La Terza Sezione Penale chiarisce i confini del dolo nelle false dichiarazioni per ottenere prestazioni assistenziali
La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 498 del 14 maggio 2025, ha fornito un importante contributo interpretativo in materia di false dichiarazioni per l’ottenimento del reddito di cittadinanza. La decisione, emanata dalla Terza Sezione Penale, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro una condanna per violazione dell’articolo 7, comma 1, del decreto legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni nella legge n. 26 del 2019.
La vicenda trae origine da una condanna inflitta dal Tribunale di Livorno nel novembre 2022 e successivamente confermata dalla Corte d’appello di Firenze nel dicembre 2024. Il caso riguardava un soggetto che, nel presentare la domanda per ottenere il reddito di cittadinanza, aveva omesso di comunicare informazioni essenziali relative alla propria situazione lavorativa e patrimoniale. In particolare, l’interessato aveva taciuto di essere titolare di un’impresa di compravendita di autoveicoli con un inventario di ben trentadue veicoli, oltre a non aver indicato correttamente la propria residenza familiare effettiva.
La normativa sul reddito di cittadinanza impone ai richiedenti obblighi dichiarativi particolarmente stringenti, proprio perché il beneficio è destinato esclusivamente a chi si trova in condizioni di effettivo bisogno economico. La legge richiede che le informazioni fornite siano non solo veritiere, ma anche complete, per consentire all’amministrazione di valutare correttamente la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge.
Il ricorso presentato davanti alla Cassazione si fondava essenzialmente su due argomenti. Il primo contestava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sostenendo che le omissioni informative fossero frutto di semplice negligenza e non di un intento doloso. Il secondo motivo lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’inadeguatezza della pena irrogata rispetto alla gravità del fatto.
La Suprema Corte ha respinto entrambe le censure con argomentazioni che meritano particolare attenzione. Quanto al primo profilo, i giudici di legittimità hanno chiarito che per integrare il reato previsto dall’articolo 7 del decreto legge n. 4 del 2019 è sufficiente il dolo generico. Questo significa che non occorre dimostrare una particolare intenzione fraudolenta o un piano premeditato di inganno, ma è sufficiente che il soggetto sia consapevole dell’obbligo di fornire informazioni complete e veritiere e che, ciononostante, ometta volontariamente di comunicare dati rilevanti.
La Corte ha sottolineato come l’incompletezza delle dichiarazioni non possa essere considerata una semplice svista quando riguarda elementi così significativi come la titolarità di un’attività imprenditoriale con un consistente parco veicoli. In questi casi, l’omissione non può essere attribuita a ignoranza o a una comprensione errata dei propri doveri dichiarativi, poiché si tratta di informazioni che il richiedente conosce perfettamente e che riguardano la sua stessa situazione personale ed economica.
Particolarmente significativo è il passaggio in cui la sentenza evidenzia che l’interessato non poteva non essere consapevole dell’obbligo di dichiarare la propria posizione lavorativa effettiva. La consapevolezza dell’esistenza di un dovere di completezza informativa, unita alla volontaria omissione di dati essenziali, configura quella rappresentazione della doverosità delle informazioni che integra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.
Sul secondo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la Cassazione ha ritenuto che la decisione della Corte territoriale fosse adeguatamente motivata e conforme ai principi giurisprudenziali consolidati. La presenza di precedenti penali a carico del condannato, unitamente alla gravità del comportamento tenuto, giustificava l’esclusione del beneficio delle circostanze attenuanti. Inoltre, la pena applicata risultava contenuta nel minimo edittale previsto, con un aumento per effetto della recidiva reiterata che la Corte ha ritenuto proporzionato alla situazione concreta.
Questa pronuncia si inserisce in un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, che ha più volte ribadito la necessità di un rigoroso rispetto degli obblighi dichiarativi in materia di prestazioni assistenziali. Il reddito di cittadinanza, essendo una misura di sostegno economico finanziata dalla collettività, deve essere effettivamente destinato a chi ne ha diritto secondo i criteri stabiliti dal legislatore. La falsità o l’incompletezza delle dichiarazioni non solo lede il corretto funzionamento del sistema di welfare, ma sottrae risorse che potrebbero essere destinate a chi versa in condizioni di effettivo bisogno.
Le implicazioni pratiche di questa sentenza sono rilevanti per chiunque presenti o abbia presentato domanda per il reddito di cittadinanza o altre prestazioni assistenziali. La decisione conferma che non è sufficiente limitarsi a compilare i moduli richiesti in modo superficiale o incompleto, sperando che eventuali omissioni possano essere giustificate come errori in buona fede. Al contrario, chi omette di dichiarare elementi sostanziali della propria situazione economica o lavorativa si espone a conseguenze penali che possono comportare la reclusione, oltre all’obbligo di restituire le somme indebitamente percepite.
La sentenza evidenzia inoltre come il sistema di controlli sulle dichiarazioni sostitutive sia ormai sufficientemente articolato da permettere l’emersione delle situazioni fraudolente. Le verifiche incrociate tra diverse banche dati pubbliche consentono di individuare discrepanze e omissioni che, quando riguardano elementi essenziali come la titolarità di attività d’impresa, difficilmente possono sfuggire agli accertamenti dell’autorità competente.
Un altro aspetto degno di nota è il rilievo che la Corte attribuisce alla completezza informativa. Non basta che le informazioni fornite siano tecnicamente veritiere: esse devono anche essere complete, nel senso che non possono essere omessi dati rilevanti per la valutazione dei requisiti di accesso al beneficio. Questa interpretazione estensiva dell’obbligo dichiarativo risponde all’esigenza di garantire che l’amministrazione disponga di tutti gli elementi necessari per una corretta istruttoria della pratica.
La condanna alle spese processuali e al pagamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dall’articolo 616 del codice di procedura penale, completa il quadro sanzionatorio. Questa misura accessoria, che si aggiunge alla pena detentiva, sottolinea ulteriormente la gravità con cui l’ordinamento considera le violazioni degli obblighi dichiarativi in materia assistenziale.
Per i cittadini che si trovano in difficoltà economiche e intendono accedere a forme di sostegno pubblico, questa sentenza rappresenta un monito chiaro: è fondamentale fornire informazioni complete e veritiere fin dalla presentazione della domanda. Qualsiasi dubbio sulla necessità di dichiarare determinati elementi dovrebbe essere risolto optando per la massima trasparenza, eventualmente avvalendosi di una consulenza professionale qualificata.
Per le imprese e i professionisti, la decisione offre uno spunto per sensibilizzare i propri clienti sull’importanza del corretto adempimento degli obblighi dichiarativi. La consulenza preventiva può evitare situazioni che, come nel caso esaminato dalla Cassazione, sfociano in procedimenti penali con conseguenze personali e patrimoniali di notevole gravità.
La sentenza conferma dunque un principio fondamentale: nel rapporto con le istituzioni pubbliche, e in particolare quando si richiedono prestazioni assistenziali finanziate dalla collettività, la trasparenza e la completezza informativa non sono semplici formalità burocratiche, ma costituiscono obblighi giuridici il cui mancato rispetto può integrare fattispecie penalmente rilevanti. La consapevolezza di questa responsabilità dovrebbe guidare ogni cittadino nel momento in cui si accinge a presentare domande per benefici di natura assistenziale.
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