Investimenti rischiosi e obblighi informativi: la Cassazione chiarisce quando decorrono gli interessi in caso di risoluzione del contratto

La Suprema Corte ribadisce i doveri dell’intermediario e precisa il regime degli interessi sulle somme da restituire dopo la dichiarazione di risoluzione contrattuale

Con ordinanza n. 27965 del 21 ottobre 2025, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di intermediazione finanziaria, affrontando una questione di particolare rilevanza pratica: quando decorrono gli interessi sulle somme che l’intermediario deve restituire all’investitore a seguito della dichiarazione giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento agli obblighi informativi.

La vicenda trae origine dall’acquisto, avvenuto nel maggio 2001, di obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina. L’investitore, ritenendo di non aver ricevuto adeguate informazioni sui rischi dell’operazione, aveva convenuto in giudizio l’istituto bancario che aveva intermediato l’operazione. La Corte d’Appello di Catania aveva dichiarato la risoluzione del contratto di acquisto e condannato la banca a restituire l’intero importo investito, disponendo che sulle somme decorressero gli interessi legali dalla data dell’acquisto dei titoli. L’intermediario impugnava la sentenza con ricorso per cassazione articolato in ben nove motivi.

Gli obblighi informativi valgono anche per gli investitori esperti

La pronuncia si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che la Suprema Corte ribadisce con particolare nettezza. Anche l’investitore con elevata propensione al rischio, speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi, deve poter valutare la propria scelta nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli siano stati segnalati.

Come affermato dalla Cassazione nelle precedenti pronunce richiamate nell’ordinanza (tra cui Cass. n. 12990/2023, Cass. n. 7288/2023 e Cass. n. 19891/2022), l’inottemperanza dell’intermediario agli obblighi informativi fa insorgere la presunzione di sussistenza del nesso di causalità tra inadempimento e pregiudizio lamentato dall’investitore. La prova contraria, a carico dell’intermediario, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio da parte dell’investitore, desunta anche da scelte rischiose pregresse.

La Corte precisa che la propensione al rischio deve essere tenuta distinta dall’adempimento degli obblighi informativi, dal momento che questi ultimi assumono rilevanza fondamentale anche nei confronti di un investitore che presenti un elevato profilo di rischio. Non può intendersi la propensione al rischio come mera ed acritica accettazione di qualsiasi livello di incertezza degli esiti dell’investimento, indipendentemente dal livello di informazione resa dall’intermediario. Al contrario, l’intermediario che viene meno ai propri doveri di informazione determina una condizione di disorientamento dell’investitore, impedendogli di svolgere quella valutazione razionale che distingue la propensione al rischio – intesa come accettazione del grado elevato di un’incertezza di cui si è pienamente e lucidamente consapevoli – dal mero azzardo acritico, non ponderato e quindi irrazionale.

L’onere della prova grava sull’intermediario

Ulteriore profilo affrontato dalla Suprema Corte attiene alla ripartizione dell’onere probatorio. La decisione ribadisce che grava sull’intermediario finanziario l’onere di provare di aver adempiuto agli obblighi informativi posti a suo carico dall’art. 23 del D.Lgs. n. 58/1998 (Testo Unico della Finanza). Tale principio si ricollega alla speciale protezione che l’ordinamento appresta in favore dell’investitore, considerato parte contrattuale strutturalmente debole nel rapporto con l’intermediario professionale.

Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la banca non avesse assolto all’onere probatorio con riferimento all’ordine di acquisto dei titoli argentini, non risultando che l’intermediario avesse evidenziato all’investitore la natura speculativa delle obbligazioni ed i relativi rischi patrimoniali. In particolare, era stata rilevata la mancata compilazione, nell’ordine di investimento, della parte relativa alla segnalazione di inadeguatezza dell’operazione, nonché l’assenza di ulteriori elementi necessari ai fini della piena osservanza delle prescrizioni di cui agli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob n. 11522/1998.

Obblighi restitutori e compensazione: chi deve provare cosa

In tema di obblighi restitutori conseguenti alla dichiarazione di risoluzione del contratto, la Suprema Corte richiama il principio della compensazione impropria già enunciato in precedenti pronunce (Cass. n. 2661/2019 e Cass. n. 11239/2025). L’onere di provare l’an e il quantum del credito da portare in compensazione grava sul soggetto che ha formulato la relativa domanda.

Nel caso di specie, l’intermediario avrebbe dovuto dare prova dell’importo delle cedole riscosse dall’investitore, quale elemento costitutivo della propria domanda riconvenzionale volta alla compensazione. Operava invece a detrimento della banca le conseguenze del mancato raggiungimento della prova. Parimenti, l’intermediario non aveva indicato e provato né l’ammontare della somma effettivamente percepita dall’investitore a titolo di importo residuale offerto dalla Repubblica Argentina a seguito del default, concludendo conseguentemente che non vi era possibilità di procedere ad alcuna compensazione tra i reciproci obblighi restitutori.

Il punto cruciale: quando decorrono gli interessi

Il profilo più innovativo della pronuncia attiene alla decorrenza degli interessi sulle somme oggetto di restituzione. Su questo specifico aspetto, la Cassazione ha accolto l’ottavo motivo di ricorso proposto dall’intermediario, cassando la sentenza della Corte d’Appello e rinviando per nuovo esame.

La Corte territoriale aveva stabilito che sulle somme da restituire dovessero essere computati gli interessi dalla data del versamento effettuato per l’acquisto dei titoli (maggio 2001). La Suprema Corte ha ritenuto tale statuizione erronea, richiamando il principio già espresso con l’ordinanza n. 3912/2018: allorquando sia stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario, la prova della mala fede di quest’ultimo non può reputarsi in re ipsa per effetto della mera imputabilità all’intermediario medesimo dell’inadempimento che abbia determinato la risoluzione del contratto.

Conseguentemente, il credito dell’investitore avente ad oggetto il rimborso del capitale investito produce interessi, in base ai principi in tema di ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c., solo con decorrenza dalla proposizione della domanda giudiziale. Grava su chi richiede che gli interessi vengano fatti decorrere dalla data del versamento l’onere di provare che l’intermediario era in mala fede.

La Corte ha precisato che non può invocarsi in senso contrario altra recente pronuncia (Cass. n. 423/2025), che si è occupata del distinto tema della data di decorrenza dell’importo delle cedole riscosse, e non del profilo della restituzione dell’importo versato per l’investimento. Quest’ultima decisione ha chiarito che in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, la regola ex art. 2033 c.c. sulla spettanza di frutti e interessi non riguarda quelli previsti dal contratto, che costituiscono attribuzioni patrimoniali oggetto di restituzione in ragione della retroattività prevista dall’art. 1458 c.c., ma i frutti e gli interessi che maturano per legge in relazione al bene o alla somma di denaro oggetto di ripetizione.

Implicazioni pratiche per investitori e intermediari

La pronuncia della Cassazione offre importanti indicazioni operative sia per gli investitori che ritengono di aver subito un pregiudizio a causa di inadeguate informazioni da parte dell’intermediario, sia per gli stessi intermediari finanziari.

Per gli investitori, la decisione conferma che il solo fatto di presentare un profilo di rischio elevato o di aver effettuato in passato investimenti speculativi non può essere utilizzato dall’intermediario per giustificare una carente informativa. Resta fermo il diritto dell’investitore a ricevere tutte le informazioni necessarie per operare una scelta consapevole, incluse le caratteristiche specifiche del titolo, il suo rating e l’andamento delle valutazioni da parte delle Agenzie internazionali. L’onere di provare l’adempimento di tali obblighi informativi grava interamente sull’intermediario.

Per gli intermediari finanziari, la sentenza rappresenta un monito a documentare con precisione l’attività informativa svolta nei confronti della clientela, non potendo fare affidamento sulla sola qualificazione del cliente come investitore esperto o propenso al rischio. Al contempo, la pronuncia offre un elemento di tutela sul piano della quantificazione delle somme dovute: in caso di risoluzione del contratto per inadempimento agli obblighi informativi, gli interessi sulle somme da restituire decorrono dalla domanda giudiziale e non dalla data dell’investimento, salvo che la controparte dimostri la mala fede dell’intermediario.

Resta fermo che l’intermediario che intenda compensare le somme dovute con le cedole eventualmente incassate dall’investitore o con altre attribuzioni patrimoniali derivanti dall’investimento ha l’onere di provarne puntualmente l’ammontare.

La decisione si inserisce in un quadro normativo e giurisprudenziale che ha progressivamente rafforzato la tutela dell’investitore nel rapporto con l’intermediario professionale, imponendo a quest’ultimo rigorosi obblighi di trasparenza e diligenza. La recente evoluzione del Testo Unico della Finanza e della normativa CONSOB ha ulteriormente innalzato gli standard di condotta richiesti agli intermediari, con particolare riguardo alla valutazione di adeguatezza degli investimenti e agli obblighi di rendicontazione.

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