Responsabilità dell’avvocato: non basta un orientamento giurisprudenziale, deve essere quello prevalente

La Cassazione chiarisce quando l’avvocato risponde per la scelta di una strategia difensiva inadeguata, anche se tecnicamente “opinabile”

Con un’importante pronuncia dello scorso ottobre, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di responsabilità professionale dell’avvocato: il professionista è tenuto ad adottare la linea difensiva più adeguata all’interesse del cliente, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale prevalente, anche quando personalmente non lo condivida. La sentenza numero 28406 del 27 ottobre 2025, emessa dalla Terza Sezione Civile, offre l’occasione per riflettere sui confini della diligenza professionale forense e sulle conseguenze di scelte strategiche errate.

La vicenda alla base della decisione

La controversia riguardava un cliente che aveva affidato al proprio avvocato la tutela dei propri diritti ereditari. Alla morte della madre, il cliente aveva scoperto che questa aveva trasferito l’unico immobile di sua proprietà a un’altra figlia e al genero mediante un contratto di vendita a prezzo simbolico, lesivo della quota di legittima a lui spettante.

Il professionista aveva consigliato di proporre un ricorso per sequestro giudiziario o conservativo dell’immobile, prospettando un’azione diretta a far accertare il carattere simulato del contratto di vendita e a far dichiarare la nullità per difetto di forma del contratto dissimulato di donazione. La strategia si fondava sull’idea che la donazione indiretta, realizzata mediante vendita a prezzo vile, richiedesse la forma solenne dell’atto pubblico con testimoni prevista per le donazioni tipiche.

Il Tribunale aveva però respinto l’istanza cautelare, rilevando l’assenza dei presupposti necessari. Dopo questa sconfitta processuale, il cliente aveva sostenuto spese per oltre ottomila euro e aveva dovuto revocare il mandato, affidandosi a un nuovo professionista. Quest’ultimo aveva correttamente esercitato l’azione di riduzione prevista dagli articoli 533 e seguenti del codice civile, ottenendo la reintegrazione della quota di legittima per un importo di circa quarantaseimila euro.

Il cliente aveva quindi citato in giudizio il primo avvocato per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta professionale inadeguata. Il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità del professionista, ma la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione, escludendo la colpa dell’avvocato sul presupposto che la sua strategia si fondasse su un orientamento giurisprudenziale minoritario ma comunque esistente.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del cliente, cassando la sentenza d’appello e affermando un principio di grande rilevanza pratica. Gli obblighi professionali dell’avvocato, pur essendo obblighi di mezzi e non di risultato, richiedono che il professionista operi con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, assicurando che la scelta difensiva cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente.

In particolare, la Cassazione ha chiarito che l’avvocato deve adottare mezzi difensivi che non solo non risultino pregiudizievoli per il cliente, ma si rivelino come i più adeguati rispetto al raggiungimento del risultato perseguito. Questo significa che il professionista non può limitarsi a individuare una qualsiasi interpretazione giuridica astrattamente sostenibile, ma deve orientarsi verso quella che offre le maggiori probabilità di successo alla luce dell’orientamento giurisprudenziale consolidato.

Il punto cruciale della decisione riguarda il comportamento che l’avvocato deve tenere di fronte a una questione giuridica su cui esistono orientamenti contrastanti. Secondo i giudici di legittimità, quando una soluzione giuridica, pur opinabile e magari non condivisa dal professionista, sia stata tuttavia affermata dalla giurisprudenza consolidata, l’avvocato non è esentato dal tenerne conto. Al contrario, deve porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze sfavorevoli per il proprio assistito derivanti dalla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico prevalente.

Nel caso specifico, l’avvocato aveva basato la propria strategia su un orientamento giurisprudenziale ormai definitivamente superato. La tesi secondo cui il contratto misto di vendita e donazione richiederebbe la forma solenne dell’atto pubblico con testimoni era stata sostenuta da alcune pronunce della Cassazione risalenti agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Tuttavia, dall’inizio del nuovo millennio si era affermato e consolidato l’orientamento contrario, divenuto autentico “diritto vivente”: per le donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico con testimoni prevista dall’articolo 782 del codice civile, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato.

La Corte ha dunque censurato la sentenza d’appello per aver fondato l’esclusione della responsabilità professionale sulla mera esistenza di un orientamento giurisprudenziale favorevole, senza considerare che tale orientamento era ormai da tempo superato e opposto a quello consolidatosi da quasi due decenni. L’avvocato, non tenendo conto dell’incompatibilità del mezzo difensivo adottato con la regola di diritto vivente, aveva posto in essere una strategia processuale destinata a produrre conseguenze sfavorevoli per il cliente.

Le implicazioni pratiche per professionisti e clienti

Questa pronuncia ha importanti ricadute operative per gli avvocati. Il principio affermato impone al professionista un dovere di aggiornamento costante sulla giurisprudenza, con particolare attenzione agli orientamenti consolidati e alle evoluzioni interpretative. Non è sufficiente individuare una tesi astrattamente sostenibile o un precedente isolato: occorre valutare quale sia l’orientamento prevalente e ragionevolmente prevedibile che il giudice applicherà.

Sul piano della responsabilità professionale, la sentenza chiarisce che la colpa dell’avvocato può configurarsi anche quando la strategia adottata si fondi su un orientamento minoritario o superato, se questo comporta conseguenze pregiudizievoli per il cliente. Il riferimento agli articoli 1176, secondo comma, e 2236 del codice civile va quindi interpretato nel senso che il professionista risponde quando non adotta la soluzione più adeguata all’interesse del cliente, conformemente al diritto vivente.

Per i clienti, la decisione rappresenta un’importante garanzia: possono legittimamente attendersi che il proprio difensore non si limiti a individuare una qualsiasi tesi astrattamente sostenibile, ma orienti la strategia difensiva verso le soluzioni che offrono le maggiori probabilità di successo, tenendo conto degli orientamenti giurisprudenziali consolidati. Quando ciò non avviene, con conseguente pregiudizio per gli interessi del cliente, la responsabilità professionale può essere invocata.

La sentenza suggerisce anche una riflessione più ampia sul rapporto tra autonomia professionale dell’avvocato e dovere di conformarsi al diritto vivente. Il professionista conserva certamente la libertà di proporre interpretazioni innovative o di contestare orientamenti consolidati quando ciò sia nell’interesse del cliente e vi siano margini concreti di successo. Tuttavia, quando un orientamento si sia definitivamente cristallizzato, la scelta di ignorarlo in favore di tesi minoritarie e superate può integrare inadempimento degli obblighi professionali.

Un ulteriore aspetto pratico riguarda la fase di consulenza iniziale: l’avvocato deve informare correttamente il cliente sulle effettive prospettive di successo dell’azione da intraprendere, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale prevalente. Nel caso esaminato dalla Cassazione, il professionista aveva anche fornito informazioni errate sulle somme cui il cliente avrebbe avuto diritto, ingenerando aspettative poi deluse. Questo profilo evidenzia l’importanza di una comunicazione trasparente e accurata fin dall’inizio del rapporto professionale.

La regola sulla forma delle donazioni indirette

Vale la pena soffermarsi brevemente sulla questione giuridica sostanziale che ha costituito il terreno di scontro nella vicenda. L’articolo 809 del codice civile stabilisce che agli atti di liberalità diversi dalla donazione si applicano, in quanto compatibili, le norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli. Significativamente, questo articolo non richiama l’articolo 782 del codice civile, che prescrive la forma dell’atto pubblico ricevuto da notaio alla presenza di due testimoni per le donazioni tipiche.

Da questa mancanza di richiamo deriva, secondo l’orientamento ormai consolidato, che per le donazioni indirette – quelle cioè realizzate mediante negozi giuridici diversi dalla donazione tipica ma comunque aventi finalità liberali – non è richiesta la forma solenne. È sufficiente che sia rispettata la forma prescritta per il negozio concreto utilizzato. Nel caso della vendita immobiliare, anche se effettuata a prezzo vile con evidente animus donandi, è quindi sufficiente la forma scritta dell’atto di compravendita, senza necessità di atto pubblico notarile con testimoni.

Questo orientamento, affermato con continuità dalla Cassazione dal 2000 in poi e mai più messo in discussione negli ultimi venticinque anni, costituisce oggi autentico diritto vivente. L’avvocato che intendesse contestare la validità formale di una vendita immobiliare a prezzo simbolico basandosi sulla tesi della necessità dell’atto pubblico con testimoni si esporrebbe, come dimostrato dal caso in esame, a responsabilità professionale.

Conclusioni

La pronuncia della Cassazione rappresenta un importante richiamo ai doveri di diligenza e aggiornamento che gravano sul professionista forense. L’avvocato non può limitarsi a individuare una qualsiasi tesi astrattamente sostenibile, ma deve orientare la propria strategia difensiva verso le soluzioni che meglio tutelano il cliente alla luce del diritto vivente. Quando un orientamento giurisprudenziale si sia consolidato, ignorarlo in favore di tesi minoritarie e superate costituisce inadempimento professionale, fonte di responsabilità risarcitoria.

Per i clienti, questa sentenza rafforza le garanzie di una difesa qualificata e aggiornata. Per gli avvocati, rappresenta uno stimolo costante all’approfondimento e al monitoraggio dell’evoluzione giurisprudenziale, confermando che la qualità professionale si misura non solo sulla conoscenza delle norme, ma anche sulla capacità di individuare e applicare gli orientamenti interpretativi consolidati.

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