La “Causa Prossima di Rilievo” nella Responsabilità Civile: Quando la Negligenza Genitoriale Esclude la Responsabilità Pubblica

Una recente pronuncia della Corte Suprema di Cassazione offre un’importante riflessione sui confini tra responsabilità genitoriale e responsabilità della pubblica amministrazione, delineando con precisione chirurgica i criteri che presiedono alla valutazione del nesso di causalità negli illeciti aquiliani. La Fattispecie e il Problema Giuridico Il caso esaminato dalla Terza Sezione Civile della Cassazione con Ordinanza n. 15457/2025 trae origine da un tragico evento: l’annegamento di una minore in un tratto di spiaggia libera, dove il genitore aveva omesso di vigilare sulla figlia, trattenendosi a conversare con un conoscente in un punto dal quale non poteva avere controllo visivo sulla minore. La questione giuridica centrale verteva sulla configurabilità di una responsabilità concorrente dell’ente pubblico per l’omessa predisposizione del servizio di salvataggio e per la mancanza di cartellonistica informativa, in violazione di specifiche prescrizioni amministrative. Il Principio della Conditio Sine Qua Non e i suoi Temperamenti La Suprema Corte ha riaffermato che l’accertamento del nesso di causalità materiale nell’illecito aquiliano ex art. 2043 c.c. si fonda sul consolidato principio della “conditio sine qua non”, secondo cui un evento si considera causalmente ricollegabile a una determinata condotta quando, eliminando mentalmente quest’ultima, l’evento non si sarebbe verificato. Tuttavia, questo criterio subisce un fondamentale temperamento attraverso il principio della “regolarità causale” o dello “scopo della norma violata”, che consente di selezionare, tra le molteplici condizioni necessarie di un evento, quelle giuridicamente rilevanti ai fini della responsabilità civile. La Dottrina della Causa Sopravvenuta Interruttiva Particolare interesse riveste l’applicazione del principio secondo cui, in presenza di concause multiple, una causa sopravvenuta può essere da sola sufficiente a provocare l’evento quando risulti “autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto”. In questi casi, le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni, poiché la causa successiva interrompe il legame causale tra esse e l’evento dannoso. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che la condotta della vittima può configurarsi come causa sopravvenuta interruttiva quando sia “assolutamente eccezionale, imprevista ed imprevedibile” oppure quando consista in “una negligenza od imprudenza così gravi ed inescusabili da rendere irrilevanti le precedenti condotte colpose di terzi”. Questo approerchio si fonda sul presupposto che le condotte colpose preesistenti sarebbero rimaste inoffensive se la vittima avesse osservato un minimo di diligenza. L’Applicazione al Caso Concreto: La Negligenza Inescusabile del Genitore Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che la condotta del padre costituisse una “causa prossima rilevante” idonea a interrompere ogni nesso causale con le eventuali omissioni dell’ente pubblico. La gravità e inescusabilità della negligenza genitoriale sono state valutate considerando che il genitore si era trattenuto per circa mezz’ora a conversare, mentre le minori proseguivano autonomamente verso la spiaggia e si tuffavano in mare senza supervisione. La Corte ha sottolineato come questa condotta fosse “connotata da colpa grave ed inescusabile”, tale da assurgere a causa determinante ed esclusiva dell’evento. Questa valutazione ha trovato conferma nell’analisi controfattuale: anche se l’ente pubblico avesse adempiuto agli obblighi di predisposizione del servizio di salvataggio o di cartellonistica, l’evento non si sarebbe comunque evitato. L’Irrilevanza Eziologica delle Omissioni Pubbliche Un aspetto particolarmente significativo della pronuncia riguarda la valutazione dell’irrilevanza eziologica delle omissioni dell’amministrazione comunale. La Cassazione ha evidenziato come la mancata presenza di cartelli informativi risultasse causalmente irrilevante, considerando che il genitore, essendosi fermato prima dell’ingresso in spiaggia, non avrebbe potuto percepire l’eventuale presenza di tale segnaletica. Analogamente, l’eventuale presenza di un servizio di salvataggio non avrebbe potuto esonerare il genitore dall’adempimento dei suoi doveri primari di vigilanza e custodia delle minori. La Corte ha chiarito che tali doveri mantengono carattere ineliminabile e primario, non suscettibile di essere delegato o attenuato dalla presenza di servizi pubblici di sicurezza. Il Bilanciamento tra Doveri Genitoriali e Obblighi Pubblici La sentenza offre un’importante riflessione sul bilanciamento tra la sfera di responsabilità genitoriale e quella dell’amministrazione pubblica nella tutela dei minori. Emerge chiaramente che il dovere di vigilanza sui minori costituisce un obbligo primario e non derogabile del genitore, la cui grave inosservanza può escludere la configurabilità di responsabilità concorrenti di soggetti terzi. Questo orientamento si inserisce nel più ampio quadro della giurisprudenza consolidata che riconosce ai genitori un ruolo centrale e insostituibile nella protezione dei figli minori, con conseguente responsabilità diretta per le omissioni nell’esercizio della funzione di vigilanza e custodia. Riflessioni Conclusive La pronuncia in esame conferma l’importanza di un’analisi rigorosa del nesso di causalità negli illeciti aquiliani, evidenziando come la gravità della condotta di una delle parti possa assumere rilievo determinante nell’escludere la rilevanza causale di altri fattori contributivi. La decisione della Cassazione si inserisce coerentemente nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità genitoriale, ribadendo che la protezione dei minori costituisce un dovere primario e ineliminabile dei genitori, non suscettibile di essere attenuato dalla presenza di servizi pubblici di sicurezza o dalla configurabilità di omissioni da parte di soggetti terzi.
Il subentro della curatela fallimentare nell’azione revocatoria ordinaria: principi consolidati e nuove conferme

La recente pronuncia della Corte d’Appello di Napoli, Seconda Sezione Civile, sentenza del 30 aprile 2025 (RG nn. 3146/2021 e 3475/2021) offre l’occasione per un approfondimento sistematico sui rapporti tra azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. e procedure concorsuali, con particolare riguardo alla legittimazione della curatela fallimentare ai sensi dell’art. 66 L.F. La decisione in esame conferma orientamenti giurisprudenziali consolidati, dirimendo questioni di particolare rilevanza pratica che frequentemente si presentano nei rapporti tra procedimenti individuali e collettivi. La fattispecie e il quadro normativo di riferimento I fatti di causa La vicenda trae origine da un’azione revocatoria ordinaria promossa da due creditori nei confronti di un notaio per ottenere la dichiarazione di inefficacia di due distinti atti di donazione immobiliare, rispettivamente del 18 ottobre 2012 e del 31 ottobre 2012, con i quali il debitore aveva trasferito ai propri figli la proprietà di numerosi cespiti immobiliari. Nel corso del giudizio sopravveniva la dichiarazione di fallimento del debitore, con conseguente interruzione del processo ex art. 43, comma 3, L.F. La curatela fallimentare, assistita nell’occasione dall’Avv. Pasquale Tarricone dello studio TMC Avvocati Associati, riassumeva il giudizio manifestando la volontà di subentrare nell’azione revocatoria. Il quadro normativo L’art. 66, comma 1, L.F. attribuisce al curatore del fallimento la legittimazione all’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, stabilendo che “il curatore può esercitare l’azione revocatoria secondo le norme del codice civile”. Tale disposizione si coordina con l’art. 2901 c.c., che disciplina l’azione revocatoria ordinaria volta a rendere inopponibili al creditore gli atti dispositivi pregiudizievoli. Le questioni giuridiche controverse La legittimazione esclusiva della curatela fallimentare Il Tribunale di Benevento, con sentenza n. 1107/2021, aveva erroneamente ritenuto procedibile l’azione revocatoria promossa dai singoli creditori, fondando la propria decisione su un travisamento dei principi affermati dalla Suprema Corte con la pronuncia Cass. Sez. Un. n. 29420/2008. La Corte d’Appello di Napoli ha invece correttamente chiarito che, quando sopravviene il fallimento del debitore durante la pendenza di un’azione revocatoria ordinaria, “ricorre la legittimazione esclusiva della curatela appellante a proseguire nell’azione revocatoria originariamente promossa”, con conseguente improcedibilità della domanda proposta dagli originari attori. Tale principio trova il proprio fondamento nella considerazione che l’azione revocatoria ordinaria, pur non essendo propriamente un’azione esecutiva, “è naturalmente orientata a finalità esecutive” e, quando il debitore sia un imprenditore commerciale dichiarato fallito, “il pregiudizio che giustifica l’esercizio dell’azione revocatoria si riflette necessariamente sulla posizione dell’intera massa dei creditori”. Il subentro processuale ex art. 66 L.F. La Corte ha ribadito che il curatore, subentrando nell’azione revocatoria, “accetta la causa nello stato in cui si trova” ed esercita “un’azione che già esiste nella massa fallimentare; non quindi un’azione nuova, ma un’azione che si identifica con quella che lo stesso creditore ha esperito prima del fallimento”. Questo subentro comporta una modifica oggettiva limitata dei termini della causa, poiché “la domanda d’inopponibilità dell’atto di disposizione compiuto dal debitore, inizialmente proposta a vantaggio soltanto del singolo creditore che ha proposto l’azione, viene ad essere estesa a beneficio della più vasta platea costituita dalla massa di tutti i creditori concorrenti”. L’irrilevanza dell’ammissione al passivo Una delle questioni più significative affrontate dalla pronuncia riguarda la rilevanza dell’ammissione o meno al passivo fallimentare del credito degli originari attori in revocatoria. La Corte, in adesione al recente orientamento della Suprema Corte (Cass. Sez. I, ord. n. 6795/2023), ha chiarito che “la prosecuzione del giudizio in corso da parte della curatela, secondo la legittimazione concessa dall’art. 66 l.fall., comporta sul piano probatorio che il curatore costituitosi debba soltanto dimostrare il pregiudizio derivante dall’atto dispositivo, a prescindere dall’insinuazione al passivo fallimentare del credito inizialmente dedotto nel giudizio dall’attore originario”. Tale principio trova la propria ratio nella considerazione che il curatore “assume la stessa posizione dell’originario attore, in quanto l’azione revocatoria ordinaria, proposta ai sensi dell’art. 66 legge fall., non nasce col fallimento”. I profili processuali La tempestività della riassunzione La sentenza ha anche affrontato la questione della tempestività della riassunzione dopo l’interruzione per fallimento, chiarendo che “il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione è portata a conoscenza del curatore o delle parti processuali”, secondo quanto stabilito dalla recente giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. III, sent. n. 322/2024). I requisiti dell’azione revocatoria ordinaria Quanto ai presupposti sostanziali dell’azione, la Corte ha confermato che l’art. 2901 c.c. “accoglie una nozione molto ampia di credito, comprensiva della ragione od aspettativa”, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità. In particolare, “anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore abilitato all’esperimento dell’azione revocatoria ordinaria”, purché non si tratti di “un credito manifestamente pretestuoso”. Le implicazioni pratiche Per i curatori fallimentari La pronuncia conferma che i curatori fallimentari possono efficacemente subentrare nelle azioni revocatorie ordinarie pendenti, anche quando: Per i creditori I creditori che abbiano promosso azione revocatoria prima del fallimento del debitore devono essere consapevoli che il sopravvenuto fallimento determina: Per i terzi acquirenti I terzi che abbiano acquisito beni dal debitore successivamente dichiarato fallito devono considerare che l’eventuale subentro della curatela in azioni revocatorie pendenti non modifica i presupposti sostanziali dell’azione, ma estende gli effetti dell’eventuale pronuncia di inefficacia a favore di tutti i creditori concorrenti. Conclusioni La sentenza in commento si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, offrendo ulteriori chiarimenti su aspetti di particolare rilevanza pratica. La par condicio creditorum che governa le procedure concorsuali impone che, una volta dichiarato il fallimento, le azioni conservative del patrimonio del debitore siano esercitate nell’interesse della collettività dei creditori, secondo le regole del concorso. L’affermazione della legittimazione esclusiva della curatela a proseguire l’azione revocatoria, indipendentemente dall’ammissione al passivo del credito degli originari attori, rappresenta un approdo ermeneutico coerente con i principi generali della procedura fallimentare e con le finalità conservative proprie dell’istituto revocatorio. La pronuncia costituisce quindi un utile punto di riferimento per la prassi, confermando principi consolidati e dirimendo questioni controverse che spesso si presentano nel rapporto tra procedimenti individuali e collettivi.
Detrazioni per figli maggiorenni di genitori separati: la Cassazione chiarisce definitivamente i criteri di ripartizione

La recente pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Tributaria (ordinanza n. 15224/2025 del 7 giugno 2025) ha definitivamente risolto una questione interpretativa di particolare rilevanza pratica in materia di detrazioni fiscali per carichi di famiglia, concernente specificamente il regime applicabile ai figli che raggiungano la maggiore età in costanza di separazione legale dei genitori. La fattispecie concreta e l’evoluzione del contenzioso Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dalla vicenda di una contribuente, legalmente separata e affidataria esclusiva dei figli durante la loro minore età, che aveva indicato nella propria dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2012 la detrazione per figli a carico nella misura integrale del 100%. L’Amministrazione finanziaria aveva successivamente contestato tale comportamento dichiarativo attraverso l’emissione di una cartella esattoriale, sostenendo che al raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, in assenza di uno specifico accordo tra i genitori separati, la detrazione avrebbe dovuto necessariamente essere ripartita nella misura del 50% tra ciascun genitore. Il contenzioso aveva registrato esiti alterni nei gradi di merito. La Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone aveva inizialmente accolto le ragioni della contribuente, annullando l’atto impositivo. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, aveva successivamente riformato tale decisione, ritenendo fondata la tesi dell’Ente impositore e riaffermando la piena validità della cartella di pagamento. Il quadro normativo di riferimento La disciplina delle detrazioni per carichi di famiglia è regolata dall’art. 12 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. n. 917 del 1986), il quale, nella formulazione applicabile ratione temporis, stabilisce che “dall’imposta lorda si detraggono per carichi di famiglia i seguenti importi: c) 800 euro per ciascun figlio. In caso di separazione legale ed effettiva o di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, la detrazione spetta, in mancanza di accordo, al genitore affidatario”. La norma delinea pertanto un criterio generale di attribuzione della detrazione al genitore affidatario nelle ipotesi di separazione legale, senza tuttavia specificare espressamente le conseguenze derivanti dal raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, momento in cui cessa l’istituto dell’affidamento. L’orientamento della prassi amministrativa Un elemento di particolare significato nell’economia della decisione è rappresentato dalla circostanza che la stessa Amministrazione finanziaria aveva fornito, attraverso la normativa di prassi, un’interpretazione della disciplina sostanzialmente divergente rispetto alla tesi sostenuta nel contenzioso in esame. Con Circolare n. 15/E del 16 marzo 2007, l’Agenzia delle Entrate aveva infatti chiarito che “nelle ipotesi in cui la norma richiede la condizione dell’affidamento disgiunto o congiunto per l’assegnazione della detrazione, rispettivamente, nella misura intera ovvero nella misura del 50 per cento, si ritiene che i genitori possano continuare, salvo diverso accordo, a fruire per il figlio maggiorenne e non portatore di handicap, della detrazione ripartita nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio”. Tale orientamento era stato successivamente confermato con Circolare n. 34/E del 2008, consolidando così un indirizzo interpretativo che privilegiava la continuità del regime di ripartizione delle detrazioni anche oltre il raggiungimento della maggiore età. La soluzione adottata dalla Suprema Corte La Cassazione ha accolto il ricorso della contribuente, cassando la decisione impugnata e decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, del Codice di Procedura Civile. La motivazione della Suprema Corte si articola su una duplice argomentazione, di carattere sia sistematico che teleologico. In primo luogo, i giudici di legittimità hanno evidenziato come la tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria non trovasse “fondamento in alcuna norma di legge o principio, del diritto tributario così come di quello di famiglia”, risultando inoltre in contrasto con la stessa normativa di prassi emanata dall’Ente impositore. La Corte ha sottolineato l’incoerenza dell’atteggiamento processuale dell’Amministrazione, che sosteneva in giudizio una tesi diametralmente opposta rispetto a quella espressa negli atti di indirizzo generale. In secondo luogo, dal punto di vista sistematico, la Suprema Corte ha posto in evidenza come l’interpretazione accolta garantisca continuità e certezza nei rapporti giuridici, evitando che il semplice raggiungimento della maggiore età del figlio determini automaticamente una modificazione del regime delle detrazioni fiscali in assenza di una specifica manifestazione di volontà delle parti interessate. Il principio di diritto enunciato La decisione si conclude con l’enunciazione di un principio di diritto di portata generale, destinato a orientare la futura applicazione della disciplina in materia. Secondo la Cassazione, “la detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del D.Lgs. n. 546 del 1992 è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”. Tale principio chiarisce definitivamente che il raggiungimento della maggiore età non comporta automaticamente una modifica del regime di ripartizione delle detrazioni precedentemente applicato, garantendo così stabilità e prevedibilità nelle conseguenze fiscali derivanti dalla struttura familiare. Implicazioni pratiche e prospettive applicative La pronuncia in esame riveste particolare importanza sotto il profilo pratico, in quanto fornisce certezza interpretativa su una questione che aveva generato orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito e incertezze applicative nella prassi professionale. La soluzione adottata dalla Suprema Corte appare coerente con i principi generali di continuità e stabilità dei rapporti giuridici, evitando che il semplice decorso del tempo determini automaticamente modificazioni nei diritti acquisiti in assenza di una specifica volontà delle parti. Dal punto di vista operativo, la decisione comporta che i genitori separati o divorziati potranno continuare ad applicare il medesimo regime di ripartizione delle detrazioni per figli a carico anche successivamente al raggiungimento della maggiore età di questi ultimi, senza necessità di stipulare nuovi accordi o modificare le modalità precedentemente adottate. Naturalmente, rimane ferma la possibilità per le parti di convenire diversamente attraverso specifici accordi. La pronuncia assume inoltre rilievo sotto il profilo del rapporto tra interpretazione giurisprudenziale e prassi amministrativa, confermando il valore orientativo degli atti di indirizzo dell’Amministrazione finanziaria quando questi risultino coerenti con i principi generali dell’ordinamento e con la ratio delle disposizioni normative di riferimento.
Interest Rate Swap: La Corte d’Appello di Catanzaro Conferma la Nullità per Difetto di Causa – Sentenza Rivoluzionaria sui Derivati Bancari

Segnalazione a cura dell’Avv. Renato Scarlato e del dott. Alfredo Montefusco, che ringraziamo per aver portato all’attenzione questo importante precedente giurisprudenziale. La Corte d’Appello di Catanzaro, Prima Sezione Civile, con sentenza n. 437/2018 R.G. dell’8 aprile 2025, ha affrontato una controversia di particolare rilevanza in materia di contratti derivati, specificamente riguardante un interest rate swap stipulato tra un istituto bancario e una società cliente. La vicenda trae origine da un finanziamento chirografario del 2005 a tasso variabile, successivamente “coperto” nel 2006 da un contratto derivato IRS. La società, dopo aver subito perdite per oltre 257.000 euro a causa dei differenziali negativi, aveva convenuto in giudizio la banca chiedendo la declaratoria di nullità del contratto e la restituzione delle somme versate. Il Doppio Grado di Giudizio: Dalla Forma alla Sostanza La Decisione di Primo Grado Il Tribunale di Cosenza aveva accolto la domanda dichiarando la nullità del contratto ex art. 23 T.U.F. per mancanza di sottoscrizione da parte della banca del contratto quadro, condannando l’istituto alla restituzione di € 257.149,03. L’Appello e il Ribaltamento Motivazionale La banca appellante contestava la decisione richiamando il principio delle Sezioni Unite della Cassazione n. 898/2018, secondo cui il requisito della forma scritta del contratto-quadro relativo ai servizi di investimento è rispettato quando sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, essendo sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore. I Principi Giuridici Consolidati dalla Corte d’Appello Superamento del Vizio di Forma La Corte ha accolto il primo motivo di appello, confermando l’orientamento delle Sezioni Unite Cass. n. 898/2018 e successivi arresti di Cass. Sez. I, Ord. n. 9187/2021 e Cass. Sez. I, Ord. n. 17288/2023. Il principio consolidato stabilisce che il requisito della forma scritta del contratto-quadro va inteso non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità di protezione dell’investitore assunta dalla norma. La Rivoluzionaria Affermazione sulla Causa nei Contratti IRS Elemento di assoluta novità è rappresentato dalla declaratoria di nullità per difetto di causa. La Corte, richiamando la giurisprudenza più recente delle Cass. S.U. n. 8770/2020, Cass. n. 24654/2022 e Cass. n. 4076/2025, ha stabilito che non è sufficiente la mera funzione di copertura del rischio per giustificare la causa del contratto IRS. È necessario che sussistano condizioni specifiche per la validità dell’accordo sull’alea contrattuale. Il Mark to Market come Requisito Essenziale di Validità Il principio cardine affermato dalla Corte stabilisce che gli elementi ed i criteri utilizzati per la determinazione del mark to market devono essere resi preventivamente conoscibili da parte dell’investitore, ai fini della formazione dell’accordo in ordine alla misura dell’alea. In assenza di tale predeterminazione, la causa del contratto resta sostanzialmente indeterminabile, determinando una nullità strutturale ex art. 1418, comma 2, c.c. quando manca l’accordo sulla determinazione dell’alea, diversamente dalla nullità virtuale per violazione degli obblighi informativi. L’Accertamento Tecnico e le Criticità Emerse La Consulenza Tecnica d’Ufficio Il CTU nominato dalla Corte ha evidenziato una lacuna fondamentale, dichiarando espressamente che il contratto derivato del 7 dicembre 2006 non prevedeva l’indicazione di nessun Mark to Market e di conseguenza non indicava né la modalità di calcolo del Mark to Market né le formule necessarie per calcolarlo. Le Divergenze nei Metodi di Calcolo L’assenza di criteri contrattuali ha generato risultati completamente differenti a seconda della metodologia utilizzata. Il sistema Datastream (Thomson Reuters) ha prodotto un risultato di € 22.443,72 positivo per il cliente, mentre la piattaforma Bloomberg ha generato valutazioni completamente diverse: € 146.647,77 negativo per il cliente secondo i calcoli della società e € 24.591,00 negativo per il cliente secondo i calcoli della banca. Questa difformità di risultati dimostra l’impossibilità di determinare l’alea senza criteri predefiniti e la necessità di esplicitare preventivamente la formula matematica di riferimento. Le Implicazioni Pratiche per gli Operatori del Settore Conseguenze per le Banche La sentenza impone agli intermediari finanziari di rivedere completamente le proprie prassi contrattuali. In particolare, diventa indispensabile esplicitare preventivamente i criteri di calcolo del mark to market, indicare chiaramente le formule matematiche di riferimento e garantire la trasparenza sugli scenari probabilistici e sui costi impliciti. Senza questi elementi essenziali, il contratto risulta strutturalmente nullo per difetto di causa. Opportunità per la Clientela I soggetti che hanno sottoscritto contratti IRS privi di tali specifiche tecniche acquisiscono importanti strumenti di tutela. Possono infatti eccepire la nullità strutturale per difetto di causa, richiedere la restituzione delle somme versate a titolo di indebito oggettivo e invocare l’effetto retroattivo della declaratoria di nullità per ottenere il rimborso integrale dei differenziali negativi versati. La Valutazione Ex Ante dell’Alea Contrattuale La Corte ha inoltre ribadito un principio fondamentale già consolidato dalla giurisprudenza di legittimità: la meritevolezza di tutela del contratto va apprezzata ex ante e non già ex post, non potendosi far dipendere la liceità del contratto dal risultato economico concretamente conseguito dall’investitore. Questo significa che la validità del contratto deve essere valutata al momento della stipulazione, in base alla chiarezza e alla predeterminazione dei criteri di calcolo dell’alea, indipendentemente dalle successive performance economiche del derivato. Conclusioni: Un Precedente Destinato a Fare Scuola La pronuncia della Corte d’Appello di Catanzaro segna un punto di svolta nella giurisprudenza sui derivati finanziari. Superando la questione meramente formale della sottoscrizione del contratto quadro, la Corte ha posto l’accento sulla sostanza dell’accordo negoziale e sulla necessità di garantire una reale trasparenza nella determinazione dell’alea contrattuale. La nullità per difetto di causa quando manca la predeterminazione dei criteri di calcolo del mark to market rappresenta un principio destinato a riverberarsi su migliaia di contratti derivati stipulati nel corso degli anni. Questa innovativa interpretazione giurisprudenziale potrebbe infatti essere invocata in numerose controversie analoghe, aprendo la strada a una revisione generale dei rapporti contrattuali tra banche e clientela in materia di strumenti finanziari derivati. Gli operatori del settore dovranno necessariamente rivedere le proprie prassi contrattuali, assicurando la massima trasparenza nella definizione dei parametri di calcolo dell’alea. Solo attraverso una completa predeterminazione delle metodologie di calcolo sarà possibile garantire la validità e l’efficacia dei contratti derivati nel rispetto dei principi di protezione dell’investitore e trasparenza informativa che costituiscono il fondamento della normativa
La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa: Uno Strumento in Crescente Affermazione nel Panorama delle Procedure di Risanamento

Premessa normativa e inquadramento sistematico La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa (CNC), introdotta dal D.L. 118/2021 e successivamente incorporata nel Codice della Crisi e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019), rappresenta una delle innovazioni più significative nel panorama delle procedure concorsuali italiane. Questo strumento, recentemente perfezionato dal D.Lgs. 136/2024, si configura come una procedura volontaria e stragiudiziale che consente all’imprenditore commerciale o agricolo in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario di perseguire il risanamento dell’impresa attraverso la mediazione di un esperto negoziatore. La ratio legislativa sottesa alla CNC si inserisce nel più ampio processo di armonizzazione europea iniziato con la Direttiva (UE) 2019/1023 relativa ai quadri di ristrutturazione preventiva, che ha imposto agli Stati membri l’introduzione di meccanismi volti a favorire il salvataggio delle imprese in difficoltà prima che raggiungano lo stato di insolvenza. In questa prospettiva, la composizione negoziata si pone come strumento di prevenzione della crisi, operando in una fase precedente rispetto alle tradizionali procedure concorsuali. Architettura procedurale e caratteristiche distintive Dal punto di vista procedurale, la CNC presenta caratteristiche innovative che la distinguono nettamente dalle procedure concorsuali tradizionali. L’art. 12 del CCII stabilisce che la procedura si attiva su istanza volontaria dell’imprenditore attraverso la Piattaforma Nazionale di Composizione Negoziata, gestita da Unioncamere, configurandosi come un sistema interamente telematico che garantisce efficienza e tempestività nell’avvio del procedimento. Il fulcro della procedura risiede nella figura dell’esperto negoziatore, nominato dalla Camera di Commercio competente per territorio o, nel caso di imprese sopra soglia, dalla Commissione Regionale di cui all’art. 4, comma 3, del CCII. L’esperto, iscritto nell’apposito elenco nazionale e dotato di specifiche competenze tecniche, assume il ruolo di facilitatore delle trattative tra l’imprenditore e i creditori, mantenendo una posizione di terzietà e imparzialità che risulta fondamentale per il buon esito delle negoziazioni. Un aspetto particolarmente innovativo della CNC è rappresentato dalla possibilità di richiedere misure protettive e cautelari ai sensi dell’art. 6 del CCII. Tali misure, concesse dal tribunale competente con decreto motivato, consentono di sospendere temporaneamente le azioni esecutive e cautelari dei creditori, impedendo al contempo la revoca degli affidamenti bancari per il solo fatto dell’avvio della procedura. Questa protezione patrimoniale rappresenta un elemento cruciale per consentire all’impresa di operare in condizioni di stabilità durante le trattative. I vantaggi strategici della composizione negoziata La CNC presenta molteplici vantaggi strategici che ne spiegano il crescente successo presso il mondo imprenditoriale. In primo luogo, la natura stragiudiziale della procedura consente di evitare la pubblicità e lo stigma sociale tipici delle procedure concorsuali tradizionali, preservando la reputazione aziendale e i rapporti commerciali. L’imprenditore mantiene inoltre il pieno controllo della gestione aziendale, non sussistendo alcun fenomeno di spossessamento. Dal punto di vista temporale, la procedura presenta una durata contenuta di 180 giorni, prorogabile per ulteriori 180 giorni, che consente di raggiungere rapidamente una soluzione della crisi senza i lunghi tempi tipici delle procedure giudiziali. I costi ridotti rispetto alle procedure concorsuali tradizionali rappresentano un ulteriore elemento di attrattività, particolarmente rilevante per le piccole e medie imprese. La flessibilità costituisce forse il vantaggio più significativo della CNC. Lo strumento consente infatti di negoziare soluzioni personalizzate con i creditori, adattandosi alle specifiche esigenze dell’impresa e del mercato di riferimento. È inoltre possibile integrare la procedura con altri strumenti di composizione della crisi, configurando accordi complessi che combinano riscadenziamenti, stralci parziali e nuove forme di finanziamento. L’evidenza empirica del successo: analisi dei dati Unioncamere I dati emersi dall’Osservatorio semestrale di Unioncamere del giugno 2025 confermano in modo inequivocabile il crescente successo della composizione negoziata. Le 905 istanze presentate negli ultimi sei mesi (novembre 2024 – maggio 2025) rappresentano un incremento superiore al 120% rispetto al semestre precedente, portando il totale delle istanze presentate dal novembre 2021 a quasi 3.000 pratiche. Particolarmente significativo appare l’incremento del tasso di successo, che nel primo trimestre 2025 ha raggiunto il 22,5%, con 295 chiusure positive registrate a maggio 2025. Questo dato assume ancora maggiore rilevanza se confrontato con l’evoluzione temporale del fenomeno, evidenziando una progressiva maturazione dello strumento e un crescente livello di expertise degli operatori coinvolti. Il Report Annuale 2025 della Camera Arbitrale di Milano conferma questa tendenza positiva, evidenziando un incremento dell’87% delle istanze lombarde nel 2024 rispetto all’anno precedente. La Lombardia si conferma la regione con il maggior numero di pratiche, rappresentando il 24% del totale nazionale, dato che riflette sia la densità imprenditoriale del territorio sia il livello di maturità degli operatori economici locali nell’utilizzo di strumenti innovativi di gestione della crisi. Degno di nota è il dato relativo al risanamento effettivo: nel solo 2024 sono state risanate 38 imprese lombarde, con la salvaguardia di 2.164 posti di lavoro. Questo risultato evidenzia l’efficacia sociale ed economica dello strumento, che si traduce in benefici concreti per il tessuto produttivo e occupazionale. Fattori critici di successo e target di riferimento L’analisi dei dati rivela interessanti correlazioni tra le caratteristiche delle imprese e il tasso di successo della procedura. Le aziende che concludono positivamente la CNC risultano significativamente più strutturate rispetto a quelle con esito negativo, sia in termini di numero di dipendenti (53,4 contro 27,5 in media) sia di attivo patrimoniale (33 milioni contro 9 milioni in media). Questo dato suggerisce che la composizione negoziata funziona meglio per imprese dotate di adeguati assetti organizzativi ai sensi degli artt. 2086 e 2475 c.c., che dispongono di sistemi di controllo di gestione e di reporting finanziario adeguati. Le micro e piccole imprese potrebbero essere penalizzate da una minore cultura finanziaria, dalla presenza di advisor meno specializzati e dalla difficoltà di accesso a strumenti di finanza strutturata. Un elemento cruciale per il successo della procedura è rappresentato dalla tempestività dell’intervento. I dati evidenziano che il 30,5% delle imprese in sofferenza dal mese precedente alla presentazione dell’istanza ottiene un esito favorevole, mentre tale percentuale scende drasticamente all’11,5% per le imprese in difficoltà economica da cinque anni. Questo dato conferma la natura preventiva dello strumento e l’importanza di attivare la procedura ai primi segnali di squilibrio, quando le possibilità di risanamento sono ancora concrete e ragionevoli. Il superamento del concordato preventivo e le prospettive
La Scissione mediante Scorporo: Guida Completa al Nuovo Istituto del Diritto Societario

Una Rivoluzione Silenziosa nel Panorama delle Operazioni Straordinarie L’ordinamento giuridico italiano ha recentemente accolto un nuovo strumento di riorganizzazione societaria che sta rapidamente conquistando l’attenzione degli operatori del settore: la scissione mediante scorporo, disciplinata dall’articolo 2506.1 del Codice Civile. Questo istituto, introdotto dal D.Lgs. 2 marzo 2023, n. 19 in attuazione della Direttiva UE 2019/2121, rappresenta un’evoluzione significativa nel panorama delle operazioni straordinarie d’impresa. La rilevanza pratica dell’istituto è stata ulteriormente accresciuta dall’intervento del legislatore fiscale che, con il D.Lgs. 13 dicembre 2024, n. 192, ha finalmente delineato il regime tributario dell’operazione, introducendo nell’articolo 173 del TUIR i commi 15-ter, 15-quater e 15-quinquies, colmando così un vuoto normativo che aveva generato incertezze applicative. Definizione e Caratteri Essenziali dell’Istituto Il Quadro Normativo di Riferimento L’articolo 2506.1 del Codice Civile stabilisce che “con la scissione mediante scorporo una società assegna parte del suo patrimonio a una o più società di nuova costituzione e a sé stessa le relative azioni o quote a sé stessa, continuando la propria attività”. La norma, apparentemente semplice nella sua formulazione, nasconde una complessità interpretativa che emerge dalla sua applicazione pratica. Per comprendere appieno la portata innovativa dell’istituto, è necessario analizzarne gli elementi costitutivi essenziali. Gli Elementi Caratterizzanti L’operazione di scissione mediante scorporo si distingue per tre elementi fondamentali che la differenziano dalla scissione ordinaria: Primo elemento: L’assegnazione parziale del patrimonio. L’articolo 2506.1 c.c. specifica che deve trattarsi di “parte” del patrimonio della società scissa. Questa previsione esclude categoricamente la possibilità di scorporare l’intero patrimonio sociale, configurando l’operazione necessariamente come una forma di scissione parziale. Secondo elemento: L’attribuzione delle partecipazioni alla società scissa. Qui risiede il tratto distintivo dell’istituto: le azioni o quote delle società beneficiarie vengono assegnate non ai soci della società scissa, come avviene nella scissione ordinaria ex articolo 2506 c.c., bensì alla società scissa stessa. Questo meccanismo genera una struttura partecipativa verticale, dove la società scissa assume la veste di società controllante delle beneficiarie. Terzo elemento: La continuazione dell’attività. La previsione secondo cui la società scissa “continua la propria attività” ha generato dibattiti interpretativi. L’orientamento prevalente, sostenuto dalla migliore dottrina, ritiene che questa clausola indichi semplicemente che la società scissa non si estingue per effetto dell’operazione, diversamente da quanto accade nella scissione totale. Limitazioni Soggettive e Oggettive Il secondo comma dell’articolo 2506.1 c.c. stabilisce un’importante limitazione soggettiva: “la partecipazione alla scissione non è consentita alle società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo”. Tale previsione si giustifica con l’esigenza di preservare la par condicio creditorum e la corretta conclusione del procedimento liquidatorio. Dal punto di vista oggettivo, l’operazione può avere ad oggetto non soltanto rami d’azienda, ma anche singoli beni, conferendo all’istituto una flessibilità operativa superiore rispetto ad altri strumenti di riorganizzazione. La Scissione mediante Scorporo nel Sistema delle Operazioni Straordinarie Differenze con la Scissione Ordinaria Per comprendere la specificità della scissione mediante scorporo, è essenziale confrontarla con la scissione ordinaria disciplinata dall’articolo 2506 c.c. Nella scissione ordinaria, quando una società trasferisce parte del proprio patrimonio a una o più beneficiarie, le partecipazioni di queste ultime vengono distribuite direttamente ai soci della società scissa in proporzione alle loro quote di partecipazione. Ciò determina una riduzione del patrimonio netto della società scissa corrispondente al valore dei beni trasferiti. Nella scissione mediante scorporo, invece, le partecipazioni delle beneficiarie rimangono in capo alla società scissa. Di conseguenza, il patrimonio netto di quest’ultima non subisce decurtazioni immediate, poiché il valore dei beni trasferiti viene “sostituito” dal valore delle partecipazioni acquisite nelle società beneficiarie. Questa differenza strutturale comporta implicazioni significative sia dal punto di vista economico che giuridico, poiché i soci della società scissa mantengono inalterata la loro posizione partecipativa diretta, acquisendo indirettamente una partecipazione nelle beneficiarie attraverso la società controllante. Analogie e Differenze con il Conferimento La scissione mediante scorporo presenta evidenti analogie funzionali con l’operazione di conferimento, tanto da essere stata definita dalla dottrina come “un’alternativa al conferimento per la costituzione di società controllate”. Le analogie sono evidenti: in entrambe le operazioni, beni e rapporti giuridici vengono trasferiti da un soggetto (conferente/scissa) a una società (conferitaria/beneficiaria) in cambio di partecipazioni che vengono attribuite al soggetto trasferente. Le differenze sono tuttavia sostanziali e riguardano principalmente gli aspetti procedurali e la natura giuridica dell’operazione: Aspetti Procedimentali e Semplificazioni Il Progetto di Scissione Semplificato L’articolo 2506-bis, comma 4 c.c., come modificato dal D.Lgs. 19/2023, prevede significative semplificazioni procedimentali per la scissione mediante scorporo. Il progetto non deve contenere: Tali semplificazioni si giustificano con l’assenza di un rapporto di cambio nell’operazione, elemento che caratterizza invece le operazioni di fusione e scissione ordinaria. L’Esenzione dalla Relazione dell’Esperto Un aspetto di particolare rilevanza pratica è rappresentato dall’esenzione dalla relazione dell’esperto sulla congruità del rapporto di cambio. Tale esenzione, tuttavia, non è assoluta e trova applicazione solo quando l’operazione si configura effettivamente come scissione mediante scorporo “pura”, ovvero quando non sussiste alcun rapporto di cambio da valutare. La Disciplina Fiscale: Le Novità del D.Lgs. 192/2024 Il Principio di Neutralità Fiscale Il D.Lgs. 13 dicembre 2024, n. 192 ha finalmente delineato il regime fiscale della scissione mediante scorporo, introducendo nell’articolo 173 del TUIR i commi 15-ter, 15-quater e 15-quinquies. Il comma 15-ter stabilisce l’applicazione del principio di neutralità fiscale tipico delle operazioni di scissione, con l’esclusione dei commi 3, 7, 9 e 10 dell’articolo 173 TUIR. Tale esclusione si giustifica con le peculiarità strutturali dell’operazione: La Determinazione del Valore Fiscale delle Partecipazioni La lettera a) del comma 15-ter chiarisce che “la società scissa assume, quale valore delle partecipazioni ricevute, un importo pari alla differenza tra il valore fiscalmente riconosciuto delle attività e quello delle passività oggetto di scorporo alla data di efficacia della scissione”. Questa previsione risolve una delle principali incertezze interpretative che avevano caratterizzato i primi anni di applicazione dell’istituto, fornendo un criterio oggettivo per la determinazione del costo fiscale delle partecipazioni. La Disciplina delle Riserve Un aspetto particolarmente delicato riguarda il trattamento fiscale delle riserve. Il comma 15-ter, lettera f) stabilisce che “le riserve della società scissa non mutano il loro regime fiscale mentre al patrimonio netto delle società beneficiarie si applica
L’onere della prova nella qualificazione del rapporto di lavoro subordinato: principi consolidati e limiti degli accertamenti amministrativi

L’eterno dilemma della corretta qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro costituisce questione di primario interesse Una recente pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Sent. n. 1067/2025 del 22 maggio 2025) offre l’occasione per un approfondimento sui principi fondamentali che governano l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro. La decisione riveste particolare interesse per l’analisi della distribuzione dell’onere probatorio e per la chiarificazione del rapporto tra accertamenti ispettivi e valutazione giudiziale nei contenziosi giuslavoristici. La subordinazione quale elemento qualificante secondo l’art. 2094 c.c. Il concetto di subordinazione rappresenta il fulcro dell’intera disciplina giuslavoristica e richiede una comprensione approfondita dei suoi elementi costitutivi. Il giudice ha richiamato i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità secondo cui elemento distintivo del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Tale subordinazione deve intendersi quale vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore ad un potere datoriale che si manifesta attraverso direttive concernenti le modalità di svolgimento delle mansioni e che si traduce in una limitazione della libertà del lavoratore. La Suprema Corte ha precisato che questo vincolo di dipendenza emerge chiaramente quando la relazione di supremazia si concreta nell’emanazione di ordini specifici, nell’esercizio di una assidua e costante attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni, nello stabile e continuativo inserimento nell’organizzazione produttiva dell’impresa. Tuttavia, quando l’accertamento diretto dell’elemento essenziale della subordinazione risulta difficoltoso, la giurisprudenza consente il ricorso ad elementi dal carattere sussidiario e con funzione indiziaria, come chiarito da Cass. lav. 19.11.98, n. 11711. Questi elementi sintomatici comprendono l’eterodirezione delle modalità della prestazione sia sotto il profilo temporale che spaziale, l’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa, l’utilizzo di locali e mezzi forniti dal datore di lavoro, l’assenza di rischio imprenditoriale, l’obbligo di osservanza di un orario predeterminato con relativi obblighi di giustificazione, la continuità della collaborazione e la retribuzione predeterminata a cadenza fissa. Il procedimento logico di valutazione globale di tali elementi è stato espressamente legittimato dalle Sezioni Unite con la storica pronuncia Cass. n. 379/99, che ha chiarito come, pur non potendo ciascuno di questi elementi singolarmente considerato fondare l’accertamento della natura del rapporto, nella valutazione complessiva essi possano costituire concordanti, gravi e precisi indizi rivelatori della sussistenza effettiva della subordinazione. L’onere probatorio a carico del lavoratore secondo l’art. 2697 c.c. La comprensione della distribuzione dell’onere probatorio rappresenta un aspetto cruciale per la corretta gestione del contenzioso giuslavoristico. Il Tribunale ha ribadito con chiarezza che, secondo i principi generali sanciti dall’art. 2697 c.c., grava sul lavoratore che agisce per il riconoscimento del rapporto subordinato l’onere di fornire la prova della sussistenza di tale rapporto secondo le modalità dedotte nell’atto introduttivo. Questo significa che il lavoratore deve dimostrare in maniera specifica e circostanziata la propria soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca nell’emanazione di ordini specifici oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione lavorativa, così come disposto dall’art. 2094 c.c.. Nella fattispecie esaminata, il giudice ha evidenziato come l’istruttoria svolta non abbia consentito di confermare le prospettazioni della parte ricorrente. Le dichiarazioni testimoniali sono state ritenute insufficienti perché caratterizzate da genericità e risultanti del tutto equivoche o comunque compatibili anche con la prospettazione di parte resistente. Il primo teste, pur avendo dichiarato di aver visto il ricorrente lavorare per la società resistente, si è limitato a riferire circostanze generiche senza specificare alcunché in ordine alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Analogamente, la testimonianza della madre del ricorrente è stata valutata rigorosamente anche in ragione del rapporto di parentela intercorrente, rilevando come le circostanze riferite fossero generiche e prive di ogni riferimento specifico al rapporto di lavoro ed al potere direttivo, organizzativo e sanzionatorio del datore di lavoro. Il giudice ha inoltre sottolineato come tale teste non potesse validamente riferire in ordine al rapporto di lavoro, avendo dichiarato di essersi limitata ad accompagnare il ricorrente a lavoro tutte le mattine. Il principio dell’incertezza probatoria e i suoi effetti Un aspetto fondamentale emerso dalla pronuncia riguarda l’applicazione del principio dell’incertezza probatoria nel diritto del lavoro. Il giudice ha richiamato il consolidato orientamento della Cass., sez. lav., 28 settembre 2006, n. 21028 secondo cui qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non sia stato assolto e non già propendere per la natura subordinata del rapporto. Tale principio assume particolare rilevanza pratica poiché esclude ogni automatismo presuntivo in favore del lavoratore, confermando l’approccio rigoroso della giurisprudenza nell’accertamento della subordinazione. La decisione ribadisce come sia necessaria una dimostrazione positiva e specifica degli elementi costitutivi del vincolo di dipendenza, non potendo il giudice supplire con presunzioni alla carenza probatoria dell’attore. L’autonomia del giudice civile rispetto agli accertamenti ispettivi Uno degli aspetti più significativi della pronuncia concerne la delimitazione del rapporto tra accertamenti amministrativi e valutazione giudiziale. Il Tribunale ha chiarito con precisione che le risultanze del verbale ispettivo non privano il giudice del potere-dovere di accertamento e valutazione dei fatti posti a fondamento della domanda, né depotenzia l’esercizio della cognizione devoluta. Ne consegue che il giudice non può ritenersi vincolato dalla qualificazione del rapporto operata dagli Ispettori del Lavoro, atteso che le valutazioni effettuate dagli ispettori e la conseguente qualificazione giuridica del rapporto non sono assistiti da fede privilegiata. Questo principio assume particolare rilevanza strategica nella gestione del contenzioso giuslavoristico, evidenziando come gli accertamenti amministrativi, pur costituendo elementi di valutazione, mantengano carattere meramente indiziario e non abbiano efficacia preclusiva rispetto alla valutazione giudiziale della natura del rapporto. La precisazione operata dal giudice è di fondamentale importanza poiché chiarisce definitivamente che l’amministrazione del lavoro e l’autorità giudiziaria operano su piani distinti e con finalità diverse. Mentre la prima persegue obiettivi di vigilanza e controllo amministrativo, la seconda è chiamata ad un accertamento giuridico definitivo che richiede l’applicazione rigorosa dei principi sostanziali e processuali. La discontinuità della prestazione e l’inserimento organizzativo Il giudice ha affrontato anche la delicata questione della discontinuità della prestazione lavorativa, richiamando
Interest Rate Swap e Alea Contrattuale: Il Tribunale di Napoli Rafforza i Principi sulla Nullità Strutturale

Segnalazione a cura dell’Avv. Renato Scarlato e del dott. Alfredo Montefusco, che ringraziamo per aver portato all’attenzione questo significativo contributo giurisprudenziale. Il Quadro Normativo e l’Evoluzione Giurisprudenziale Il Tribunale di Napoli, con pronuncia del 29 aprile 2025, ha fornito un importante contributo al consolidamento dei principi giurisprudenziali in materia di contratti derivati, specificamente per quanto concerne gli Interest Rate Swap. La decisione si inserisce nel solco tracciato dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 8770 del 12 maggio 2020 e dalla successiva giurisprudenza di legittimità, tra cui spiccano Cass. Civ. Sez. I, n. 32705/2022 e Cass. Civ. Sez. I, n. 24654/2022. Per comprendere appieno la portata innovativa di questa pronuncia, è necessario partire da un concetto fondamentale: l’alea contrattuale negli strumenti finanziari derivati non può essere lasciata all’incertezza o alla discrezionalità dell’intermediario, ma deve essere chiaramente predeterminata e condivisa tra le parti contraenti. Il Principio dell’Alea Sussistente Ab Origine La Natura Aleatoria dei Contratti Derivati Il Tribunale napoletano ha chiarito che la validità di un contratto di Interest Rate Swap presuppone necessariamente che l’alea sussista ab origine e sia calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi. Questo principio rappresenta il cuore della questione, poiché distingue nettamente tra una legittima operazione di copertura finanziaria e una mera scommessa mascherata da strumento di investimento. La Corte ha evidenziato come, per essere meritevole di tutela giuridica, l’alea del contratto derivato debba essere riconoscibile fin dal momento della stipulazione. In altre parole, il rischio che entrambe le parti si assumono deve essere quantificabile e comprensibile secondo parametri oggettivi, non lasciato alla casualità o alle valutazioni unilaterali dell’intermediario finanziario. L’Importanza degli Strumenti di Indagine e Previsione Il giudice ha posto particolare enfasi sulla necessità che l’intermediario fornisca al cliente tutti gli elementi essenziali per comprendere la natura dell’operazione. Questi elementi comprendono non soltanto il valore iniziale del derivato, ma anche i criteri di calcolo, gli scenari probabilistici e i parametri di riferimento che influenzeranno l’evoluzione del contratto nel tempo. La Nullità per Indeterminabilità dell’Oggetto Il Vizio Strutturale del Contratto La pronuncia del Tribunale di Napoli ha individuato nella mancata indicazione della formula matematica per il calcolo del mark to market un vizio che comporta la nullità strutturale del contratto per indeterminabilità dell’oggetto. Questo aspetto tecnico riveste una importanza cruciale che merita di essere spiegata in termini comprensibili anche ai non addetti ai lavori. Il mark to market rappresenta il valore corrente del contratto derivato in un determinato momento, calcolato sulla base delle condizioni di mercato vigenti. Quando il contratto non specifica chiaramente come questo valore debba essere determinato, si crea una situazione di incertezza che rende impossibile per il cliente comprendere realmente a cosa si sta obbligando. La Differenza tra Nullità Virtuale e Nullità Strutturale Il Tribunale ha operato una distinzione fondamentale tra due tipologie di nullità che possono colpire i contratti derivati. La nullità virtuale, già oggetto di precedenti pronunce delle Sezioni Unite, si verifica quando l’intermediario viola i propri obblighi informativi, ma il contratto rimane strutturalmente valido. La nullità strutturale, invece, colpisce l’essenza stessa del contratto quando mancano elementi essenziali come la determinabilità dell’oggetto. Questa distinzione non è meramente accademica, ma comporta conseguenze pratiche significative. Mentre la nullità virtuale può essere sanata attraverso il comportamento delle parti o il decorso del tempo, la nullità strutturale è insanabile e comporta l’inefficacia ab origine del contratto. L’Accordo Preventivo sulla Misura dell’Alea La Necessità di Criteri Oggettivi Uno degli aspetti più innovativi della pronuncia riguarda l’affermazione secondo cui deve sussistere un accordo preventivo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea. Questo accordo non può limitarsi a generiche dichiarazioni di accettazione del rischio, ma deve fondarsi su criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi. Il giudice ha chiarito che l’accordo delle parti non può riguardare soltanto il mark to market inteso come costo di chiusura anticipata del contratto, ma deve investire anche gli scenari probabilistici e concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e dei costi, inclusi quelli impliciti. In sostanza, il cliente deve essere messo nelle condizioni di comprendere non soltanto quanto potrebbe perdere, ma anche le probabilità che ciò accada e i fattori che potrebbero influenzare l’evoluzione del contratto. I Parametri di Calcolo delle Obbligazioni Pecuniarie La sentenza ha posto l’accento sulla necessità che siano chiaramente definiti i parametri di calcolo delle obbligazioni pecuniarie nascenti dal contratto, determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse nel tempo. Questa precisazione tecnica assume particolare rilevanza pratica, poiché molti contratti di Interest Rate Swap stipulati in passato presentavano formule generiche o rinvii a parametri non meglio specificati. Le Conseguenze Pratiche della Pronuncia Per gli Intermediari Finanziari La decisione del Tribunale di Napoli impone agli operatori del settore una revisione sostanziale delle proprie prassi contrattuali. Non è più sufficiente inserire clausole generiche di accettazione del rischio o formule matematiche complesse incomprensibili al cliente medio. È necessario invece predisporre una documentazione che illustri chiaramente i criteri di calcolo, gli scenari probabilistici e tutti gli elementi che concorrono alla determinazione dell’alea contrattuale. Per la Clientela Dal punto di vista della tutela del cliente, la pronuncia apre prospettive significative per tutti coloro che abbiano sottoscritto contratti derivati caratterizzati da vizi nella determinazione dell’alea. La possibilità di eccepire la nullità strutturale per indeterminabilità dell’oggetto rappresenta uno strumento di difesa particolarmente efficace, poiché non soggetto ai termini di prescrizione che potrebbero invece precludere altre forme di tutela. L’Approccio Pedagogico della Giurisprudenza La Funzione Educativa delle Pronunce Giudiziarie Ciò che rende particolarmente apprezzabile la pronuncia del Tribunale di Napoli è l’approccio pedagogico con cui affronta la materia. Il giudice non si limita a enunciare principi astratti, ma fornisce indicazioni concrete su come debba essere strutturato un contratto derivato per essere considerato valido. Questa metodologia contribuisce a creare maggiore chiarezza in un settore tradizionalmente caratterizzato da complessità tecniche spesso utilizzate per oscurare piuttosto che per illuminare. La Costruzione di un Sistema di Tutele Efficaci La sentenza si inserisce in un più ampio processo di costruzione di un sistema di tutele efficaci per gli investitori. Partendo dal principio che l’informazione deve essere non soltanto fornita, ma
Le Contraddizioni della Procreazione Medicalmente Assistita: Tra Rigore Normativo e Crisi Demografica

Un’analisi critica delle recenti pronunce della Corte Costituzionale e delle incoerenze sistemiche della legislazione italiana Il Paradosso del Rigore Selettivo Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 68 e 69 del 22 maggio 2025 hanno messo in luce una delle contraddizioni più evidenti del sistema giuridico italiano in materia di procreazione medicalmente assistita: da un lato, si riconosce il diritto alla genitorialità già acquisito all’estero dalle coppie omosessuali femminili (sentenza n. 68), dall’altro, si nega categoricamente l’accesso diretto alle tecniche di PMA alle donne single sul territorio nazionale (sentenza n. 69). Questa apparente incoerenza rivela un approccio normativo che privilegia la gestione delle conseguenze rispetto alla prevenzione delle cause, creando un sistema di “rigore a geometria variabile” che finisce per discriminare le donne in base alla loro capacità economica e alle loro possibilità di movimento transfrontaliero. La Restrizione delle Libertà Individuali: Un Controllo Anacronistico L’art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 continua a subordinare l’accesso alla PMA alla sussistenza di requisiti soggettivi che riflettono un modello familiare tradizionale, richiedendo che i richiedenti siano “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. Tale impostazione, benché confermata dalla giurisprudenza costituzionale, risulta sempre più anacronistica rispetto all’evoluzione sociale e ai principi di autodeterminazione individuale. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 69/2025, ha giustificato questa limitazione richiamando il “margine di apprezzamento” dello Stato e la non irragionevolezza della scelta legislativa. Tuttavia, tale argomentazione appare fragile quando confrontata con la realtà fattuale: le donne escluse dall’accesso alle tecniche in Italia non rinunciano al loro progetto genitoriale, ma semplicemente si rivolgono altrove, aggirando de facto i divieti legislativi. Il Turismo Procreativo: Aggiramento Sistematico dei Divieti La rigidità del sistema italiano ha alimentato un fiorente “turismo procreativo” che coinvolge migliaia di donne ogni anno. Secondo i dati disponibili, le destinazioni privilegiate includono Spagna, Belgio, Repubblica Ceca e Danimarca per le tecniche di fecondazione eterologa, mentre per la maternità surrogata molte coppie si rivolgono a Ucraina, Georgia e, più recentemente, Argentina. Questo fenomeno evidenzia l’inefficacia deterrente della normativa italiana e crea una discriminazione sostanziale basata sulle disponibilità economiche: chi può permettersi di viaggiare all’estero aggira i divieti, chi non può rimane escluso dai propri diritti riproduttivi. Il risultato è un sistema che non protegge alcun valore etico superiore, ma semplicemente penalizza le fasce economicamente più deboli della popolazione. La Criminalizzazione Retroattiva: Il Caso della Maternità Surrogata L’approvazione del d.d.l. 824/2024, che estende la perseguibilità del reato di maternità surrogata anche quando commesso all’estero da cittadini italiani, rappresenta un ulteriore inasprimento di una politica già contraddittoria. La modifica dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 introduce una forma di “criminalizzazione extraterritoriale” che pone seri interrogativi sulla coerenza del sistema punitivo. Come rilevato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 38162/2022), il divieto di maternità surrogata costituisce principio di ordine pubblico. Tuttavia, l’estensione della punibilità alle condotte commesse all’estero crea una situazione paradossale: lo Stato italiano pretende di imporre i propri valori etici anche al di fuori dei propri confini, trasformando scelte procreative legali in altri ordinamenti in reati per i propri cittadini. Il Paradosso Demografico: Restrizioni in Tempi di Denatalità La contraddizione più stridente emerge quando si confrontano le politiche restrittive in materia di PMA con l’allarme demografico che attraversa l’Italia e l’intero mondo occidentale. Con un tasso di natalità di 1,24 figli per donna (dati ISTAT 2023), l’Italia si trova in una grave crisi demografica che richiede interventi urgenti per incentivare la natalità. In questo contesto, appare incomprensibile una legislazione che limita artificialmente l’accesso alle tecniche procreative, escludendo categorie di persone che potrebbero contribuire significativamente al rilancio demografico del Paese. Le donne single, le coppie omosessuali femminili e tutti coloro che necessitano di tecniche di PMA avanzate rappresentano una risorsa demografica che il legislatore italiano continua a ignorare. Paesi come Francia, Spagna e Regno Unito hanno già adottato approcci più liberali, consentendo l’accesso alla PMA a una platea più ampia di richiedenti. Non è un caso che questi Stati registrino tassi di natalità superiori a quello italiano e una maggiore capacità di attrarre “turismo procreativo inverso”. L’Incoerenza delle Politiche Pubbliche Il sistema attuale presenta una serie di incoerenze che minano la credibilità dell’intero impianto normativo: Sul piano dei principi costituzionali, si assiste a un bilanciamento squilibrato tra il diritto alla autodeterminazione riproduttiva (art. 2 Cost.) e valori etici di dubbia cogenza costituzionale. La Corte Costituzionale ha riconosciuto l’interesse superiore del minore come principio cardine (sentenza n. 68/2025), ma non ha tratto le conseguenze logiche di tale affermazione in termini di allargamento dell’accesso alle tecniche. Sul piano dell’efficacia normativa, i divieti si rivelano sistematicamente aggirati attraverso il ricorso a ordinamenti più permissivi, vanificando gli obiettivi di tutela etica che il legislatore si proponeva di raggiungere. Sul piano delle politiche demografiche, la restrizione dell’accesso alla PMA contrasta frontalmente con l’esigenza di contrastare il declino demografico, creando un cortocircuito tra obiettivi dichiarati e strumenti normativi adottati. Le Prospettive di Riforma: Verso un Approccio Più Equilibrato L’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni suggerisce l’opportunità di una revisione organica della normativa in materia di PMA. La progressiva demolizione dell’impianto originario della legge 40/2004 da parte della Corte Costituzionale ha creato un sistema frammentario che richiede un intervento legislativo sistematico. Una riforma coerente dovrebbe considerare i seguenti aspetti: L’ampliamento dei requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche, includendo le donne single e le coppie omosessuali, in linea con gli standard europei e con l’evoluzione sociale del concetto di famiglia. La revisione del regime sanzionatorio per la maternità surrogata, distinguendo tra forme commerciali e altruistiche, e eliminando la perseguibilità extraterritoriale che crea discriminazioni irragionevoli. L’introduzione di meccanismi di sostegno economico per l’accesso alle tecniche di PMA, al fine di ridurre le discriminazioni basate sulle disponibilità economiche e contrastare il turismo procreativo. Il coordinamento con le politiche demografiche, riconoscendo nella PMA uno strumento complementare per il sostegno alla natalità e alla crescita demografica. Conclusioni: Verso una Legislazione Coerente Le contraddizioni evidenziate dalle recenti pronunce della Corte Costituzionale non sono episodiche, ma riflettono un approccio sistemico incoerente che sacrifica
IVA e “Società di Comodo”: La Cassazione Riafferma la Supremazia del Diritto UE e Limita l’Applicazione della Normativa Nazionale

Una recente ordinanza della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Tributaria (Ordinanza n. 13598/2025, R.G.N. 27300/2020), segna un punto importante nel dibattito sull’applicazione della disciplina delle cosiddette “società di comodo” (o non operative) ai fini IVA. La Corte, richiamando principi consolidati del diritto unionale e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), ha di fatto sancito l’inapplicabilità di alcune presunzioni previste dalla legge nazionale quando queste precludono indebitamente il diritto alla detrazione e al rimborso dell’IVA. La Vicenda al vaglio della Suprema Corte La fattispecie esaminata trae origine dall’impugnazione di un atto di recupero notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società per diversi periodi d’imposta (dal 2008 al 2012). Con tale atto, l’Amministrazione finanziaria aveva disconosciuto il credito IVA della società in applicazione della disciplina delle “società di comodo”, contenuta nell’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994. Il disconoscimento era scaturito dal mancato superamento del cosiddetto “test di operatività” da parte della società a seguito dell’invio di questionari. Dopo un primo grado favorevole alla società contribuente, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto appello. La Commissione tributaria regionale, pur dichiarando nulla la sentenza di primo grado per vizi formali, aveva comunque accolto nel merito il ricorso della società, annullando integralmente gli atti di recupero del credito IVA. L’Agenzia delle Entrate ha quindi presentato ricorso in Cassazione, articolando le proprie doglianze su tre motivi principali, incentrati su specifiche questioni relative alla corretta determinazione del valore degli immobili posseduti dalla società ai fini del “test di operatività” e alla rilevanza di tali beni (alcuni inagibili, altri nella disponibilità dei soci) nel calcolo della presunzione di non operatività. In sintesi, l’Agenzia contestava l’applicazione del test e le conclusioni del giudice di merito riguardo agli immobili. Le Questioni Giuridiche Fondamentali Al di là delle specifiche contestazioni mosse dall’Agenzia delle Entrate sulla valutazione dei singoli beni, la questione giuridica centrale che la Corte di Cassazione si è trovata ad affrontare riguardava l’applicazione della normativa nazionale sulle “società di comodo” in relazione al diritto alla detrazione IVA, alla luce del diritto dell’Unione Europea. La disciplina delle “società di comodo” prevede, semplificando, una presunzione di non operatività (superabile con prova contraria) basata sul mancato raggiungimento di una soglia minima di ricavi, calcolata in proporzione al valore di alcuni beni patrimoniali posseduti dalla società. Il mancato superamento di questo “test di operatività” comporta conseguenze fiscali, tra cui, appunto, il disconoscimento del credito IVA. La Soluzione della Corte di Cassazione: La Prevalenza del Diritto UE La Corte di Cassazione ha deciso di rigettare tutti e tre i motivi di ricorso presentati dall’Agenzia delle Entrate, ritenendoli infondati. La motivazione di questo rigetto si fonda su un principio di carattere superiore, derivante dalla giurisprudenza della CGUE e dalle recenti pronunce della stessa Cassazione in materia. La Corte ha richiamato esplicitamente la sentenza della CGUE n. 341 del 7 marzo 2024 (Causa C-341/22) e precedenti ordinanze e sentenze della Cassazione (come la n. 24442 del 11/09/2024 e la n. 22249 del 06/08/2024). Queste pronunce hanno chiarito che, in materia di IVA, la qualità di “soggetto passivo” (colui che esercita un’attività economica in modo indipendente, indipendentemente dallo scopo o dai risultati) è riconosciuta anche a chi, in un dato periodo d’imposta, effettua operazioni il cui valore economico non raggiunge la soglia minima di ricavi attesi dalla normativa nazionale. La Direttiva IVA (Dir. 2006/112/CE), in particolare l’articolo 9, paragrafo 1, definisce l’attività economica in modo ampio, includendo lo sfruttamento di beni per ricavarne introiti stabili. Crucialmente, nessuna disposizione della Direttiva subordina il diritto alla detrazione IVA (sancito dall’articolo 167 della Direttiva) al raggiungimento di una determinata soglia di ricavi. Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994, nella parte in cui subordina la perdita del diritto alla detrazione IVA al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi, si pone in contrasto con l’articolo 167 della Direttiva IVA. Analogamente, nell’escludere il diritto alla detrazione per le società i cui introiti sono inferiori a una certa soglia, presumendone il carattere non operativo, la norma nazionale contrasta con gli articoli 9, paragrafo 1, e 167 della Direttiva. Secondo i principi espressi dalla CGUE, le misure nazionali volte a contrastare frodi, evasione o abusi non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo e non devono compromettere il principio di neutralità dell’IVA. Una presunzione generale di evasione e abuso, come quella basata solo sul mancato superamento di una soglia di ricavi, non può giustificare un provvedimento fiscale che pregiudichi gli obiettivi della Direttiva. La CGUE ha specificato che tale presunzione, anche se superabile, non può negare il diritto alla detrazione o al rimborso per motivi estranei alla dimostrazione di una frode o di un abuso specifico. Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha affermato che l’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994, nella parte in contrasto con il diritto unionale, deve essere “disapplicato” dal giudice nazionale. Disapplicare una norma significa non farla valere nel caso concreto perché in conflitto con una norma di diritto UE direttamente applicabile e prevalente. Pur riconoscendo che la motivazione della sentenza d’appello andava “corretta” poiché basata sull’applicazione di una normativa interna in contrasto con il diritto UE, la Corte ha confermato che il dispositivo (cioè, la decisione finale di annullare gli atti di recupero) era corretto. Infatti, il giudice d’appello non aveva messo in dubbio lo svolgimento di un’attività economica da parte della società nel senso della disciplina IVA, elemento che, secondo il diritto UE, è sufficiente a riconoscere la qualità di soggetto passivo e il diritto alla detrazione, a prescindere dal volume dei ricavi. Le stesse argomentazioni dell’Agenzia nel ricorso, incentrate sul calcolo della soglia di ricavi, confermavano implicitamente che la contestazione si basava proprio sul criterio che la CGUE ha ritenuto inadeguato per negare il diritto IVA senza provare frode o abuso. Conclusioni Questa ordinanza della Corte di Cassazione rappresenta una significativa riaffermazione della prevalenza del diritto dell’Unione Europea sulla normativa interna in materia di IVA. Stabilisce che la disciplina delle “società di comodo”, e in particolare la presunzione