Fatture false e responsabilità del legale rappresentante: quando la dichiarazione fraudolenta si perfeziona anche senza evasione effettiva

La Cassazione chiarisce i confini del reato tributario più grave e conferma: chi firma la dichiarazione risponde sempre, anche affidandosi al commercialista La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32586 del 3 ottobre 2025, torna a pronunciarsi su uno dei reati tributari più insidiosi per imprenditori e amministratori di società: la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. La decisione offre importanti chiarimenti sulla natura del reato, sull’elemento psicologico necessario per la sua configurazione e sulla responsabilità personale di chi sottoscrive le dichiarazioni fiscali. La vicenda processuale alla base della pronuncia riguarda la legale rappresentante di una società edile che aveva utilizzato nella dichiarazione annuale trentasette fatture relative a prestazioni mai effettivamente rese dalla società emittente indicata nei documenti. L’importo complessivo delle operazioni fittizie ammontava a oltre centosettantamila euro, con un’IVA indicata per circa trentasettemila euro. Le indagini avevano rivelato che la società emittente era in realtà una struttura completamente fittizia: risultava sconosciuta all’anagrafe tributaria, il legale rappresentante formale era deceduto senza essere sostituito, non esisteva alcuna struttura aziendale né utenze intestate, né soggetti di riferimento da contattare. In sostanza, si trattava di una scatola vuota utilizzata per mascherare l’utilizzo di manodopera irregolare, consentendo alla società utilizzatrice di dedurre illegittimamente i costi corrispondenti ai compensi effettivamente corrisposti ai lavoratori in nero. Dopo la condanna in primo grado da parte del Tribunale e la conferma in appello, l’imputata ha proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi che la Suprema Corte ha ritenuto tutti inammissibili. L’analisi delle ragioni di questa decisione consente di mettere a fuoco alcuni aspetti fondamentali della disciplina penale tributaria che ogni imprenditore e professionista dovrebbe conoscere. Il primo aspetto riguarda la natura stessa del reato previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 74 del 2000. La Cassazione ribadisce con fermezza che si tratta di un reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona nel momento stesso in cui la dichiarazione fiscale contenente le false indicazioni viene presentata agli uffici finanziari. Questo significa che la configurazione del reato non richiede affatto che si verifichi un danno concreto per l’Erario, né che l’evasione fiscale si realizzi effettivamente. È sufficiente che vengano indicati nella dichiarazione elementi passivi fittizi supportati da fatture false. La ratio di questa scelta normativa risiede nell’intento del legislatore di colpire con particolare severità le condotte fraudolente che, attraverso un apparato documentale costruito ad arte, rendono più difficile e ostacolano l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria. La sentenza chiarisce inoltre con precisione cosa si intenda per operazioni soggettivamente inesistenti, distinguendole da quelle oggettivamente inesistenti. Nel primo caso, che ricorre nella fattispecie esaminata, le prestazioni possono anche essere state effettivamente rese, ma il soggetto che le ha eseguite non è quello indicato nelle fatture. Si tratta di una situazione molto frequente nei casi di interposizione fittizia o di società cartiere. Nel caso specifico, i lavori edili erano probabilmente stati eseguiti, ma non dalla società fantasma indicata in fattura, bensì da lavoratori irregolari di cui la società committente si avvaleva direttamente. Questa distinzione è fondamentale perché comporta che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa nel ricorso, non era affatto necessario accertare se le opere fossero state materialmente realizzate: ciò che rileva è unicamente la riconducibilità delle operazioni al soggetto emittente, che nel caso di specie era stata esclusa in modo motivato e ragionevole dai giudici di merito. Un secondo profilo di particolare rilevanza attiene all’elemento psicologico del reato. La Corte precisa che la dichiarazione fraudolenta richiede un duplice elemento soggettivo: da un lato il dolo generico, consistente nella consapevole indicazione nella dichiarazione fiscale di elementi passivi della cui fittizietà il soggetto sia certo o comunque accetti l’eventualità; dall’altro il dolo specifico di evasione, che rappresenta la finalità che deve animare la condotta dell’agente. È importante sottolineare che, come già ricordato, il concreto conseguimento dell’evasione non è necessario per il perfezionamento del reato. Deve però sussistere la finalità evasiva al momento della presentazione della dichiarazione. Nel caso esaminato, i giudici hanno ritenuto dimostrata la sussistenza del dolo specifico proprio attraverso l’analisi del meccanismo fraudolento posto in essere: l’utilizzo di una società fittizia per mascherare l’impiego di manodopera irregolare aveva la chiara finalità di ottenere un credito IVA non dovuto e di dedurre costi fittizi, come emergeva anche dal numero e dagli importi delle fatture utilizzate. Il ricorso al sistema delle società cartiere per l’intermediazione di manodopera irregolare costituisce infatti uno degli schemi fraudolenti più diffusi e rappresenta una modalità paradigmatica di realizzazione del dolo specifico di evasione. Un terzo aspetto particolarmente significativo per la pratica professionale riguarda la questione della responsabilità penale di chi affida a un commercialista o a un consulente fiscale l’incarico di compilare la dichiarazione dei redditi. La difesa aveva sostenuto che l’imputata, avendo delegato a terzi la redazione della dichiarazione, non potesse essere ritenuta responsabile se non fosse dimostrata la sua piena consapevolezza della falsità dei dati dichiarati. La Cassazione respinge con nettezza questa tesi, richiamando un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità: la legge tributaria considera personale per il contribuente il dovere di presentare la dichiarazione fiscale e il fatto di aver affidato a un professionista l’incarico di compilarla non può in alcun modo esonerare il contribuente dalla responsabilità penale per i reati dichiarativi. Questa affermazione ha implicazioni molto concrete per imprenditori e amministratori di società. Chi sottoscrive una dichiarazione fiscale se ne assume in pieno la responsabilità, anche sul piano penale, indipendentemente dal fatto che la dichiarazione sia stata materialmente predisposta da un consulente esterno. Non è sufficiente delegare formalmente l’adempimento dichiarativo a un professionista per escludere la propria responsabilità: occorre verificare attentamente i dati dichiarati e assicurarsi della loro correttezza. Naturalmente, la delega a un professionista qualificato può avere rilevanza sul piano dell’elemento soggettivo del reato, ma solo se si dimostri che il contribuente è stato tratto in inganno dal consulente e non era in condizione di rendersi conto della falsità dei dati. Nel caso concreto, tuttavia, l’entità e la sistematicità delle operazioni fittizie rendevano evidente la consapevolezza dell’imputata circa il meccanismo fraudolento. L’ultimo motivo di ricorso riguardava il diniego