno evidenziato come la tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria non trovasse “fondamento in alcuna norma di legge o principio, del diritto tributario così come di quello di famiglia”, risultando inoltre in contrasto con la stessa normativa di prassi emanata dall’Ente impositore. La Corte ha sottolineato l’incoerenza dell’atteggiamento processuale dell’Amministrazione, che sosteneva in giudizio una tesi diametralmente opposta rispetto a quella espressa negli atti di indirizzo generale. In secondo luogo, dal punto di vista sistematico, la Suprema Corte ha posto in evidenza come l’interpretazione accolta garantisca continuità e certezza nei rapporti giuridici, evitando che il semplice raggiungimento della maggiore età del figlio determini automaticamente una modificazione del regime delle detrazioni fiscali in assenza di una specifica manifestazione di volontà delle parti interessate. Il principio di diritto enunciato La decisione si conclude con l’enunciazione di un principio di diritto di portata generale, destinato a orientare la futura applicazione della disciplina in materia. Secondo la Cassazione, “la detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992 è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”. Tale principio chiarisce definitivamente che il raggiungimento della maggiore età non comporta automaticamente una modifica del regime di ripartizione delle detrazioni precedentemente applicato, garantendo così stabilità e prevedibilità nelle conseguenze fiscali derivanti dalla struttura familiare. Implicazioni pratiche e prospettive applicative La pronuncia in esame riveste particolare importanza sotto il profilo pratico, in quanto fornisce certezza interpretativa su una questione che aveva generato orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito e incertezze applicative nella prassi professionale. La soluzione adottata dalla Suprema Corte appare coerente con i principi generali di continuità e stabilità dei rapporti giuridici, evitando che il semplice decorso del tempo determini automaticamente modificazioni nei diritti acquisiti in assenza di una specifica volontà delle parti. Dal punto di vista operativo, la decisione comporta che i genitori separati o divorziati potranno continuare ad applicare il medesimo regime di ripartizione delle detrazioni per figli a carico anche successivamente al raggiungimento della maggiore età di questi ultimi, senza necessità di stipulare nuovi accordi o modificare le modalità precedentemente adottate. Naturalmente, rimane ferma la possibilità per le parti di convenire diversamente attraverso specifici accordi. La pronuncia assume inoltre rilievo sotto il profilo del rapporto tra interpretazione giurisprudenziale e prassi amministrativa, confermando il valore orientativo degli atti di indirizzo dell’Amministrazione finanziaria quando questi risultino coerenti con i principi generali dell’ordinamento e con la ratio delle disposizioni normative di riferimento.

Le Contraddizioni della Procreazione Medicalmente Assistita: Tra Rigore Normativo e Crisi Demografica

Un’analisi critica delle recenti pronunce della Corte Costituzionale e delle incoerenze sistemiche della legislazione italiana Il Paradosso del Rigore Selettivo Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 68 e 69 del 22 maggio 2025 hanno messo in luce una delle contraddizioni più evidenti del sistema giuridico italiano in materia di procreazione medicalmente assistita: da un lato, si riconosce il diritto alla genitorialità già acquisito all’estero dalle coppie omosessuali femminili (sentenza n. 68), dall’altro, si nega categoricamente l’accesso diretto alle tecniche di PMA alle donne single sul territorio nazionale (sentenza n. 69). Questa apparente incoerenza rivela un approccio normativo che privilegia la gestione delle conseguenze rispetto alla prevenzione delle cause, creando un sistema di “rigore a geometria variabile” che finisce per discriminare le donne in base alla loro capacità economica e alle loro possibilità di movimento transfrontaliero. La Restrizione delle Libertà Individuali: Un Controllo Anacronistico L’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 continua a subordinare l’accesso alla PMA alla sussistenza di requisiti soggettivi che riflettono un modello familiare tradizionale, richiedendo che i richiedenti siano “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. Tale impostazione, benché confermata dalla giurisprudenza costituzionale, risulta sempre più anacronistica rispetto all’evoluzione sociale e ai principi di autodeterminazione individuale. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 69/2025, ha giustificato questa limitazione richiamando il “margine di apprezzamento” dello Stato e la non irragionevolezza della scelta legislativa. Tuttavia, tale argomentazione appare fragile quando confrontata con la realtà fattuale: le donne escluse dall’accesso alle tecniche in Italia non rinunciano al loro progetto genitoriale, ma semplicemente si rivolgono altrove, aggirando de facto i divieti legislativi. Il Turismo Procreativo: Aggiramento Sistematico dei Divieti La rigidità del sistema italiano ha alimentato un fiorente “turismo procreativo” che coinvolge migliaia di donne ogni anno. Secondo i dati disponibili, le destinazioni privilegiate includono Spagna, Belgio, Repubblica Ceca e Danimarca per le tecniche di fecondazione eterologa, mentre per la maternità surrogata molte coppie si rivolgono a Ucraina, Georgia e, più recentemente, Argentina. Questo fenomeno evidenzia l’inefficacia deterrente della normativa italiana e crea una discriminazione sostanziale basata sulle disponibilità economiche: chi può permettersi di viaggiare all’estero aggira i divieti, chi non può rimane escluso dai propri diritti riproduttivi. Il risultato è un sistema che non protegge alcun valore etico superiore, ma semplicemente penalizza le fasce economicamente più deboli della popolazione. La Criminalizzazione Retroattiva: Il Caso della Maternità Surrogata L’approvazione del d.d.l. 824/2024, che estende la perseguibilità del reato di maternità surrogata anche quando commesso all’estero da cittadini italiani, rappresenta un ulteriore inasprimento di una politica già contraddittoria. La modifica dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 introduce una forma di “criminalizzazione extraterritoriale” che pone seri interrogativi sulla coerenza del sistema punitivo. Come rilevato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 38162/2022), il divieto di maternità surrogata costituisce principio di ordine pubblico. Tuttavia, l’estensione della punibilità alle condotte commesse all’estero crea una situazione paradossale: lo Stato italiano pretende di imporre i propri valori etici anche al di fuori dei propri confini, trasformando scelte procreative legali in altri ordinamenti in reati per i propri cittadini. Il Paradosso Demografico: Restrizioni in Tempi di Denatalità La contraddizione più stridente emerge quando si confrontano le politiche restrittive in materia di PMA con l’allarme demografico che attraversa l’Italia e l’intero mondo occidentale. Con un tasso di natalità di 1,24 figli per donna (dati ISTAT 2023), l’Italia si trova in una grave crisi demografica che richiede interventi urgenti per incentivare la natalità. In questo contesto, appare incomprensibile una legislazione che limita artificialmente l’accesso alle tecniche procreative, escludendo categorie di persone che potrebbero contribuire significativamente al rilancio demografico del Paese. Le donne single, le coppie omosessuali femminili e tutti coloro che necessitano di tecniche di PMA avanzate rappresentano una risorsa demografica che il legislatore italiano continua a ignorare. Paesi come Francia, Spagna e Regno Unito hanno già adottato approcci più liberali, consentendo l’accesso alla PMA a una platea più ampia di richiedenti. Non è un caso che questi Stati registrino tassi di natalità superiori a quello italiano e una maggiore capacità di attrarre “turismo procreativo inverso”. L’Incoerenza delle Politiche Pubbliche Il sistema attuale presenta una serie di incoerenze che minano la credibilità dell’intero impianto normativo: Sul piano dei principi costituzionali, si assiste a un bilanciamento squilibrato tra il diritto alla autodeterminazione riproduttiva (art. 2 Cost.) e valori etici di dubbia cogenza costituzionale. La Corte Costituzionale ha riconosciuto l’interesse superiore del minore come principio cardine (sentenza n. 68/2025), ma non ha tratto le conseguenze logiche di tale affermazione in termini di allargamento dell’accesso alle tecniche. Sul piano dell’efficacia normativa, i divieti si rivelano sistematicamente aggirati attraverso il ricorso a ordinamenti più permissivi, vanificando gli obiettivi di tutela etica che il legislatore si proponeva di raggiungere. Sul piano delle politiche demografiche, la restrizione dell’accesso alla PMA contrasta frontalmente con l’esigenza di contrastare il declino demografico, creando un cortocircuito tra obiettivi dichiarati e strumenti normativi adottati. Le Prospettive di Riforma: Verso un Approccio Più Equilibrato L’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni suggerisce l’opportunità di una revisione organica della normativa in materia di PMA. La progressiva demolizione dell’impianto originario della legge 40/2004 da parte della Corte Costituzionale ha creato un sistema frammentario che richiede un intervento legislativo sistematico. Una riforma coerente dovrebbe considerare i seguenti aspetti: L’ampliamento dei requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche, includendo le donne single e le coppie omosessuali, in linea con gli standard europei e con l’evoluzione sociale del concetto di famiglia. La revisione del regime sanzionatorio per la maternità surrogata, distinguendo tra forme commerciali e altruistiche, e eliminando la perseguibilità extraterritoriale che crea discriminazioni irragionevoli. L’introduzione di meccanismi di sostegno economico per l’accesso alle tecniche di PMA, al fine di ridurre le discriminazioni basate sulle disponibilità economiche e contrastare il turismo procreativo. Il coordinamento con le politiche demografiche, riconoscendo nella PMA uno strumento complementare per il sostegno alla natalità e alla crescita demografica. Conclusioni: Verso una Legislazione Coerente Le contraddizioni evidenziate dalle recenti pronunce della Corte Costituzionale non sono episodiche, ma riflettono un approccio sistemico incoerente che sacrifica

📢 IMPORTANTE: LE ELARGIZIONI TRA CONVIVENTI NON SONO RIPETIBILI!

La Cassazione Terza Sezione Civile con l’Ordinanza n. 11337/2025 del 30 aprile 2025 ribadisce un principio fondamentale per tutte le coppie di fatto. 💰❌ Il caso concreto 📋Un ex convivente ha chiesto la restituzione di €24.000 versati alla compagna per il pagamento del mutuo della casa in cui vivevano insieme. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso. Il principio di diritto 🏛️Le elargizioni di denaro tra conviventi costituiscono adempimento di obbligazioni naturali, quindi: Sono un dovere morale e socialeFanno parte della normale assistenza in un rapporto affettivo consolidatoNON possono essere ripetute (restituite) Quando è possibile la ripetizione? 🤔La Cassazione specifica che le elargizioni sono ripetibili SOLO se: Sono sproporzionate rispetto alle condizioni economiche dei conviventiTravalicano i limiti di adeguatezza socialeNon rientrano nei normali doveri di assistenza Riferimenti normativi 📖Artt. 2033, 2041, 2043 del Codice CivileGiurisprudenza consolidata: Cass. n. 3713/2003, n. 11303/2020 Implicazioni pratiche 💡Nelle convivenze more uxorio, le spese condivise (mutuo, bollette, spese ordinarie) sono considerate parte naturale del rapporto e non possono essere richieste indietro alla fine della relazione. 📞 Hai dubbi sulla tua situazione? Contatta il nostro studio per una consulenza personalizzata.

Il cognome paterno: retaggio della società patriarcal

Tempo di lettura: 2 minuti La Corte Costituzionale è tornata ad esprimersi sulla attribuzione ai figli del cognome paterno, definendo la disposizione di legge che ancora lo prevede come il prodotto di una società patriarcale ormai superata e desueta (ordinanza n. 18 del 2021). L’occasione è stata fornita dall’esame della disposizione contenuta nell’articolo 262 del codice civile italiano, secondo cui ai figli nati fuori dal matrimonio, che siano stati riconosciuti da entrambi i genitori, va attribuito il solo cognome del padre. La Corte delle leggi era stata investita della questione dal Tribunale di Bolzano, che aveva sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale del primo comma dell’articolo 262 c.c., nella parte in cui non consente ai genitori, benché in accordo tra di loro, di attribuire al figlio il solo cognome della madre. La questione è stata dichiarata quindi ammissibile e fondata, e verrà decisa in via pregiudiziale rispetto al giudizio pendente innanzi il Tribunale, prefigurandosi un contrasto dell’articolo 262 c.c con gli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione, ed anche con le disposizioni di cui agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Va ricordato come già nel 2016 (sentenza n. 286) la Corte Costituzionale aveva disposto l’abrogazione le norme che disponevano un identico meccanismo di attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, pur in presenza di una diversa volontà da parte dei genitori. In quell’occasione la Corte ebbe a sollecitare il legislatore ad intervenire organicamente con un riordino della materia, secondo principi rispettosi dell’indiscusso e condiviso principio di parità di genere, ma l’invito, fino ad oggi, non è stato ancora raccolto.