La Suprema Corte chiarisce quando il giudice può utilizzare l’accertamento induttivo e quando occorre un fondamento documentale preciso per condannare per dichiarazione infedele
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32593 del 21 maggio 2025, offre un importante contributo interpretativo in materia di reati tributari dichiarativi, chiarendo i confini tra i diversi metodi di accertamento utilizzabili dal giudice penale per valutare la sussistenza del reato di dichiarazione infedele. La decisione interviene su una questione tecnica ma dalle rilevanti implicazioni pratiche: quando è possibile fondare una condanna penale tributaria esclusivamente sui dati dello spesometro e quando invece è necessario un accertamento più articolato basato sulla documentazione contabile.
La vicenda processuale trae origine dalla condanna in primo e secondo grado di una contribuente accusata di avere indicato nelle dichiarazioni fiscali relative agli anni 2015 e 2016 elementi passivi fittizi, conseguendo un profitto determinato complessivamente in circa sedicimila euro tra le due annualità. Il Tribunale di Milano aveva dichiarato la responsabilità penale per il reato previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000, che punisce la dichiarazione infedele quando l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, supera determinate soglie di rilevanza penale. La Corte d’Appello di Milano aveva confermato integralmente la sentenza di primo grado, respingendo le censure difensive articolate dall’imputata.
Il ricorso per cassazione si sviluppava attraverso quattro distinti motivi, ciascuno dei quali merita un’analisi specifica perché consente di chiarire aspetti rilevanti della disciplina penale tributaria che interessano tanto i professionisti quanto i contribuenti.
Il primo motivo, quello più significativo dal punto di vista tecnico-giuridico, lamentava una violazione di legge relativa ai criteri di accertamento della violazione tributaria. La difesa sosteneva che i giudici di merito avessero erroneamente ritenuto sufficiente lo strumento dello spesometro per accertare l’evasione, laddove tale strumento avrebbe carattere meramente presuntivo e non potrebbe sostituire un vero e proprio accertamento contabile accompagnato dalla verifica dell’effettiva realizzazione delle operazioni. Secondo la ricorrente, i precedenti giurisprudenziali richiamati nelle sentenze di merito riguardavano in realtà l’omessa dichiarazione fiscale e non la dichiarazione infedele, trattandosi di fattispecie diverse che richiedono metodi probatori differenti.
La Cassazione accoglie parzialmente le premesse teoriche di questa censura ma ne respinge le conclusioni concrete, offrendo così un importante chiarimento di principio. La Suprema Corte conferma che effettivamente lo strumento dello spesometro, inteso come sistema di controllo delle operazioni rilevanti ai fini IVA attraverso l’incrocio dei dati comunicati dai diversi operatori economici, non può costituire da solo il fondamento di una condanna per dichiarazione infedele. Questo strumento trova invece applicazione tipica nella fattispecie dell’omessa dichiarazione, prevista dall’articolo 5 del medesimo decreto legislativo, dove il contribuente non abbia presentato la dichiarazione pur essendo obbligato a farlo e le scritture contabili siano irregolarmente tenute.
La distinzione appare sottile ma è in realtà fondamentale. Nel caso dell’omessa dichiarazione, il contribuente non ha adempiuto affatto all’obbligo dichiarativo e generalmente tiene una contabilità irregolare, sicché il fisco deve ricostruire la base imponibile utilizzando metodi presuntivi o indiretti, tra cui appunto lo spesometro. Nel caso della dichiarazione infedele, invece, il contribuente ha presentato la dichiarazione ma ha indicato dati falsi, e la falsità deve essere provata confrontando quanto dichiarato con la reale situazione contabile e documentale. In questo secondo caso, quindi, non è sufficiente un accertamento presuntivo basato su dati indiretti, ma occorre un riscontro documentale specifico che dimostri l’infedeltà della dichiarazione.
Tuttavia, precisa la Cassazione richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, anche in tema di dichiarazione infedele il giudice può legittimamente fare ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, e può anche utilizzare il metodo induttivo di accertamento quando le scritture contabili siano state irregolarmente tenute. La sentenza richiama espressamente una pronuncia del 2008 secondo cui lo strumento dello spesometro consente la determinazione del reddito imponibile di un soggetto che debba regolarmente provvedere alla tenuta di scritture e documenti contabili comprovanti i suoi flussi, attivi e passivi, di reddito, sulla base della documentazione emessa o a lui indirizzata e conservata dai soggetti che con codesto soggetto siano venuti in affari.
La Corte chiarisce quindi che nel caso concreto non si è trattato di un vero e proprio accertamento induttivo basato su presunzioni semplici, bensì di un accertamento documentale fondato su specifici dati contabili risultanti dai sistemi di controllo fiscale. La differenza è sostanziale: l’accertamento induttivo ricostruisce la base imponibile attraverso elementi indiziari e presunzioni quando manchi una documentazione attendibile, mentre l’accertamento documentale si fonda su documenti contabili specifici la cui concludenza e veridicità è compito del contribuente contestare. Nel caso esaminato, dunque, la condanna non si fondava su mere presunzioni ricavate dallo spesometro, ma su specifici riscontri documentali che dimostravano l’indicazione di elementi passivi inesistenti.
Questa precisazione consente alla Cassazione di respingere anche il secondo e il terzo motivo di ricorso, che lamentavano rispettivamente la violazione delle norme sui requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per le presunzioni semplici e la contraddittorietà della motivazione in punto di legittimità del ricorso al metodo induttivo. Poiché, come chiarito, non si è trattato di accertamento induttivo in senso proprio ma di accertamento documentale, le doglianze relative ai requisiti delle presunzioni semplici risultano ultronee. Il carattere non meramente presuntivo dell’accertamento operato, fondato invece su precisi dati contabili estratti dai sistemi di controllo fiscale, rende irrilevanti le censure sulla necessità di un ragionamento inferenziale particolarmente rigoroso.
La Corte sottolinea che l’accertamento è stato di natura documentale perché fondato su specifici dati contabili risultanti dalla documentazione fiscale e non su una ricostruzione presuntiva del reddito. Nel caso specifico, quindi, le doglianze difensive si rivelavano infondate perché fondate su un equivoco di fondo circa la natura dell’accertamento effettivamente posto a base della condanna. I giudici di merito non avevano utilizzato lo spesometro come strumento presuntivo isolato, ma lo avevano impiegato come fonte di dati documentali che, incrociati con la documentazione contabile dell’imputata, dimostravano oggettivamente l’indicazione di costi inesistenti.
Il quarto motivo di ricorso riguardava il diniego delle circostanze attenuanti generiche previste dall’articolo 62-bis del codice penale. Anche questa censura viene respinta dalla Cassazione con una motivazione che richiama principi consolidati in materia. La Corte ribadisce che il riconoscimento delle attenuanti generiche non costituisce un diritto automatico dell’imputato ma richiede la presenza di elementi positivi idonee a giustificare un trattamento di particolare benevolenza. La natura devolutiva del giudizio di appello comporta che, in assenza di una motivata contestazione della motivazione della sentenza di primo grado che aveva negato il beneficio, non vi è onere per la Corte d’appello di giustificare ulteriormente l’esclusione delle attenuanti già negata dal primo giudice.
Nel caso concreto, la Corte territoriale aveva motivato il diniego richiamando la mancata allegazione in sede di gravame di ragioni specifiche che avrebbero potuto giustificare il riconoscimento del beneficio. La ricorrente, nel ricorso per cassazione, si era limitata a un generico riferimento alla necessità di evidenziare le ragioni della mancata concessione, senza però indicare quali fossero gli elementi positivi concreti che avrebbero dovuto essere valorizzati dai giudici. Questa genericità della censura ne determina l’inammissibilità, poiché il ricorrente ha l’onere di confrontarsi in modo specifico con le effettive ragioni poste a fondamento della decisione impugnata.
La sentenza si inserisce in un quadro giurisprudenziale ormai consolidato che distingue con chiarezza tra le diverse fattispecie di reati tributari dichiarativi e i conseguenti metodi probatori utilizzabili. La dichiarazione infedele si caratterizza per il fatto che il contribuente presenta la dichiarazione ma indica dati non veritieri, mentre l’omessa dichiarazione ricorre quando il contribuente non presenta affatto la dichiarazione pur essendo obbligato a farlo. Questa differenza strutturale tra le due fattispecie comporta conseguenze rilevanti sul piano probatorio: mentre per l’omessa dichiarazione è possibile ricorrere più ampiamente a metodi presuntivi e induttivi per ricostruire la base imponibile, per la dichiarazione infedele occorre dimostrare l’infedeltà dei dati dichiarati attraverso un confronto con la documentazione contabile e fiscale effettivamente esistente.
Lo spesometro, inteso come sistema di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini IVA, costituisce uno strumento di controllo fiscale che consente all’Amministrazione di verificare la coerenza tra quanto dichiarato dai diversi operatori economici che intrattengono rapporti commerciali tra loro. I dati dello spesometro possono certamente essere utilizzati anche nei procedimenti per dichiarazione infedele, ma non come unico fondamento probatorio di tipo presuntivo, bensì come fonte di elementi documentali che devono essere poi riscontrati con la contabilità e la documentazione del contribuente. È questo riscontro documentale che legittima la condanna, non la mera difformità tra i dati dello spesometro e quanto dichiarato.
Quali sono le implicazioni pratiche di questa pronuncia per contribuenti e professionisti? Innanzitutto, emerge che la distinzione tra accertamento induttivo e accertamento documentale non è meramente teorica ma produce conseguenze concrete sul piano probatorio. Quando l’accertamento si fonda su specifici documenti contabili e dati verificabili, l’onere della prova si sposta sostanzialmente sul contribuente, che deve dimostrare l’erroneità o l’inattendibilità di quella documentazione. Viceversa, quando si tratti di accertamento presuntivo basato su indizi, l’Amministrazione deve garantire che gli indizi rispettino i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.
In secondo luogo, la sentenza conferma che i dati fiscali comunicati all’Amministrazione attraverso gli adempimenti previsti dalla normativa tributaria, ivi compreso lo spesometro e oggi la fatturazione elettronica, costituiscono fonti documentali utilizzabili anche nei procedimenti penali tributari. Questo significa che ogni difformità tra quanto dichiarato e quanto risultante dai sistemi di controllo incrociato può costituire elemento probatorio di un’infedeltà dichiarativa, salva la possibilità per il contribuente di fornire adeguata giustificazione delle discordanze.
In terzo luogo, emerge l’importanza di una contestazione tempestiva e specifica delle modalità di accertamento già in sede di merito. Nel caso esaminato, la generica doglianza circa l’utilizzo dello spesometro non è stata sufficiente perché non si confrontava con la reale natura dell’accertamento effettuato, che era di tipo documentale e non presuntivo. È quindi fondamentale che la difesa analizzi con precisione le modalità concrete dell’accertamento fiscale posto a base dell’imputazione e articoli censure specifiche rispetto al metodo effettivamente utilizzato.
Sul piano della prevenzione del rischio penale tributario, la pronuncia sottolinea ancora una volta l’importanza di mantenere una contabilità regolare e completa, che consenta di giustificare puntualmente le operazioni dichiarate. Quando la documentazione contabile è carente o irregolare, il contribuente si espone al rischio che l’accertamento venga condotto con metodi induttivi o basandosi prevalentemente sui dati in possesso dell’Amministrazione finanziaria, con evidente svantaggio difensivo. La tenuta di una documentazione probatoria completa e la conservazione di tutti i giustificativi delle operazioni costituiscono quindi non solo un obbligo fiscale ma anche una forma essenziale di tutela in caso di contestazioni.
In materia di attenuanti generiche, la sentenza conferma che il riconoscimento del beneficio richiede un’allegazione specifica da parte della difesa degli elementi positivi che dovrebbero essere valorizzati. Non è sufficiente invocare genericamente l’incensuratezza o il comportamento processuale corretto, ma occorre individuare circostanze concrete che giustifichino un trattamento di particolare clemenza. Questa indicazione risulta particolarmente importante per la redazione degli atti difensivi in sede di gravame, dove l’allegazione puntuale degli elementi favorevoli assume carattere decisivo.
In definitiva, la sentenza della Cassazione offre un contributo significativo alla delimitazione dei confini tra i diversi metodi di accertamento utilizzabili nei procedimenti penali tributari. La distinzione tra accertamento presuntivo, accertamento induttivo e accertamento documentale non è meramente terminologica ma produce conseguenze concrete sulla distribuzione dell’onere probatorio e sulle garanzie difensive del contribuente. La corretta qualificazione del metodo di accertamento effettivamente utilizzato costituisce quindi un passaggio logico indispensabile per articolare una difesa efficace, evitando censure generiche che si rivelano inammissibili perché non confrontate con le effettive argomentazioni delle sentenze di merito.
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