IL GENITORE SEPARATO HA DIRITTO DI ACCESSO AGLI ATTI UNIVERSITARI DEL FIGLIO

Tempo di lettura: 2 minuti Il genitore separato è tenuto a contribuire alle spese di mantenimento del figlio, anche se maggiorenne ma non autosufficiente, che dimora presso l’abitazione dell’altro coniuge. Tra le più rilevanti vi sono le spese per la frequenza universitaria, che oltre al costo di iscrizione annuale ai corsi di frequente comprendono anche quelle di residenza fuori sede e di viaggio per lo spostamento ed il periodico ritorno a casa. Il diritto al sostegno economico della prole è sancito dall’art. 315 bis del codice civile, e prima ancora dall’art. 30 della Costituzione Italiana, ed è riconosciuto, al raggiungimento della maggiore età, finché egli non abbia raggiunto l’indipendenza economica, o sia stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. Nelle più recenti interpretazioni fornite dalla Corte di Cassazione si afferma che, una volta raggiunta la maggiore età, si presume che il figlio sia idoneo a produrre un proprio reddito, sicché, per prolungare il mantenimento, è necessario che egli provi di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato la ricerca di un lavoro. Nel caso affidato ai legali dello studio TMC Avvocati Associati, il figlio maggiorenne di una coppia separata, studente universitario fuori sede, aveva rifiutato più volte di comunicare l’andamento degli studi al padre non convivente, che però era stato onerato dal Tribunale del pagamento delle ingenti spese. Di qui la decisione del genitore di rivolgere la richiesta di accesso agli atti direttamente alla facoltà universitaria presso la quale il giovane era iscritto da diversi anni, che però era stata rigettata dall’ateneo sul presupposto della riservatezza dei dati richiesti. Gli avvocati hanno perciò diffidato l’università a consentire al padre l’accesso al fascicolo degli studi del figlio, evidenziando che i dati richiesti non possono attenere alla sfera personale dello studente (e quindi non rilasciabili senza suo specifico consenso). A sostegno della diffida veniva richiamata la giurisprudenza che ha da tempo chiarito come il padre abbia, nei confronti del figlio, sia pure maggiorenne, non solo dei doveri, comprensivi anche dell’obbligo di contribuire alle spese per gli studi universitari, ma anche dei diritti, compreso quello di conoscere anche gli elementi salienti della vita universitaria del figlio stesso, ai sensi dell’art. 30 della Costituzione, che sancisce il diritto-dovere dei genitori di istruire ed educare i figli (TAR Trieste sent. N. 559/2014 – TAR Puglia sent. 872/2012). In accoglimento della diffida proposta dai legali dello studio TMC Avvocati Associati, ed al fine di evitare un contenzioso giudiziario, l’ateneo ha così rilasciato al padre separato l’attestazione completa ed aggiornata del corso degli studi del figlio maggiorenne.
L’AMANTE NON E’ TENUTO A RISARCIRE IL CONIUGE TRADITO

Tempo di lettura: 2 minuti Una singolare vicenda ha dato offerto al Tribunale di Padova l’occasione di pronunciarsi sulle possibili conseguenze risarcitorie del tradimento di un coniuge, e di escludere che si possa chiedere il ristoro dei danni all’amante.La moglie tradita aveva convenuto in giudizio un’altra donna, assumendo che ella avesse intrecciato una relazione amorosa con suo marito, e chiedendo all’amante il risarcimento dei danni sofferti a causa della infedeltà. Per la moglie il tradimento le aveva causato sofferenze e conseguenze personali, poiché la presunta amante era dipendente dell’impresa di cui anch’ella era titolare, tanto che la relazione aveva fatto scalpore nell’ambiente lavorativo e le aveva arrecato danno alla immagine di moglie e di imprenditrice. La dipendente si era difesa negando la relazione affettiva, ed attribuendo gli episodi contestati al corteggiamento subito da parte del marito, che lei assumeva di non aver ricambiato.La presunta amante aveva poi sostenuto che l’eventuale rapporto affettivo non avrebbe potuto arrecare danni per essere tale condotta l’esplicazione della personalità dell’individuo, anche in campo sentimentale, e perciò corrispondente all’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto. Nel risolvere la controversia, il Tribunale ha precisato che la violazione di un obbligo scaturente dal matrimonio, compreso quello della fedeltà coniugale, non determina automaticamente la possibilità di ottenere un risarcimento del danno per il semplice fatto che sia stato provato l’adulterio. Secondo i giudici veneti, la violazione del dovere di fedeltà è risarcibile solo quando l’afflizione provocata superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primo tra tutti il diritto alla salute ovvero alla dignità personale e all’onore. L’amante però non ha l’obbligo di rispettare la fedeltà coniugale, e non può essere chiamato a rispondere per la violazione di tale dovere; al più può essere ritenuto corresponsabile del tradimento quando, a causa della propria condotta e avuto riguardo alle modalità con cui si è svolta la relazione extraconiugale, abbia direttamente leso diritti inviolabili quali la dignità e l’onore del coniuge tradito (come quando egli si sia ad esempio vantato della propria conquista nel comune ambiente di lavoro o ne abbia diffuso le immagini nei confronti di terzi). Nel caso deciso dal Tribunale di Padova era risultato che, senza compiere alcun atto particolarmente censurabile, l’amante si era limitata ad esercitare il diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, che si concretizza anche nella libertà di scelta del partner amoroso. La richiesta di risarcimento è stata così rigettata con sentenza n. 1308 del 2021, e la moglie tradita condannata al pagamento di rilevanti spese legali a favore dell’altra donna.
SEPARAZIONE: QUANDO INIZIA L’OBBLIGO DI PAGARE IL MANTENIMENTO ?

Tempo di lettura: 2 minuti Erano riusciti a sottoscrivere un accordo di separazione consensuale, con il quale si stato stabilito – tra l’altro – un assegno di mantenimento mensile a favore della moglie, senza stabilire però la data di decorrenza dell’obbligo di pagamento. Il marito aveva iniziato quindi a pagare solo dopo l’omologazione dell’accordo da parte del tribunale, mentre lei sosteneva che i versamenti dovevano iniziare sin dal deposito del ricorso. In primo grado il tribunale aveva dato ragione al marito, mentre in appello aveva avuto la meglio la tesi sostenuta dalla moglie, e di qui l’ulteriore impugnazione di lui, della seconda decisione, innanzi la Corte di Cassazione. Il tribunale aveva sostenuto che, solo nella separazione giudiziale, gli effetti della decisione retrocedono alla data del deposito del ricorso, mentre nella separazione consensuale è la successiva omologa dell’accordo a conferire effetto obbligatorio all’intesa economica.Al contrario, la corte di appello aveva sostenuto che l’effetto di retrodatazione degli obblighi alla data del deposito del ricorso iniziale si verifica ugualmente nelle separazioni consensuali ed in quelle giudiziali. La Suprema Corte è intervenuta infine a comporre il contrasto dei due giudicati con la sentenza n. 41232 del 22 ottobre 2021.I giudici di legittimità, pur condividendo le peculiarità che contraddistinguono una separazione consensuale (basata cioè sull’accordo dei coniugi, che il tribunale deve comunque omologare) da quella giudiziale (totalmente regolata dalle condizioni stabilite dal giudice adito), hanno chiarito che, in entrambi i casi, gli effetti dell’accordo omologato o della decisione giudiziale si producono sin dal deposito del ricorso introduttivo. La decisione ha il pregio di specificare che, a meno di una diversa volontà delle parti o di apposite nuove o diverse previsioni sul punto specifico nel provvedimento di omologa, la decorrenza va normalmente ancorata al momento del deposito, se non altro in applicazione del principio generale per il quale quod sine die debetur statim debetur ed in conformità alla regola di comune esperienza per la quale il complessivo assetto di interessi oggetto del ricorso congiunto può presumersi riferito al tempo e al contesto in cui esso è formato e soprattutto depositato, in quel momento diventando definitiva la manifestazione di volontà dei ricorrenti e così la loro valutazione di rispondenza degli accordi esposti ai loro interessi. Il ricorso proposto dal marito è stato pertanto rigettato.
MANTENIMENTO DEI FIGLI DI GENITORI SEPARATI: COME SI CALCOLA?

Tempo di lettura: 3 minuti I genitori che si separano sono sempre tenuti a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, ma spesso la determinazione dell’ammontare della contribuzione dovuta da ciascuno di essi è oggetto di controversia. In caso di disaccordo tra i genitori, la somma periodica da porre a carico dei genitori deve essere stabilita dal giudice, il quale, secondo quanto dispone l’art. 337-ter del codice civile, deve quantificare la somma, al fine di realizzare il principio di proporzionalità, tenendo conto delle attuali esigenze del figlio, del tenore di vita goduto dal figlio quando conviveva con entrambi i genitori, dei tempi di permanenza presso ciascun genitore, delle risorse economiche di entrambi i genitori e dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Il numero dei parametri che il giudice è chiamato a considerare, e la loro non facile traducibilità in termini economici, ha indotto la dottrina e le autorità giudiziarie a fissare diverse linee di interpretazione, talvolta contrastanti, proprio sul rilievo da dare a ciascuno degli indicatori citati dall’art. 337-ter c.c. Uno dei profili che ha generato maggiori difficoltà applicative è quello della proporzionalità della contribuzione a cui è tenuto ogni genitore rispetto alle proprie entrate, nel caso in cui entrambi i genitori dispongano di una propria fonte di reddito. In tale evenienza, il criterio vale solo a stabilire quanto può dare singolarmente ogni genitore, o va operata una attenta valutazione di proporzionalità anche tra i redditi dei due genitori? La differenza tra le somme quantificate secondo i due distinti metodi di indagine talvolta può essere sensibile. Secondo il primo criterio, sostenuto dalla giurisprudenza meno recente, il giudice dovrebbe estrapolare la disponibilità concreta di ciascun genitore parametrandola al suo reddito, riconoscendo poi entrambe le disponibilità al figlio, al netto dell’onere derivante a chi lo ospita e lo assiste con prevalenza.In applicazione del secondo criterio, elaborato dalla giurisprudenza più recente, la somma complessiva da corrispondere al figlio va invece determinata secondo i primi criteri indicati dall’art. 337-ter c.c. (esigenze attuali e precedente tenore di vita familiare), e poi posta carico di ciascun genitore in proporzione al reddito di ciascuno di essi. Seguendo la seconda chiave di interpretazione, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribaltare l’esito di un giudizio in cui, nei gradi precedenti, era stata data invece applicazione del primo criterio. Con l’ordinanza n. 4145 pubblicata il 10.2.2023, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto da un genitore che aveva impugnato la decisione con cui la Corte di Appello di Brescia – tra l’altro – aveva quantificato l’assegno periodico che aveva posto a suo carico, per il mantenimento della figlia, prendendo in esame il suo solo reddito, e non anche quello dell’altro genitore, circa il quale l’altra parte non aveva prodotto alcun documento, né i giudici di merito avevano svolto indagini. Secondo i giudici di legittimità, la Corte bresciana aveva rettamente valutato la situazione reddituale del ricorrente, tenendo conto degli esborsi mensili sullo stesso gravanti, anche se pro quota in concorso con la di lui moglie, ed ha valutato la condizione della figlia, priva di autosufficienza economica edimpegnata negli studi universitari. Tuttavia i giudici del secondo grado non avevano effettuato alcuna indagine circa le risorse patrimoniali e reddituali della madre, ritenendo ciò non necessario, alla luce di un superato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la determinazione del contributo che per legge grava sui genitori per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione della prole, a differenza di quanto avviene nella determinazione dell’assegno spettante al coniuge separato o divorziato, non si fonderebbe su di una rigida comparazione della situazione patrimoniale di ciascun coniuge (Cass. n. 18538/2013). La Corte di Cassazione ha perciò chiarito che, dalla più recente giurisprudenza è stato, invece, affermato il condiviso principio di diritto secondo cui “nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore, deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto.” (Cass. n. 4811/2018; conf. Cass. n. 19299/2020). La sentenza impugnata è stata perciò cassata, con rinvio del procedimento alla medesima Corte di merito, a cui spetterà di dare applicazione al principio affermato con una nuova valutazione comparativa e proporzionale delle rispettive disponibilità reddituali dei due genitori.
La Conversione Religiosa Giustifica l’Addebito della Separazione?

Tempo di lettura: 3 minuti Dopo alcuni anni di matrimonio, Tizia e Caio avevano deciso di separarsi, e ciascuno aveva imputato all’altro la colpa del fallimento dell’unione. Caio aveva chiesto che la colpa della separazione fosse addebitata alla moglie, poiché lei aveva abbracciato una fede religiosa diversa, le cui pratiche l’avevano distratta da ogni attenzione e cura verso il marito e la famiglia. La concomitanza tra la conversione religiosa ed il mutamento del comportamento di Tizia era stata confermata in aula da un testimone. Il Tribunale di Napoli aveva rigettato, però, la richiesta di addebito della separazione a danno della moglie, e la decisione era stata confermata dalla Corte di Appello, a cui aveva fatto ricorso il marito. Per i giudici di merito, il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, corrispondeva all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost., non potendo di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, sempre che l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge previsti dall’art. 143 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza. Avevano poi affermato che la violazione dei doveri coniugali ascritta a Tizia, in termini di atteggiamenti di indifferenza verso il marito (tanto da non occuparsi più delle faccende domestiche), non aveva trovato adeguata conferma nella deposizione testimoniale raccolta, Secondo i giudici del merito, anche la scelta di Tizia di dedicarsi alla congregazione religiosa o di trascorrere tempo davanti al computer non aveva avuto un’effettiva incidenza causale, perché si era inserita nel complessivo progetto di vita di “separati in casa” della coppia. Caio ha proposto però ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo che venisse riconosciuta la contrarietà alla legge della decisione di appello, ed ottenendo il ribaltamento della decisione assunta – sul punto – nei due gradi di merito con l’ordinanza n. 19502 del 10.7.2023. Per i giudici della Cassazione, non può esservi dubbio sul fatto che la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale debba ricollegarsi in via esclusiva al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o entrambi i coniugi. Deve essere perciò dimostrato il rapporto di causa ad effetto tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza; ragion per cui, in caso di mancato raggiungimento della prova in relazione al fatto che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, non è possibile pronunciare la separazione con addebito. Il giudice di merito, tuttavia, se ritiene che una determinata condotta, che di per sé risulterebbe in violazione dei doveri conseguenti al matrimonio, non è idonea a giustificare l’addebito della separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., essendo non la causa del fallimento dell’unione matrimoniale ma la conseguenza di una situazione di crisi già irrimediabilmente in atto, è tenuto a basare un tale convincimento sulla descrizione dettagliata della situazione di vita creatasi fra i coniugi prima di quella condotta e della prova della crisi già esplora in precedenza. Nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli aveva fatto riferimento ad una situazione di “reciproca sostanziale autonomia di vita”, testimoniata dal fatto che i due coniugi dormivano separati, ma non aveva spiegato se quella scelta era stata antecedente o successiva alla conversione religiosa della moglie. La Corte di Cassazione ha rilevato, inoltre, che il teste ascoltato dal tribunale aveva riferito degli atteggiamenti di disaffezione costituiti dal fatto che Tizia si era rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma ha raccontato pure di continue denigrazioni. Questo atteggiamento, che era stato ignorato dalla Corte di merito, ove fosse consistito in un comportamento moralmente violento, doveva essere considerato incompatibile con gli obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto ex art. 143, comma 2, c.c., tanto da assumere una incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa eventualmente preesistente di crisi del rapporto coniugale. La Suprema Corte ha cassato perciò la sentenza impugnata, rimettendo gli atti alla Corte di Appello di Napoli per una nuova decisione rispettosa dei principi enunciati.