Pene sostitutive e riforma Cartabia: quando il carcere non è l’unica risposta

La Cassazione richiama i giudici a valutare concretamente le potenzialità rieducative delle pene alternative, soprattutto quando la condanna è minima Con sentenza n. 34243 depositata il 20 ottobre 2025, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione interviene su una questione di fondamentale importanza per l’attuazione della riforma Cartabia: l’applicazione delle pene sostitutive previste dall’art. 20-bis del codice penale. La pronuncia segna un punto di svolta nell’interpretazione del nuovo assetto normativo introdotto dal D.Lgs. n. 150/2022, affermando che il giudice non può limitarsi a considerare i precedenti penali per negare una pena alternativa al carcere, ma deve compiere una valutazione prognostica complessa e motivata che tenga conto delle specifiche potenzialità rieducative della sanzione richiesta. La vicenda trae origine da un episodio di cronaca giudiziaria apparentemente minore: il tentativo di sottrarre generi alimentari del valore di 62 euro da un supermercato. La donna protagonista della vicenda veniva condannata dal Tribunale di Vercelli a due mesi di reclusione per tentato furto aggravato dall’esposizione alla pubblica fede, sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Torino. La difesa impugnava in cassazione su tre profili: la configurabilità dell’aggravante, la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e, soprattutto, il diniego della pena sostitutiva richiesta. La videosorveglianza non esclude l’aggravante del furto Sul primo profilo la Cassazione ha confermato l’orientamento consolidato in materia di furto aggravato dall’esposizione alla pubblica fede. La difesa aveva sostenuto che la presenza di controllo da parte del direttore del supermercato – controllo che aveva portato all’interruzione del reato e quindi alla sua qualificazione come tentato anziché consumato – avrebbe dovuto escludere l’aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, n. 7 del codice penale. La Suprema Corte ha respinto questa censura richiamando un principio ormai consolidato: sussiste l’aggravante qualora il furto della cosa esposta alla pubblica fede sia commesso in un luogo dotato di sistema di videosorveglianza che, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrate, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo, né garantisce in maniera continuativa la custodia del bene da parte del proprietario o di altra persona addetta alla sorveglianza. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva escluso del tutto la sussistenza di un sistema di sorveglianza con operatore addetto e pronto a impedire la commissione del furto, rilevando come l’azione criminosa fosse stata arrestata in modo accidentale. La ricorrente non aveva dedotto alcun travisamento della prova su questo punto, limitandosi a proporre una alternativa ricostruzione dei fatti senza confrontarsi specificamente con le argomentazioni decisive della sentenza impugnata. Il motivo di ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile per genericità. L’abitualità del reato esclude la non punibilità per tenuità del fatto Il secondo motivo di ricorso lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis del codice penale per particolare tenuità del fatto. La difesa sosteneva che la Corte territoriale non si fosse confrontata né con il tempo trascorso tra i reati precedenti e quello oggetto di giudizio, né con le circostanze della pregressa esecuzione di alcune pene, né con il comportamento susseguente al reato. Anche questo motivo è stato respinto come aspecifico. La sentenza impugnata aveva richiamato i precedenti penali dell’imputata, non solo risalenti ma anche relativi a tempi recenti, ai fini della prova dell’abitualità del reato. In particolare, tra le condanne subite emergeva anche una sentenza del 5 gennaio 2023 della Corte d’Appello di Torino che confermava la condanna per un furto commesso il 14 gennaio 2021, quindi successivo a quello per cui si procedeva. La Cassazione ha richiamato il principio espresso dalle Sezioni Unite secondo cui, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis, il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti oltre quello preso in esame. Nel caso concreto l’abitualità era attestata dai reati precedenti come anche da quello successivo, rendendo ogni ulteriore doglianza assorbita dalla preliminare valutazione di sussistenza dell’abitualità, che costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’esimente anche in presenza di un fatto di lieve entità. Le pene sostitutive come autentiche pene: la svolta della riforma Cartabia Il terzo motivo di ricorso – l’unico accolto dalla Suprema Corte – attiene al diniego della pena sostitutiva prevista dall’art. 20-bis del codice penale. La difesa aveva richiesto la sostituzione della pena detentiva con quella dei lavori di pubblica utilità, lamentando che la motivazione della Corte d’Appello si fosse limitata alla valutazione dei precedenti penali senza tenere in conto la misura della pena detentiva applicata, pari a soli due mesi di reclusione, e lo spirito della riforma Cartabia. La Corte territoriale aveva rilevato che le pene sostitutive non sarebbero state idonee alla rieducazione e, soprattutto, non avrebbero assicurato la prevenzione del pericolo di commissione di reati, tenuti in conto i numerosi e specifici precedenti che non risultavano aver costituito una remora per l’imputata. La Cassazione ha ritenuto questa motivazione contraddittoria e insufficiente, accogliendo il ricorso e annullando la sentenza con rinvio limitatamente al profilo delle pene sostitutive. La pronuncia si fonda su una ricostruzione sistematica della disciplina introdotta dalla riforma Cartabia, che ha profondamente modificato la natura e la funzione delle pene sostitutive nel sistema sanzionatorio italiano. Come evidenziato dalla Suprema Corte, la riforma ha inteso configurare le pene sostitutive come autentiche pene, destinate ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione per realizzare le funzioni proprie della sanzione penale. Ciò si desume dall’introduzione nel Libro I del codice penale del nuovo art. 20-bis, che espressamente le elenca, completando il novero delle pene principali e accessorie. La Cassazione richiama espressamente la relazione illustrativa del D.Lgs. n. 150/2022, che chiarisce come le pene sostitutive debbano intendersi come vere e proprie pene diverse da quelle edittali, irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato nonché a obiettivi di prevenzione generale e speciale. Questo nuovo assetto normativo si pone in coerenza con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che ragiona di “pene” al plurale, stimolando