Violenza sessuale: il “no” iniziale vale, anche se potrebbe arrivare un “sì” dopo

La Cassazione ribadisce che il consenso deve essere presente al momento dell’atto: la possibilità di un consenso futuro non esclude il reato La libertà sessuale è un diritto che si esercita momento per momento, attimo per attimo. Non esiste un consenso “anticipato” o “posticipato” che possa legittimare un atto sessuale compiuto contro la volontà espressa dalla persona in quel preciso istante. È questo il principio cardine ribadito dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, con la sentenza n. 1003 depositata l’8 luglio 2025 (R.G.N. 10678/2025), che merita un’attenta riflessione per comprendere la portata della tutela accordata dall’ordinamento alla sfera più intima della persona. La pronuncia affronta un tema di drammatica attualità: cosa accade quando una persona manifesta il proprio rifiuto a un rapporto sessuale, ma l’altra parte sostiene che quel rifiuto sarebbe stato solo temporaneo e che il consenso sarebbe arrivato comunque, magari poco dopo? La risposta della Suprema Corte è netta e inequivocabile: il consenso deve esistere nel momento esatto in cui l’atto viene compiuto, e nessuna aspettativa, nessuna previsione di un consenso futuro può giustificare la violazione della volontà espressa dalla persona in quel momento. La vicenda che ha portato alla pronuncia Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità riguardava un imputato condannato per i reati di cui agli artt. 56, 609-bis e 582 del codice penale. Il Tribunale di Aosta, con sentenza del 15 maggio 2024, aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato, condannandolo alla pena di un anno e un mese di reclusione, condizionalmente sospesa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 25 novembre 2024, aveva confermato integralmente la decisione di primo grado. Nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito emergeva un elemento centrale: la persona offesa aveva manifestato il proprio rifiuto a consumare un rapporto sessuale in quel momento, comunicando all’imputato di essere occupata in cucina e chiedendogli di aspettare. Nonostante questo chiaro diniego, l’imputato aveva proceduto ugualmente, costringendo fisicamente la vittima e procurandole lesioni in varie parti del corpo. Nel ricorso per cassazione, la difesa dell’imputato aveva cercato di contestare l’affermazione di responsabilità sostenendo che la persona offesa non aveva opposto un rifiuto assoluto al rapporto sessuale, ma gli aveva solo detto di aspettare perché era occupata in cucina, lasciando intendere che avrebbe comunque consentito ad avere il rapporto sessuale in un momento successivo. Secondo questa tesi difensiva, quindi, mancherebbe la prova dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dal momento che l’imputato poteva ragionevolmente ritenere che il consenso sarebbe arrivato poco dopo. Il principio affermato dalla Cassazione: il consenso deve essere attuale La Corte di Cassazione ha respinto integralmente questa tesi difensiva, richiamando un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso. Lo ha affermato chiaramente la Terza Sezione Penale con la sentenza n. 7873 del 19 gennaio 2022 (Rv. 282834-01), e lo ha ribadito ora nella pronuncia in commento. Questo principio significa che ciò che conta, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609-bis c.p., è esclusivamente la volontà espressa dalla persona al momento in cui l’atto viene compiuto. Non rileva minimamente che quella persona avrebbe potuto, forse, probabilmente, dare il proprio consenso in un momento successivo. Non conta che il rifiuto possa essere interpretato come “temporaneo” o “condizionato” a circostanze esterne (nel caso di specie, il fatto di essere occupata in cucina). Non ha rilevanza giuridica la circostanza che l’imputato potesse nutrire l’aspettativa di ottenere il consenso poco dopo. L’unica cosa che conta è il qui ed ora: se nel momento in cui l’atto viene compiuto la persona ha espresso il proprio rifiuto, qualsiasi condotta volta a superare tale rifiuto attraverso violenza, minaccia o costrizione fisica integra il reato di violenza sessuale. Perché il consenso deve essere attuale: il fondamento costituzionale della libertà sessuale Per comprendere appieno la portata di questo principio, occorre riflettere sulla natura del bene giuridico tutelato dall’art. 609-bis c.p. La Cassazione lo ha chiarito in moltissime pronunce: il bene protetto è la libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali, una libertà che deve essere considerata assoluta e incondizionata. Si tratta, in altre parole, di un diritto fondamentale della persona, che affonda le proprie radici negli artt. 2, 3 e 13 della Costituzione, i quali garantiscono l’inviolabilità della libertà personale e il pieno sviluppo della personalità individuale. La libertà sessuale non è un diritto che si esercita in astratto, come una sorta di autorizzazione generale che, una volta concessa, vale per sempre o per un periodo di tempo indefinito. È invece un diritto che si manifesta e si esprime continuamente, momento per momento, attraverso scelte libere e consapevoli. Ogni singolo atto sessuale richiede un consenso specifico, attuale, presente. Il fatto che una persona abbia acconsentito in passato a rapporti sessuali con la stessa persona non implica minimamente che acconsenta ad atti futuri. Analogamente, e qui sta il cuore della questione affrontata dalla sentenza in commento, il fatto che una persona potrebbe acconsentire in futuro non legittima minimamente un atto compiuto quando quel consenso non c’è ancora. Si potrebbe utilizzare un’analogia per rendere più comprensibile il concetto: immaginiamo una persona che invita un amico a pranzo dicendogli “vieni pure, ma tra un’ora perché ora sto cucinando”. Se l’amico decidesse di entrare in casa immediatamente, forzando la porta, non potrebbe certo difendersi sostenendo che tanto sarebbe stato autorizzato a entrare un’ora dopo. Il consenso a entrare in casa valeva per un momento successivo, non per il momento presente. Allo stesso modo, nel diritto penale, la libertà sessuale viene violata quando si compie un atto senza il consenso presente e attuale della persona, indipendentemente da eventuali consensi passati o futuri. La corretta ricostruzione operata dalla Corte territoriale Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Torino aveva operato una ricostruzione puntuale e corretta della fattispecie, evidenziando come la condotta dell’imputato fosse stata inequivocabilmente violenta. I giudici territoriali avevano
Violenza domestica e maltrattamenti: la Cassazione chiarisce i principi sulla valutazione della prova e sulla prescrizione

La Terza Sezione Penale ribadisce i criteri di attendibilità delle dichiarazioni delle vittime e precisa la disciplina temporale del reato di maltrattamenti dopo la riforma del 2012 Una recente pronuncia della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione affronta questioni di cruciale importanza nel contrasto alla violenza domestica e di genere, fornendo chiarimenti significativi sui criteri di valutazione della prova nei reati contro la persona e sulla disciplina della prescrizione per i maltrattamenti in famiglia. La decisione si inserisce nel solco consolidato della giurisprudenza di legittimità che negli ultimi anni ha progressivamente affinato gli strumenti interpretativi per garantire una tutela più efficace alle vittime di violenza, bilanciando al contempo le esigenze di garanzia processuale per gli imputati. La vicenda processuale trae origine da una complessa fattispecie di violenza domestica caratterizzata da episodi di violenza sessuale e maltrattamenti perpetrati nell’ambito di una relazione familiare. Il Tribunale di primo grado aveva condannato l’imputato a quattro anni e otto mesi di reclusione per una serie di condotte violente realizzate nel corso del tempo ai danni della compagna e di altri familiari. La Corte d’Appello aveva successivamente riformato parzialmente la sentenza, assolvendo l’imputato da alcune imputazioni per intervenuta prescrizione ma confermando la responsabilità per i maltrattamenti e riducendo la pena a quattro anni e due mesi di reclusione. L’imputato aveva quindi proposto ricorso per cassazione articolato su sette distinti motivi, tutti respinti dalla Suprema Corte che ha confermato sostanzialmente l’impostazione dei giudici d’appello, pur annullando senza rinvio limitatamente a uno specifico capo d’imputazione per sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione. La decisione offre spunti di notevole interesse tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale, contribuendo a precisare i confini applicativi di principi consolidati ma in continua evoluzione. La valutazione della prova nei reati di violenza domestica Il primo nucleo tematico affrontato dalla Cassazione riguarda i criteri di valutazione della prova testimoniale nei procedimenti per violenza domestica, tema di straordinaria delicatezza che richiede un equilibrio attento tra tutela delle vittime e garanzie processuali per l’imputato. La Corte ha respinto le censure del ricorrente che lamentavano vizi nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, ribadendo il principio fondamentale secondo cui la valutazione dell’attendibilità dei testimoni e la ricostruzione della dinamica degli eventi appartengono al merito della controversia e non possono essere rimesse in discussione in sede di legittimità se supportate da motivazione logica e coerente. Il ricorrente aveva in particolare contestato la credibilità accordata alle dichiarazioni delle persone offese, sostenendo che le loro versioni presentassero incongruenze e contraddizioni tali da minarne l’affidabilità. La Suprema Corte ha tuttavia chiarito che la valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni testimoniali costituisce una prerogativa esclusiva del giudice di merito, il quale deve operare una sintesi valutativa complessiva di tutti gli elementi acquisiti, compresi gli eventuali aspetti contraddittori o lacunosi delle deposizioni. Particolare rilevanza assume in questo contesto la specificità dei reati di violenza domestica, caratterizzati spesso dalla mancanza di testimoni diretti e dalla necessità di ricostruire dinamiche complesse che si sviluppano nell’ambito delle relazioni familiari. La giurisprudenza ha progressivamente elaborato criteri interpretativi che tengano conto di tale peculiarità, riconoscendo che le dichiarazioni delle vittime possano costituire prova decisiva purché risultino attendibili nel loro complesso e trovino riscontro in elementi oggettivi o di contesto. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva ritenuto credibili le testimonianze delle persone offese sulla base di una valutazione complessiva che aveva considerato non solo il contenuto specifico delle singole dichiarazioni, ma anche il contesto generale della relazione, la coerenza temporale degli episodi riferiti e la presenza di elementi di riscontro esterno. Tale metodologia valutativa è stata confermata dalla Cassazione, che ha respinto come meramente rivolta a ottenere una rivalutazione delle prove la censura del ricorrente sulla presunta inattendibilità delle testimonianze. La pronuncia contribuisce così a consolidare un orientamento giurisprudenziale che, pur mantenendo fermi i principi generali sulla valutazione della prova, riconosce la necessità di adattare i criteri applicativi alle specificità dei reati contro la persona, dove spesso la prova si forma attraverso dichiarazioni di soggetti che hanno vissuto direttamente situazioni di violenza e possono quindi presentare comprensibili difficoltà nella ricostruzione precisa di eventi traumatici. I limiti del sindacato di legittimità nelle questioni di fatto Un secondo profilo di grande interesse riguarda la delimitazione dei confini del sindacato di legittimità rispetto alle valutazioni di fatto operate dai giudici di merito. La Cassazione ha respinto come inammissibili diverse censure del ricorrente, rilevando che esse erano in realtà volte a ottenere una rivalutazione degli elementi probatori acquisiti piuttosto che a denunciare specifici vizi logici o giuridici della motivazione. La Corte ha in particolare sottolineato come il ricorrente si limitasse a proporre una ricostruzione alternativa dei fatti senza indicare specifici errori nella motivazione dei giudici d’appello, configurando quindi una critica generica e inammissibile in sede di legittimità. Tale rilievo assume portata generale e richiama l’attenzione sulla necessità di articolare con precisione le censure in cassazione, evitando formulazioni generiche che si risolvano in una mera richiesta di riesame del merito. Il principio trova particolare applicazione nei procedimenti per reati contro la persona, dove la complessità della ricostruzione fattuale e la delicatezza delle valutazioni richieste possono indurre a contestazioni che, pur comprensibili sul piano umano, non raggiungono la soglia di specificità richiesta per il sindacato di legittimità. La Suprema Corte ha quindi ribadito che la motivazione della sentenza d’appello deve essere censurata per aspetti specifici e puntuali, non potendosi limitare il ricorrente a esprimere un dissenso generico sulla ricostruzione operata dai giudici di merito. Questo orientamento contribuisce a chiarire il ruolo della Cassazione penale nel sistema processuale, confermando che il sindacato di legittimità non può estendersi a una rivalutazione complessiva delle prove ma deve limitarsi alla verifica della correttezza logica e giuridica dell’iter motivazionale seguito dai giudici del merito. Tale delimitazione assume particolare importanza nei procedimenti per violenza domestica, dove la complessità delle dinamiche relazionali e la delicatezza delle valutazioni richieste potrebbero altrimenti dar luogo a un numero eccessivo di ricorsi fondati su mere diversità di apprezzamento degli elementi probatori. La disciplina della prescrizione per i maltrattamenti