Mantenimento dei figli dopo la separazione: quando il genitore non convivente ha diritto a un contributo?

La Cassazione chiarisce i criteri per il calcolo del mantenimento quando i figli si trasferiscono da un genitore all’altro La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30244/2025 pubblicata il 17 novembre 2025, interviene su una questione delicata e ricorrente nelle controversie familiari: cosa accade al contributo per il mantenimento dei figli quando la loro collocazione cambia nel tempo e uno di essi, divenuto maggiorenne, sceglie di trasferirsi stabilmente presso il genitore non convivente? La vicenda offre l’occasione alla Prima Sezione Civile per ribadire principi fondamentali e fornire indicazioni precise ai giudici di merito. Il caso: una figlia maggiorenne che cambia residenza La controversia nasce da una separazione tra due coniugi con due figli. In primo grado, il Tribunale aveva disposto l’affidamento condiviso dei minori con collocazione prevalente presso la madre, assegnando a quest’ultima anche la casa familiare. Il padre era stato condannato a versare un contributo mensile di 400 euro per il mantenimento della figlia maggiore, oltre agli importi per il figlio minore ancora collocato presso la madre. La situazione, tuttavia, si era progressivamente modificata. La figlia maggiorenne aveva scelto di trasferirsi stabilmente dal padre, recidendo ogni legame con l’abitazione materna. Il padre, ritenendo venuti meno i presupposti dell’assegnazione della casa coniugale e dell’obbligo di versare il contributo per la figlia ormai convivente con lui, proponeva appello. La Corte d’Appello dell’Aquila, con sentenza n. 442/2024, accoglieva parzialmente il gravame: revocava il contributo per la figlia maggiorenne con decorrenza dalla proposizione dell’appello, confermava invece l’assegnazione della casa coniugale alla madre in quanto ancora collocataria del figlio minore. Il padre, insoddisfatto, ricorreva in Cassazione. La decisione della Cassazione: un’occasione per ribadire i principi fondamentali La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sui tre motivi di ricorso, offre una lettura sistematica della disciplina sul mantenimento dei figli dopo la separazione, con particolare attenzione alla tutela dell’equilibrio economico tra i genitori. Il primo motivo di ricorso, relativo alla conferma dell’assegnazione della casa coniugale, viene dichiarato inammissibile. La Corte chiarisce che il ricorrente, nella sostanza, contestava la valutazione delle prove operata dai giudici di merito. Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto. L’esame dei documenti, la valutazione delle prove testimoniali e la scelta tra le varie risultanze probatorie costituiscono apprezzamenti riservati al giudice di merito, il quale incontra come unico limite quello di indicare le ragioni del proprio convincimento. Il nodo centrale: il principio di proporzionalità nel mantenimento È sul secondo motivo che la Cassazione interviene con un’importante precisazione. Il ricorrente lamentava che, pur essendo stata revocata la quota parte del contributo versata per la figlia maggiorenne trasferitasi presso di lui, la Corte territoriale non avesse regolamentato il contributo che la madre, quale genitore non convivente con la figlia, avrebbe dovuto corrispondere. La Suprema Corte accoglie il motivo e cassa la sentenza d’appello, richiamando il quadro normativo di riferimento. L’art. 337-ter, comma 4, c.c., introdotto dal decreto legislativo n. 154 del 2013, stabilisce un principio cardine: salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Questo principio di proporzionalità si fonda su una duplice dimensione dell’obbligo di mantenimento. Da una parte vi è il rapporto tra genitori e figlio: tutti i figli, che siano nati da genitori coniugati, separati, divorziati o mai uniti in matrimonio, hanno uguale diritto di essere mantenuti, istruiti, educati e assistiti moralmente, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, come sancito dall’art. 315-bis, comma 1, c.c. Dall’altra parte vi è il rapporto tra i genitori obbligati, nei cui confronti vige appunto il criterio della proporzionalità rispetto al reddito di ciascuno. I parametri per determinare il contributo al mantenimento L’art. 337-ter c.c. indica con precisione i parametri che il giudice deve considerare nella determinazione del contributo al mantenimento. In primo luogo, devono essere valutate le attuali esigenze del figlio e il tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i genitori. Questi elementi assicurano che i diritti dei figli di genitori che non vivono insieme non siano diversi da quelli dei figli di genitori ancora conviventi. I genitori non possono imporre privazioni ai figli per il solo fatto di aver deciso di non vivere insieme. Nei rapporti interni tra genitori, il criterio guida resta la proporzionalità rispetto al reddito di ciascuno. L’art. 316-bis, comma 1, c.c. stabilisce che i genitori, anche quelli non sposati, devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Questo stesso criterio deve essere seguito dal giudice quando è chiamato a determinare la misura del contributo al mantenimento da porre a carico di uno dei genitori. Il giudice, inoltre, deve considerare i tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno. Queste modalità di adempimento in via diretta dell’obbligo di mantenimento incidono sulla necessità e sull’entità del contributo al mantenimento in termini monetari. L’errore della Corte d’Appello: manca la determinazione del contributo materno Nella fattispecie esaminata, la Cassazione rileva che la Corte d’Appello, pur avendo correttamente revocato il contributo originariamente posto a carico del padre quale genitore non convivente con la figlia, ha omesso di regolare la quota parte spettante al genitore non convivente, ossia la madre. La figlia maggiorenne, pur trasferitasi dal padre, rimaneva non ancora indipendente economicamente e quindi titolare del diritto al mantenimento da parte di entrambi i genitori. La sentenza impugnata, pertanto, si è limitata a eliminare un obbligo senza sostituirlo con la corrispondente obbligazione a carico dell’altro genitore, violando così il principio di proporzionalità e l’equilibrio che deve caratterizzare la ripartizione degli oneri di mantenimento tra i genitori. Il giudice del rinvio, incaricato dalla Cassazione, dovrà quindi accertare, sulla scorta delle disponibilità economiche della madre e alla luce dei criteri normativi, la misura del contributo che questa dovrà versare al padre per il mantenimento della figlia.

Spese di Ristrutturazione della Casa Coniugale

L’Orientamento Consolidato della Cassazione Esclude il Rimborso La dissoluzione del vincolo matrimoniale implica spesso complesse questioni patrimoniali, e tra le più ricorrenti si annovera la pretesa restitutoria avanzata dal coniuge non proprietario per le spese di ristrutturazione sostenute sull’immobile di proprietà esclusiva dell’altro. La giurisprudenza di legittimità ha ormai delineato un orientamento consolidato in materia, seppur con significative implicazioni pratiche. Fondamento Giuridico: L’Art. 143 c.c. e il Principio di Solidarietà Coniugale Il principio cardine su cui si fonda l’orientamento giurisprudenziale maggioritario è rinvenibile nell’art. 143, comma 3, c.c., il quale stabilisce che “entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”. Secondo la Cassazione civile, Sez. I, sent. n. 10942 del 27 maggio 2015, le spese sostenute da un coniuge per la ristrutturazione dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro configurano adempimento spontaneo del dovere di contribuzione familiare quando “le opere realizzate risultino finalizzate a rendere l’abitazione più confacente ai bisogni della famiglia”. Tale orientamento è stato successivamente consolidato dalla Cassazione civile, Sez. I, ord. n. 10927 del 7 maggio 2018, che ha enunciato il seguente principio di diritto: “poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio”. La Configurazione Giuridica: Donazione Indiretta ex Art. 2034 c.c. La giurisprudenza qualifica tali erogazioni come donazioni indirette compiute in virtù del progetto di vita comune. Secondo la Cassazione civile, Sez. III, ord. n. 5385 del 21 febbraio 2023, “in mancanza di prova contraria, l’utilizzo del denaro di un coniuge per apportare migliorie alla casa coniugale, di proprietà esclusiva dell’altro, può configurare adempimento del dovere contributivo che, appartenendo al novero delle obbligazioni naturali di cui all’art. 2034 c.c., fa sì che la somma investita non possa essere ripetuta”. La più recente Cassazione civile, Sez. I, sent. n. 34883 del 2023 ha ribadito il principio negando il rimborso di € 50.000 versati per la ristrutturazione dell’immobile coniugale, considerando la spesa “un contributo alla vita familiare” nell’ambito della solidarietà coniugale. Esclusione dell’Applicabilità dell’Art. 192 c.c. L’art. 192 c.c. prevede teoricamente il diritto di un coniuge di chiedere la restituzione delle somme personali impiegate per il patrimonio comune. Tuttavia, la giurisprudenza consolidata ha escluso l’applicabilità di tale disposizione alla casa coniugale quando questa sia di proprietà esclusiva di uno dei coniugi, atteso che le spese per il miglioramento dell’abitazione familiare rientrano nell’adempimento del dovere di contribuzione. La Problematica Applicazione dell’Art. 1150 c.c. Il dibattito giurisprudenziale si è particolarmente concentrato sull’applicabilità dell’art. 1150 c.c., che riconosce al possessore il diritto a un’indennità per i miglioramenti recati al bene. A. L’Orientamento Minoritario (Superato) La Cassazione civile, Sez. I, sent. n. 20207 del 3 agosto 2017 aveva riconosciuto al coniuge non proprietario, quale compossessore dell’immobile familiare, “il diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplati dall’art. 1150 c.c. per il possesso di buona fede”. Tale pronuncia, tuttavia, è rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale. B. Il Ritorno all’Orientamento Consolidato La Cassazione civile, Sez. II, ord. n. 23882 del 3 settembre 2021 ha definitivamente chiarito che “il fatto di essere convivente in un rapporto sentimentale o coniugale con la proprietaria esclusiva dell’alloggio non attribuisce ipso iure la qualifica di compossessore dell’immobile, ma soltanto quella di detentore qualificato”. Il coniuge non proprietario, pertanto, non assume la qualifica di compossessore dell’immobile, bensì di detentore qualificato, poiché il suo potere di fatto sull’immobile è basato sull’interesse derivante dal programma di vita in comune, non su ragioni di possesso nel senso tecnico-giuridico. Inapplicabilità dell’Azione di Arricchimento senza Causa L’azione generale di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. risulta parimenti inapplicabile, atteso che l’arricchimento del proprietario non avviene “senza giusta causa”. Nel caso delle spese familiari, la “giusta causa” è ravvisata nel dovere di contribuzione e nella solidarietà che connota la vita coniugale. Il Tribunale di Pavia, sent. n. 1344 del 2019 ha precisato che “l’obbligo di reciproca assistenza non costituisce una pretesa soggettiva qualificabile come posizione creditoria, quindi non sono rimborsabili le spese fatte da un coniuge in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c.”. La Giurisprudenza di Merito Recente Il Tribunale di Vicenza, sent. n. 1624 del 25 settembre 2024 ha di recente confermato l’orientamento consolidato, precisando che “i bisogni della famiglia, ai sensi dell’art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli minimi, ma possono avere un contenuto più ampio, soprattutto in situazioni caratterizzate da ampie disponibilità patrimoniali dei coniugi, riconducibili alla logica della solidarietà coniugale”. Le Eccezioni al Principio Generale Sussistono circostanze specifiche in cui il diritto al rimborso può essere riconosciuto: A. Spese Antecedenti al Matrimonio Le ristrutturazioni effettuate prima della formalizzazione del rapporto coniugale non rientrano nel dovere di contribuzione e possono essere oggetto di restituzione. B. Spese Successive alla Separazione Le somme investite dopo la separazione personale non si inquadrano più nel dovere di contribuzione familiare. C. Immobili in Comproprietà Qualora l’abitazione sia di proprietà comune, trova applicazione l’art. 192 c.c. per lo scioglimento della comunione. D. Sproporzione delle Spese Come evidenziato dalla Cassazione civile, Sez. I, sent. n. 9144 del 2023, quando gli esborsi eccedano i “limiti di proporzionalità e adeguatezza” rispetto alla normale solidarietà familiare, può configurarsi il diritto al rimborso. E. Miglioramenti Non Necessari Qualora si dimostri che i lavori non erano necessari per soddisfare i bisogni familiari ma costituivano meri miglioramenti voluttuari, può sussistere il diritto all’indennità ex art. 1150 c.c. Strategie di Tutela Preventiva Per ovviare alle problematiche evidenziate, risulta fondamentale adottare misure preventive: A. Cointestazione dell’Immobile L’intestazione della comproprietà dell’immobile rappresenta la tutela più efficace per garantire la valorizzazione degli investimenti effettuati. B. Accordi Negoziali Preventivi I coniugi possono stipulare contratti atipici con condizione sospensiva che regolamentino ex ante la questione delle spese di ristrutturazione. La giurisprudenza più recente considera validi tali

Spese per i Figli nella Separazione: Quando e Come il Genitore Non Collocatario Deve Contribuire

La Corte di Cassazione chiarisce le ragioni di una valutazione più rigorosa dei presupposti per il rimborso delle spese anticipate. Una Questione Sempre Più Attuale Con oltre 88.000 separazioni registrate in Italia nel 2023, la gestione delle spese per i figli minori rappresenta una delle problematiche più frequenti e delicate che le famiglie separate si trovano ad affrontare. Chi paga le spese mediche? Come si dividono i costi scolastici? Cosa succede quando un genitore contesta le spese sostenute dall’altro? Una recente sentenza della Cassazione (Cass. Civ., Sez. III, n. 22522/2025) ha fornito chiarimenti importanti su questi aspetti, prendendo una posizione più rigorosa in un dibattito giurisprudenziale che da anni divide i tribunali italiani. Il Principio: Contribuzione “Pro Quota” alle Spese dei Figli Quando i genitori si separano, entrambi mantengono l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli in proporzione alle rispettive capacità economiche. Questo principio, sancito dall’art. 337-ter del Codice Civile, si traduce nella pratica nella condivisione delle spese necessarie per crescere ed educare i minori. Il genitore collocatario (presso cui i figli vivono prevalentemente) spesso anticipa diverse spese, dal pediatra alle attività sportive, dai libri scolastici alle gite. Il genitore non collocatario è tenuto a rimborsare la propria quota di queste spese, ma a quali condizioni? Le Due Tipologie di Spese I provvedimenti di separazione distinguono solitamente tra due categorie principali di esborsi. Da una parte troviamo le spese ordinarie, che comprendono le visite mediche di routine, i farmaci per patologie comuni, il materiale scolastico di base e le attività sportive regolari. Dall’altra parte si collocano le spese straordinarie, categoria che abbraccia gli interventi medici specialistici, le cure ortodontiche, i viaggi di istruzione particolarmente costosi e le attività extrascolastiche di natura eccezionale. La distinzione non è meramente teorica, poiché spesso le due tipologie sono soggette a regimi procedurali diversi, specialmente per quanto riguarda la necessità o meno di un preventivo accordo tra i genitori. Il Contrasto Giurisprudenziale: Due Orientamenti a Confronto La recente sentenza della Cassazione n. 22522/2025 ha evidenziato l’esistenza di due orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di legittimità riguardo agli obblighi del genitore che richiede il rimborso delle spese. Orientamento “Permissivo” Il primo filone giurisprudenziale, definibile come più permissivo, si è mostrato negli anni recenti più flessibile nei confronti del genitore creditore. Secondo questa impostazione, risulta sufficiente la mera elencazione delle spese nell’atto di precetto, consentendo l’integrazione del titolo esecutivo all’esito di una semplice operazione aritmetica. Questo approccio ammette inoltre la possibilità di chiarire i dettagli delle spese sostenute soltanto in caso di opposizione da parte del debitore. Tale orientamento privilegia essenzialmente la speditezza dell’azione esecutiva, ritenendo che un eccessivo formalismo documentale possa ostacolare l’effettiva tutela dei diritti del genitore che ha anticipato le spese per i figli. Orientamento “Rigoroso” – Il Precedente della Cassazione La sentenza n. 22522/2025 ha invece abbracciato con decisione l’orientamento più rigoroso, stabilendo che non basta la semplice elencazione delle spese, ma occorre una vera e propria documentazione. I giudici hanno sottolineato che il genitore creditore deve documentare l’effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità, oppure, in alternativa, deve almeno mettere a disposizione la documentazione necessaria. Questa posizione rappresenta un chiaro indirizzo verso una maggiore tutela del diritto di difesa del genitore debitore, imponendo standard probatori più severi ma anche più trasparenti. Le Ragioni dell’Orientamento Rigoroso La Suprema Corte ha motivato questa scelta più severa con diverse considerazioni di ordine sistematico e pratico, che meritano un approfondimento per comprendere la portata innovativa della decisione. La tutela del diritto di difesa rappresenta il primo e fondamentale pilastro della decisione. I giudici hanno chiarito che il genitore debitore deve poter verificare sin da subito la correttezza delle somme richieste, senza dover attendere un eventuale giudizio di opposizione. Questa impostazione ribalta la logica precedente, che tendeva a spostare il momento della verifica documentale al momento dell’eventuale controversia. Altrettanto significativa è la considerazione legata alla prevenzione del contenzioso. La Corte ha osservato che un maggiore rigore documentale può effettivamente prevenire l’instaurazione di giudizi di opposizione, rispettando così il principio costituzionale della durata ragionevole del processo. Paradossalmente, richiedendo maggiori adempimenti in fase esecutiva, si riduce il rischio di successive controversie giudiziali. Dal punto di vista della coerenza sistematica, i giudici hanno evidenziato una logica ineccepibile: se le spese per i figli sono per natura “indeterminate solo nel quando e nel quantum”, proprio per questo motivo è necessaria una rigorosa documentazione al momento dell’esecuzione. Non si può invocare l’indeterminatezza come giustificazione per un regime probatorio alleggerito. Infine, la Corte ha posto l’accento sulla necessità di garantire una tutela minima del debitore, specialmente nei casi di separazione consensuale dove il titolo esecutivo si forma sostanzialmente in via stragiudiziale. In questi contesti, la possibilità per il genitore esecutando di essere reso pienamente edotto della natura ed entità delle spese costituisce una garanzia procedurale irrinunciabile. Aspetti Pratici: Cosa Devono Fare i Genitori La Posizione del Genitore Collocatario Il genitore presso cui i figli vivono prevalentemente si trova ora di fronte a obblighi documentali più stringenti, ma anche più chiari. La conservazione di ricevute, fatture e prescrizioni mediche non è più soltanto una buona pratica, ma diventa un vero e proprio obbligo giuridico per chi intende successivamente richiedere il rimborso delle spese sostenute. Particolare attenzione deve essere dedicata alla tenuta di un registro cronologico delle spese sostenute, che consenta di ricostruire con precisione l’evolversi degli esborsi nel tempo. La documentazione deve essere allegata al precetto, non limitandosi a una mera trascrizione delle cifre, oppure deve essere chiaramente indicato dove tale documentazione sia immediatamente disponibile per la consultazione da parte dell’altro genitore. Quando si tratta di spese straordinarie, la situazione si complica ulteriormente. È fondamentale verificare se il decreto di separazione richiede un preventivo accordo e, in caso affermativo, ottenere il consenso dell’altro genitore prima di sostenere la spesa. Le procedure di comunicazione previste, che spesso includono modalità specifiche come l’invio di e-mail con un preavviso di sette giorni, devono essere scrupolosamente rispettate. I Diritti del Genitore Non Collocatario Dal lato opposto, il genitore non collocatario acquisisce strumenti di tutela

Mantenimento dei figli e assegno divorzile: la Cassazione stabilisce nuovi criteri di valutazione

La Prima Sezione Civile chiarisce i principi per la determinazione degli importi e la ripartizione delle spese straordinarie La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 13488/2024 del 13 maggio 2025, ha fornito importanti chiarimenti sui criteri di determinazione del mantenimento dei figli e dell’assegno divorzile, cassando la decisione della Corte d’Appello di Roma e stabilendo principi destinati a orientare la giurisprudenza futura. Il caso e la decisione dei giudici di merito La vicenda traeva origine da una pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, in cui il Tribunale di Roma aveva inizialmente stabilito un assegno divorzile di €800,00 mensili e un contributo per il mantenimento dei figli. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 26 febbraio 2024, aveva successivamente modificato tali importi, determinando un contributo per il mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti di €1.200,00 mensili e confermando la ripartizione al 50% delle spese straordinarie tra i genitori. I principi affermati dalla Suprema Corte La Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, chiarendo aspetti fondamentali in materia di responsabilità genitoriale e obblighi di mantenimento: In tema di mantenimento dei figli, la Corte ha ribadito che costituiscono spese straordinarie quelle non comprese nell’ammontare dell’assegno ordinario previsto, distinguendo tra: Quanto alla valutazione del tenore di vita, la Suprema Corte ha precisato che l’assegno deve essere considerato non in ragione della sporadicità di frequentazione, ma considerando che il figlio maggiore aveva maggiori esigenze economiche legate alla crescita e allo sviluppo della personalità, compresa la formazione culturale. Per la determinazione dell’assegno divorzile, i giudici di legittimità hanno confermato che nel profilo compensativo-perequativo, l’assegno deve essere adeguato all’apporto fornito dal coniuge richiedente che, pur in mancanza di prova della rinuncia a realistiche occasioni professionali-reddituali, abbia dimostrato di aver contribuito significativamente alla vita familiare. Le violazioni riscontrate dalla Cassazione La Corte ha individuato diverse violazioni degli artt. 316 bis e 337 ter del Codice Civile: Le implicazioni pratiche per cittadini e professionisti Questa pronuncia assume particolare rilevanza per: I genitori separati o divorziati, che dovranno considerare come la proporzionalità del contributo debba essere valutata in rapporto alle condizioni economico-patrimoniali accertate con squilibrio in favore dell’altro genitore, non limitandosi ai rispettivi redditi. I professionisti del diritto di famiglia, chiamati a una più accurata valutazione delle condizioni reddituali-patrimoniali delle parti, evitando di far gravare le spese straordinarie sui genitori senza osservare la proporzionalità del contributo. I figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali la Corte ha chiarito che l’irragionevolezza del fare gravare le spese straordinarie sui genitori senza osservare la proporzionalità costituisce violazione dei principi fondamentali. Le prospettive future La decisione della Cassazione si inserisce nel consolidato orientamento giurisprudenziale che privilegia una valutazione complessiva delle condizioni patrimoniali delle parti, superando approcci meramente formalistici nella determinazione degli obblighi di mantenimento. Il rinvio alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione dovrà tener conto dei principi enunciati, particolarmente per quanto attiene alla corretta applicazione dell’art. 337 ter c.c. in tema di proporzionalità della contribuzione genitoriale. Se stai affrontando questioni relative al mantenimento dei figli o all’assegno divorzile, il nostro studio può assisterti con consulenza specializzata. Contattaci per una valutazione personalizzata della tua situazione e per tutelare al meglio i tuoi diritti e quelli dei tuoi figli.

Accordi Patrimoniali tra Coniugi: La Cassazione Conferma la Piena Validità delle Scritture Private in Vista della Separazione

La Prima Sezione Civile ribadisce l’orientamento consolidato sull’autonomia negoziale dei coniugi nella regolamentazione dei rapporti economici familiari La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 17126/2024 pubblicata il 21 luglio 2025, ha fornito un’importante conferma sulla validità degli accordi patrimoniali stipulati tra coniugi in previsione di una futura separazione. La decisione, che respinge il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 500/2024, consolida definitivamente l’orientamento giurisprudenziale favorevole all’autonomia negoziale privata nell’ambito dei rapporti familiari. Il Caso e la Fattispecie Concreta La vicenda trae origine da una scrittura privata del 27 novembre 2011 con cui i coniugi avevano regolamentato i propri rapporti patrimoniali in caso di separazione. L’accordo prevedeva che la moglie, in caso di separazione, divenisse debitrice nei confronti del marito per una somma di euro 146.400,00, rinunciando contestualmente ad alcuni beni mobili (imbarcazione, arredo dell’appartamento e somme di denaro depositate in conto corrente). Il marito aveva riconosciuto il contributo economico prestato dalla consorte «al benessere della famiglia, al pagamento mantenimento dell’attuale dimora e al pagamento del mutuo», impegnandosi alla restituzione di euro 61.400,00 per spese di ristrutturazione e euro 85.000,00 quale contributo al benessere della famiglia per l’acquisto di mobili e vetture. I Principi Giuridici Consolidati dalla Suprema Corte La Cassazione ha ribadito che sono pienamente validi gli accordi tra coniugi che vogliano regolamentare i loro rapporti patrimoniali in caso di fallimento del matrimonio, purché rispettino determinati requisiti. Come precisato nella sentenza, tali accordi rappresentano l’espressione della loro autonomia negoziale diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. Il principio cardine, già affermato dalla giurisprudenza consolidata (Cass. n. 23713/2012; Cass. n. 19304/2013), stabilisce che «sono pienamente validi gli accordi tra i coniugi che vogliano regolamentare i loro rapporti patrimoniali in caso di fallimento del matrimonio, individuando in tale evento una mera condizione sospensiva apposta al contratto, poiché sono espressione della loro autonomia negoziale diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela». L’Autonomia Negoziale nell’Ambito Familiare La Corte ha precisato che questa autonomia negoziale trova piena applicazione anche nella fase patologica della crisi familiare, riconoscendo ai coniugi la possibilità di concordare le condizioni per la regolamentazione della crisi stessa secondo quanto previsto dall’art. 4 L. n. 898/1970 e d.l. n. 132/2014, convertito in L. n. 162/2014. Particolare rilievo assume il riferimento all’orientamento consolidato secondo cui gli accordi tra coniugi che fissano il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio sono nulli per illiceità della causa soltanto nella parte in cui concernono l’assegno divorzile. Questo limite deriva dalla natura assistenziale e indisponibile dell’assegno stesso. La Validità della Condizione Sospensiva Nel caso specifico, la Suprema Corte ha chiarito che «è valido il mutuo tra coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli effetti dell’art. 1354 c.c., primo comma, cod. civ.» (Cass. civ. sent. n. 19304/2013). La decisione evidenzia come la giurisprudenza più recente (Cass. 5065/2021; Cass. 11012/2021) abbia ulteriormente precisato che sono validi gli accordi tra coniugi in forza dei quali uno si obbliga, in caso di divorzio, a corrispondere all’altro una somma di danaro vita natural durante, integrando un valido contratto di rendita vitalizia sottoposto alla condizione sospensiva del divorzio. Le Implicazioni Pratiche per i Coniugi Questa pronuncia assume particolare rilevanza pratica per le coppie che intendano regolamentare preventivamente i propri rapporti patrimoniali. La validità di tali accordi offre infatti maggiore certezza giuridica e consente di evitare contenziosi futuri, purché vengano rispettati alcuni principi fondamentali. La Corte ha specificato che in tema di contribuzione per i bisogni della famiglia durante il matrimonio, ciascun coniuge è tenuto, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316-bis, primo comma, c.c., a concorrere in misura proporzionale alle proprie sostanze. Tuttavia, a seguito della separazione, non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato. I Limiti della Disciplina dell’Assegno Divorzile La sentenza chiarisce definitivamente che le pattuizioni contenute in un patto aggiunto e contestuale all’accordo di divorzio congiunto, pur se strettamente connesse a questo per volontà delle parti e non aventi ad oggetto diritti indisponibili o in contrasto con norme inderogabili, non possono essere oggetto di intervento diretto da parte del giudice, rappresentando espressione della libera determinazione negoziale delle parti. Tuttavia, rimane fermo il principio secondo cui i patti che riguardano i rapporti personali e patrimoniali relativi a figlie o figli minori di età devono sempre essere sottoposti a controllo di legittimità per verificare la loro rispondenza al miglior interesse della persona minore di età. Considerazioni sulla Forma e sui Contenuti La scrittura privata oggetto del giudizio è stata ritenuta «perfettamente lecita» dalla Cassazione, poiché prevedeva un riconoscimento di debito in favore della moglie per il contributo finanziario al restauro dell’immobile di proprietà del marito e per l’acquisto di mobilio e beni mobili registrati. La Corte ha evidenziato come l’accordo riconoscesse anche al marito un’imbarcazione, un motociclo e l’arredamento della casa familiare, regolamentando in modo libero, ragionato ed equilibrato l’assetto patrimoniale dei coniugi in caso di scioglimento della comunione legale. Conclusioni e Prospettive Future L’ordinanza della Cassazione rappresenta un importante consolidamento giurisprudenziale che offre maggiore certezza alle coppie che intendano pianificare i propri rapporti patrimoniali. La piena validità degli accordi preventivi, purché leciti e non contrari a norme imperative, costituisce uno strumento efficace per prevenire contenziosi e garantire una maggiore tutela degli interessi economici di entrambi i coniugi. È fondamentale, tuttavia, che tali accordi vengano redatti con la necessaria competenza tecnica e nel rispetto dei principi di legge, al fine di garantirne la piena efficacia giuridica e l’aderenza agli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità. Hai bisogno di assistenza per la redazione di accordi patrimoniali o per questioni relative alla separazione e al divorzio? Contatta il nostro studio per una consulenza specializzata e personalizzata.

IL GENITORE SEPARATO HA DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI UNIVERSITARI DEL FIGLIO

Tempo di lettura: 2 minuti Il genitore separato è tenuto a contribuire alle spese di mantenimento del figlio, anche se maggiorenne ma non autosufficiente, che dimora presso l’abitazione dell’altro coniuge. Tra le più rilevanti vi sono le spese per la frequenza universitaria, che oltre al costo di iscrizione annuale ai corsi di frequente comprendono anche quelle di residenza fuori sede e di viaggio per lo spostamento ed il periodico ritorno a casa. Il diritto al sostegno economico della prole è sancito dall’art. 315 bis del codice civile, e prima ancora dall’art. 30 della Costituzione Italiana, ed è riconosciuto, al raggiungimento della maggiore età, finché egli non abbia raggiunto l’indipendenza economica, o sia stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. Nelle più recenti interpretazioni fornite dalla Corte di Cassazione si afferma che, una volta raggiunta la maggiore età, si presume che il figlio sia idoneo a produrre un proprio reddito, sicché, per prolungare il mantenimento, è necessario che egli provi di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato la ricerca di un lavoro. Nel caso affidato ai legali dello studio TMC Avvocati Associati, il figlio maggiorenne di una coppia separata, studente universitario fuori sede, aveva rifiutato più volte di comunicare l’andamento degli studi al padre non convivente, che però era stato onerato dal Tribunale del pagamento delle ingenti spese. Di qui la decisione del genitore di rivolgere la richiesta di accesso agli atti direttamente alla facoltà universitaria presso la quale il giovane era iscritto da diversi anni, che però era stata rigettata dall’ateneo sul presupposto della riservatezza dei dati richiesti. Gli avvocati hanno perciò diffidato l’università a consentire al padre l’accesso al fascicolo degli studi del figlio, evidenziando che i dati richiesti non possono attenere alla sfera personale dello studente (e quindi non rilasciabili senza suo specifico consenso). A sostegno della diffida veniva richiamata la giurisprudenza che ha da tempo chiarito come il padre abbia, nei confronti del figlio, sia pure maggiorenne, non solo dei doveri, comprensivi anche dell’obbligo di contribuire alle spese per gli studi universitari, ma anche dei diritti, compreso quello di conoscere anche gli elementi salienti della vita universitaria del figlio stesso, ai sensi dell’art. 30 della Costituzione, che sancisce il diritto-dovere dei genitori di istruire ed educare i figli (TAR Trieste sent. N. 559/2014 – TAR Puglia sent. 872/2012). In accoglimento della diffida proposta dai legali dello studio TMC Avvocati Associati, ed al fine di evitare un contenzioso giudiziario, l’ateneo ha così rilasciato al padre separato l’attestazione completa ed aggiornata del corso degli studi del figlio maggiorenne.

L’AMANTE NON E’ TENUTO A RISARCIRE IL CONIUGE TRADITO

Tempo di lettura: 2 minuti Una singolare vicenda ha dato offerto al Tribunale di Padova l’occasione di pronunciarsi sulle possibili conseguenze risarcitorie del tradimento di un coniuge, e di escludere che si possa chiedere il ristoro dei danni all’amante.La moglie tradita aveva convenuto in giudizio un’altra donna, assumendo che ella avesse intrecciato una relazione amorosa con suo marito, e chiedendo all’amante il risarcimento dei danni sofferti a causa della infedeltà. Per la moglie il tradimento le aveva causato sofferenze e conseguenze personali, poiché la presunta amante era dipendente dell’impresa di cui anch’ella era titolare, tanto che la relazione aveva fatto scalpore nell’ambiente lavorativo e le aveva arrecato danno alla immagine di moglie e di imprenditrice. La dipendente si era difesa negando la relazione affettiva, ed attribuendo gli episodi contestati al corteggiamento subito da parte del marito, che lei assumeva di non aver ricambiato.La presunta amante aveva poi sostenuto che l’eventuale rapporto affettivo non avrebbe potuto arrecare danni per essere tale condotta l’esplicazione della personalità dell’individuo, anche in campo sentimentale, e perciò corrispondente all’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto. Nel risolvere la controversia, il Tribunale ha precisato che la violazione di un obbligo scaturente dal matrimonio, compreso quello della fedeltà coniugale, non determina automaticamente la possibilità di ottenere un risarcimento del danno per il semplice fatto che sia stato provato l’adulterio. Secondo i giudici veneti, la violazione del dovere di fedeltà è risarcibile solo quando l’afflizione provocata superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primo tra tutti il diritto alla salute ovvero alla dignità personale e all’onore. L’amante però non ha l’obbligo di rispettare la fedeltà coniugale, e non può essere chiamato a rispondere per la violazione di tale dovere; al più può essere ritenuto corresponsabile del tradimento quando, a causa della propria condotta e avuto riguardo alle modalità con cui si è svolta la relazione extraconiugale, abbia direttamente leso diritti inviolabili quali la dignità e l’onore del coniuge tradito (come quando egli si sia ad esempio vantato della propria conquista nel comune ambiente di lavoro o ne abbia diffuso le immagini nei confronti di terzi). Nel caso deciso dal Tribunale di Padova era risultato che, senza compiere alcun atto particolarmente censurabile, l’amante si era limitata ad esercitare il diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, che si concretizza anche nella libertà di scelta del partner amoroso. La richiesta di risarcimento è stata così rigettata con sentenza n. 1308 del 2021, e la moglie tradita condannata al pagamento di rilevanti spese legali a favore dell’altra donna.

SEPARAZIONE: QUANDO INIZIA L’OBBLIGO DI PAGARE IL MANTENIMENTO ?

Tempo di lettura: 2 minuti Erano riusciti a sottoscrivere un accordo di separazione consensuale, con il quale si stato stabilito – tra l’altro – un assegno di mantenimento mensile a favore della moglie, senza stabilire però la data di decorrenza dell’obbligo di pagamento. Il marito aveva iniziato quindi a pagare solo dopo l’omologazione dell’accordo da parte del tribunale, mentre lei sosteneva che i versamenti dovevano iniziare sin dal deposito del ricorso. In primo grado il tribunale aveva dato ragione al marito, mentre in appello aveva avuto la meglio la tesi sostenuta dalla moglie, e di qui l’ulteriore impugnazione di lui, della seconda decisione, innanzi la Corte di Cassazione. Il tribunale aveva sostenuto che, solo nella separazione giudiziale, gli effetti della decisione retrocedono alla data del deposito del ricorso, mentre nella separazione consensuale è la successiva omologa dell’accordo a conferire effetto obbligatorio all’intesa economica.Al contrario, la corte di appello aveva sostenuto che l’effetto di retrodatazione degli obblighi alla data del deposito del ricorso iniziale si verifica ugualmente nelle separazioni consensuali ed in quelle giudiziali. La Suprema Corte è intervenuta infine a comporre il contrasto dei due giudicati con la sentenza n. 41232 del 22 ottobre 2021.I giudici di legittimità, pur condividendo le peculiarità che contraddistinguono una separazione consensuale (basata cioè sull’accordo dei coniugi, che il tribunale deve comunque omologare) da quella giudiziale (totalmente regolata dalle condizioni stabilite dal giudice adito), hanno chiarito che, in entrambi i casi, gli effetti dell’accordo omologato o della decisione giudiziale si producono sin dal deposito del ricorso introduttivo. La decisione ha il pregio di specificare che, a meno di una diversa volontà delle parti o di apposite nuove o diverse previsioni sul punto specifico nel provvedimento di omologa, la decorrenza va normalmente ancorata al momento del deposito, se non altro in applicazione del principio generale per il quale quod sine die debetur statim debetur ed in conformità alla regola di comune esperienza per la quale il complessivo assetto di interessi oggetto del ricorso congiunto può presumersi riferito al tempo e al contesto in cui esso è formato e soprattutto depositato, in quel momento diventando definitiva la manifestazione di volontà dei ricorrenti e così la loro valutazione di rispondenza degli accordi esposti ai loro interessi. Il ricorso proposto dal marito è stato pertanto rigettato.

MANTENIMENTO DEI FIGLI DI GENITORI SEPARATI: COME SI CALCOLA?

Tempo di lettura: 3 minuti I genitori che si separano sono sempre tenuti a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, ma spesso la determinazione dell’ammontare della contribuzione dovuta da ciascuno di essi è oggetto di controversia. In caso di disaccordo tra i genitori, la somma periodica da porre a carico dei genitori deve essere stabilita dal giudice, il quale, secondo quanto dispone l’art. 337-ter del codice civile, deve quantificare la somma, al fine di realizzare il principio di proporzionalità, tenendo conto delle attuali esigenze del figlio, del tenore di vita goduto dal figlio quando conviveva con entrambi i genitori, dei tempi di permanenza presso ciascun genitore, delle risorse economiche di entrambi i genitori e dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Il numero dei parametri che il giudice è chiamato a considerare, e la loro non facile traducibilità in termini economici, ha indotto la dottrina e le autorità giudiziarie a fissare diverse linee di interpretazione, talvolta contrastanti, proprio sul rilievo da dare a ciascuno degli indicatori citati dall’art. 337-ter c.c. Uno dei profili che ha generato maggiori difficoltà applicative è quello della proporzionalità della contribuzione a cui è tenuto ogni genitore rispetto alle proprie entrate, nel caso in cui entrambi i genitori dispongano di una propria fonte di reddito. In tale evenienza, il criterio vale solo a stabilire quanto può dare singolarmente ogni genitore, o va operata una attenta valutazione di proporzionalità anche tra i redditi dei due genitori? La differenza tra le somme quantificate secondo i due distinti metodi di indagine talvolta può essere sensibile. Secondo il primo criterio, sostenuto dalla giurisprudenza meno recente, il giudice dovrebbe estrapolare la disponibilità concreta di ciascun genitore parametrandola al suo reddito, riconoscendo poi entrambe le disponibilità al figlio, al netto dell’onere derivante a chi lo ospita e lo assiste con prevalenza.In applicazione del secondo criterio, elaborato dalla giurisprudenza più recente, la somma complessiva da corrispondere al figlio va invece determinata secondo i primi criteri indicati dall’art. 337-ter c.c. (esigenze attuali e precedente tenore di vita familiare), e poi posta carico di ciascun genitore in proporzione al reddito di ciascuno di essi. Seguendo la seconda chiave di interpretazione, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribaltare l’esito di un giudizio in cui, nei gradi precedenti, era stata data invece applicazione del primo criterio. Con l’ordinanza n. 4145 pubblicata il 10.2.2023, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto da un genitore che aveva impugnato la decisione con cui la Corte di Appello di Brescia – tra l’altro – aveva quantificato l’assegno periodico che aveva posto a suo carico, per il mantenimento della figlia, prendendo in esame il suo solo reddito, e non anche quello dell’altro genitore, circa il quale l’altra parte non aveva prodotto alcun documento, né i giudici di merito avevano svolto indagini. Secondo i giudici di legittimità, la Corte bresciana aveva rettamente valutato la situazione reddituale del ricorrente, tenendo conto degli esborsi mensili sullo stesso gravanti, anche se pro quota in concorso con la di lui moglie, ed ha valutato la condizione della figlia, priva di autosufficienza economica edimpegnata negli studi universitari. Tuttavia i giudici del secondo grado non avevano effettuato alcuna indagine circa le risorse patrimoniali e reddituali della madre, ritenendo ciò non necessario, alla luce di un superato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la determinazione del contributo che per legge grava sui genitori per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione della prole, a differenza di quanto avviene nella determinazione dell’assegno spettante al coniuge separato o divorziato, non si fonderebbe su di una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge (Cass. n. 18538/2013). La Corte di Cassazione ha perciò chiarito che, dalla più recente giurisprudenza è stato, invece, affermato il condiviso principio di diritto secondo cui “nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.” (Cass. n. 4811/2018; conf. Cass. n. 19299/2020). La sentenza impugnata è stata perciò cassata, con rinvio del procedimento alla medesima Corte di merito, a cui spetterà di dare applicazione al principio affermato con una nuova valutazione comparativa e proporzionale delle rispettive disponibilità reddituali dei due genitori.

La Conversione Religiosa Giustifica l’Addebito della Separazione?

Tempo di lettura: 3 minuti Dopo alcuni anni di matrimonio, Tizia e Caio avevano deciso di separarsi, e ciascuno aveva imputato all’altro la colpa del fallimento dell’unione. Caio aveva chiesto che la colpa della separazione fosse addebitata alla moglie, poiché lei aveva abbracciato una fede religiosa diversa, le cui pratiche l’avevano distratta da ogni attenzione e cura verso il marito e la famiglia. La concomitanza tra la conversione religiosa ed il mutamento del comportamento di Tizia era stata confermata in aula da un testimone. Il Tribunale di Napoli aveva rigettato, però, la richiesta di addebito della separazione a danno della moglie, e la decisione era stata confermata dalla Corte di Appello, a cui aveva fatto ricorso il marito. Per i giudici di merito, il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, corrispondeva all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost., non potendo di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, sempre che l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge previsti dall’art. 143 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza. Avevano poi affermato che la violazione dei doveri coniugali ascritta a Tizia, in termini di atteggiamenti di indifferenza verso il marito (tanto da non occuparsi più delle faccende domestiche), non aveva trovato adeguata conferma nella deposizione testimoniale raccolta, Secondo i giudici del merito, anche la scelta di Tizia di dedicarsi alla congregazione religiosa o di trascorrere tempo davanti al computer non aveva avuto un’effettiva incidenza causale, perché si era inserita nel complessivo progetto di vita di “separati in casa” della coppia. Caio ha proposto però ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo che venisse riconosciuta la contrarietà alla legge della decisione di appello, ed ottenendo il ribaltamento della decisione assunta – sul punto – nei due gradi di merito con l’ordinanza n. 19502 del 10.7.2023. Per i giudici della Cassazione, non può esservi dubbio sul fatto che la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale debba ricollegarsi in via esclusiva al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o entrambi i coniugi. Deve essere perciò dimostrato il rapporto di causa ad effetto tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza; ragion per cui, in caso di mancato raggiungimento della prova in relazione al fatto che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, non è possibile pronunciare la separazione con addebito. Il giudice di merito, tuttavia, se ritiene che una determinata condotta, che di per sé risulterebbe in violazione dei doveri conseguenti al matrimonio, non è idonea a giustificare l’addebito della separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., essendo non la causa del fallimento dell’unione matrimoniale ma la conseguenza di una situazione di crisi già irrimediabilmente in atto, è tenuto a basare un tale convincimento sulla descrizione dettagliata della situazione di vita creatasi fra i coniugi prima di quella condotta e della prova della crisi già esplora in precedenza. Nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli aveva fatto riferimento ad una situazione di “reciproca sostanziale autonomia di vita”, testimoniata dal fatto che i due coniugi dormivano separati, ma non aveva spiegato se quella scelta era stata antecedente o successiva alla conversione religiosa della moglie. La Corte di Cassazione ha rilevato, inoltre, che il teste ascoltato dal tribunale aveva riferito degli atteggiamenti di disaffezione costituiti dal fatto che Tizia si era rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma ha raccontato pure di continue denigrazioni. Questo atteggiamento, che era stato ignorato dalla Corte di merito, ove fosse consistito in un comportamento moralmente violento, doveva essere considerato incompatibile con gli obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto ex art. 143, comma 2, c.c., tanto da assumere una incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa eventualmente preesistente di crisi del rapporto coniugale. La Suprema Corte ha cassato perciò la sentenza impugnata, rimettendo gli atti alla Corte di Appello di Napoli per una nuova decisione rispettosa dei principi enunciati.