Lavori stradali e incidenti: chi risponde quando la strada resta aperta al traffico?

La Cassazione chiarisce la responsabilità tra ente proprietario e appaltatore e l’importanza delle clausole di manleva nel contratto d’appalto Quando si verificano incidenti stradali in tratti interessati da lavori in corso, chi è tenuto a rispondere dei danni? La questione diventa particolarmente delicata quando la strada, pur essendo oggetto di interventi, rimane aperta alla circolazione. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (ordinanza n. 33683/2025, Sezione III Civile, pubblicata il 22 dicembre 2025) offre importanti chiarimenti su questo tema, affrontando sia i rapporti tra danneggiati e responsabili, sia i rapporti interni tra committente e appaltatore. Il caso alla base della sentenza La vicenda trae origine da un tragico incidente stradale verificatosi sull’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, in un tratto interessato da lavori di ammodernamento e adeguamento. I familiari della vittima hanno agito in giudizio contro l’ente proprietario della strada per ottenere il risarcimento dei danni. L’ente, nel costituirsi in giudizio, ha chiamato in causa il consorzio di imprese appaltatrici dei lavori, formulando due distinte richieste: in via principale, ha chiesto di riconoscere la responsabilità esclusiva o almeno concorrente dell’appaltatore nei confronti dei danneggiati; in via subordinata, ha chiesto di essere manlevato dall’appaltatore in base alle clausole del contratto d’appalto, qualora fosse stato condannato al risarcimento. Il Tribunale di Salerno aveva condannato l’ente proprietario a risarcire i danni nella misura del 50%, riconoscendo un pari concorso di colpa della vittima, senza però pronunciarsi sulla posizione del consorzio appaltatore. La Corte d’Appello di Salerno, investita del gravame, ha invece condannato sia l’ente proprietario che il consorzio appaltatore in via solidale al risarcimento del danno, riconoscendo la loro corresponsabilità. La Corte d’Appello, tuttavia, non si è pronunciata sulla seconda domanda dell’ente proprietario, quella relativa alla manleva contrattuale. Il principio di diritto: responsabilità solidale verso i terzi La Suprema Corte ha ricordato un principio ormai consolidato in materia di responsabilità da custodia ai sensi dell’articolo 2051 del codice civile. Questa norma stabilisce che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Nel caso di cantieri stradali, il principio si articola in due distinte situazioni. Quando l’area di cantiere risulta completamente enucleata, delimitata e affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con conseguente assoluto divieto di traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di quest’area risponde esclusivamente l’appaltatore, che ne è l’unico custode. Questa situazione si verifica tipicamente quando il cantiere è chiuso e isolato dalla circolazione ordinaria. Quando invece l’area su cui vengono eseguiti i lavori rimane ancora adibita al traffico e quindi utilizzata a fini di circolazione, questa situazione denota la conservazione della custodia da parte dell’ente titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore. Ne consegue che la responsabilità, ai sensi dell’articolo 2051 del codice civile, sussiste sia a carico dell’appaltatore che dell’ente proprietario, che rispondono in solido nei confronti dei terzi danneggiati. Il fondamento di questa soluzione risiede nell’articolo 21, comma 2, del Codice della Strada, che impone a chiunque esegua lavori o depositi materiali sulle aree destinate alla circolazione di adottare gli accorgimenti necessari per la sicurezza e la fluidità della circolazione, mantenendoli in perfetta efficienza sia di giorno che di notte. L’obbligo di vigilanza sulla strada pubblica, quando questa resta aperta al traffico, grava dunque su entrambi i soggetti, che ne rispondono a pari titolo verso i terzi. La questione della manleva nei rapporti interni Ed è proprio su questo punto che la sentenza della Cassazione interviene con un importante chiarimento. Se è vero che, nei confronti dei terzi danneggiati, l’ente proprietario e l’appaltatore rispondono in solido senza che rilevi la ripartizione interna delle responsabilità, è altrettanto vero che nei rapporti interni tra committente e appaltatore il contratto di appalto può avere un rilievo decisivo. In particolare, il contratto di appalto può prevedere clausole di manleva, con le quali l’appaltatore si impegna a tenere indenne il committente da tutte le conseguenze pregiudizievoli derivanti da danni causati a terzi durante l’esecuzione dei lavori. Tali clausole sono lecite e pienamente valide nei rapporti tra le parti contraenti, anche se non possono pregiudicare i diritti dei terzi danneggiati, che conservano sempre la facoltà di agire contro entrambi i responsabili in via solidale. La Corte di Cassazione ha censurato la sentenza della Corte d’Appello proprio per aver omesso di pronunciarsi sulla domanda di manleva formulata dall’ente proprietario. I giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte territoriale, dopo aver correttamente affermato la responsabilità solidale di entrambi i soggetti nei confronti dei danneggiati, avrebbe dovuto valutare se, in base al contratto di appalto, l’appaltatore fosse tenuto o meno a manlevare il committente. Si trattava di una domanda autonoma e distinta rispetto a quella di corresponsabilità verso i terzi, che richiedeva una specifica valutazione e una pronuncia espressa. Le implicazioni pratiche della decisione Questa pronuncia offre indicazioni preziose per tutti i soggetti coinvolti in appalti di lavori pubblici o privati su infrastrutture stradali. Per gli enti proprietari delle strade, la sentenza conferma che, quando la strada resta aperta al traffico durante i lavori, non è possibile sottrarsi alla responsabilità verso i terzi danneggiati invocando l’affidamento dei lavori all’appaltatore. La custodia della strada rimane infatti condivisa. Tuttavia, gli enti possono tutelarsi nei rapporti interni inserendo nel contratto di appalto specifiche clausole di manleva, che obbligano l’appaltatore a tenere indenne il committente da ogni pretesa risarcitoria. È fondamentale che tali clausole siano redatte in modo chiaro e inequivocabile, specificando ambito e limiti della garanzia. Per le imprese appaltatrici, la decisione ricorda che la responsabilità verso i terzi sussiste sempre quando la strada resta aperta al traffico, indipendentemente da quanto previsto nel contratto con il committente. Le imprese devono quindi adottare tutte le misure di sicurezza previste dal Codice della Strada e garantire la corretta segnalazione e delimitazione dei cantieri. Sul piano contrattuale, le imprese devono prestare particolare attenzione alle clausole di manleva, che possono comportare l’obbligo di rimborsare integralmente il committente delle somme pagate ai danneggiati, anche quando la responsabilità del sinistro sia solo parzialmente riconducibile all’appaltatore. Per i danneggiati e i loro familiari, la sentenza conferma che possono sempre

Incidente stradale mortale e risarcimento agli eredi: i limiti dell’azione diretta e il concorso di colpa

Una recente sentenza del Tribunale di Bari chiarisce quando gli eredi del trasportato deceduto possono agire contro l’assicurazione e come si ripartiscono le responsabilità quando tutti i soggetti coinvolti hanno contribuito al sinistro La perdita di un familiare in un incidente stradale rappresenta uno degli eventi più traumatici che una persona possa affrontare. Al dolore si aggiunge spesso la necessità di intraprendere un percorso giudiziario per ottenere il giusto risarcimento. Ma quali strumenti processuali hanno a disposizione gli eredi? E come incide il comportamento della stessa vittima sulla quantificazione del danno? Una recente pronuncia del Tribunale di Bari (procedimento n. 10522/2024 R.G.) offre importanti chiarimenti su questi delicati aspetti. Il caso esaminato La vicenda trae origine da un drammatico incidente stradale verificatosi in ore notturne, quando due autovetture si sono scontrate violentemente a un incrocio regolato da semaforo lampeggiante. Il passeggero di uno dei veicoli coinvolti, che non indossava la cintura di sicurezza, è stato sbalzato fuori dall’abitacolo a causa della forza dell’impatto, riportando lesioni fatali. La vedova ha quindi promosso azione risarcitoria nei confronti sia del conducente del veicolo su cui viaggiava il marito, sia della compagnia assicuratrice, chiedendo il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. La questione dell’azione diretta: perché l’art. 141 del Codice delle Assicurazioni non si applica agli eredi Un primo, fondamentale profilo affrontato dalla sentenza riguarda la corretta individuazione dello strumento processuale esperibile dagli eredi del trasportato deceduto. Il Codice delle Assicurazioni Private (D.lgs. 209/2005) prevede due distinte azioni dirette: quella dell’art. 141, riservata al terzo trasportato danneggiato, e quella dell’art. 144, esperibile da qualunque danneggiato nei confronti dell’assicurazione del responsabile civile. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35318 del 30 novembre 2022, hanno definitivamente chiarito la natura eccezionale del rimedio previsto dall’art. 141 CAP. Questa norma, che consente al trasportato di agire direttamente contro l’assicurazione del veicolo su cui viaggiava (prescindendo dall’accertamento delle responsabilità), non può essere estesa agli eredi che agiscano per danni subiti iure proprio, ovvero in quanto tali e non quali successori del defunto. Il testo normativo, infatti, fa ripetuto riferimento al “veicolo a bordo del quale il danneggiato si trovava al momento del sinistro”: una formulazione che impedisce qualsiasi estensione interpretativa. La conseguenza pratica è rilevante: il congiunto del trasportato che agisca per danni propri deve seguire la via ordinaria dell’art. 144 CAP, con l’onere di allegare e provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, senza poter beneficiare della semplificazione probatoria riconosciuta al trasportato diretto. Il giudicato penale e l’assicurazione: un rapporto complesso Nel caso esaminato, il conducente del veicolo era stato già condannato in sede penale per il reato di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.), con contestuale condanna generica al risarcimento dei danni. Ci si è chiesti, quindi, se tale pronuncia vincolasse anche la compagnia assicuratrice, che non aveva partecipato al processo penale. Il Tribunale ha applicato l’orientamento consolidato della Cassazione secondo cui, nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria R.C. auto, responsabile del sinistro e assicuratore rispondono come condebitori solidali ad interesse unisoggettivo. Questo inquadramento comporta l’applicabilità dell’art. 1306 c.c., in base al quale il giudicato tra danneggiato e danneggiante non può essere opposto al terzo assicuratore, ma può solo essere da questi invocato se favorevole. In altri termini, la sentenza penale di condanna non vincola l’assicurazione, ma può comunque essere valutata dal giudice civile come documento rappresentativo di un fatto storico, utile a fondare il proprio convincimento. La ripartizione delle responsabilità: quando tutti hanno colpa L’aspetto più complesso della decisione riguarda l’accertamento delle responsabilità concorrenti. Il Tribunale ha individuato tre distinte condotte colpose che hanno contribuito all’evento mortale. Il conducente dell’altra autovettura ha violato l’obbligo di dare la precedenza, impegnando l’incrocio ad alta velocità e in stato di alterazione da alcol. Questa condotta è stata ritenuta la più grave in termini concorsuali, determinando l’attribuzione di una responsabilità del 40%. Il conducente del veicolo su cui viaggiava la vittima, pur godendo del diritto di precedenza, procedeva a velocità elevata (70 km/h in un tratto con limite di 50 km/h), in condizioni che avrebbero richiesto particolare prudenza: manto stradale bagnato, orario notturno, semaforo lampeggiante, prossimità di incrocio. Il giudice ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui costituisce di per sé condotta negligente riporre fiducia nel comportamento diligente degli altri utenti della strada (Cass. civ. Sez. III, 21 novembre 2024, n. 30574). A questo conducente è stata attribuita una responsabilità del 35%. Infine, la stessa vittima ha contribuito all’evento non indossando la cintura di sicurezza. L’art. 1227, comma 1, c.c. esclude che sul danneggiante possa gravare quella parte di danno che non gli è causalmente imputabile. Nel caso specifico, se il trasportato avesse allacciato la cintura, con buona probabilità non sarebbe stato sbalzato fuori dall’abitacolo e avrebbe riportato lesioni meno gravi. Questo concorso colposo è stato quantificato nel 25%. La liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale Per la quantificazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, il Tribunale ha applicato le tabelle milanesi nella versione aggiornata ai principi espressi dalla Cassazione con la sentenza n. 10579/2021. Il nuovo sistema prevede un “valore-punto” (pari a 3.911 euro per la perdita di coniuge) moltiplicato per un punteggio determinato sulla base di cinque parametri: età della vittima primaria, età della vittima secondaria, convivenza, sopravvivenza di altri congiunti e qualità della relazione affettiva. Nel caso esaminato, considerata l’età dei coniugi, la convivenza e l’assenza di altri superstiti nel nucleo familiare primario, è stato attribuito un punteggio di 89 punti, corrispondente a un importo di 348.079 euro, poi ridotto a 261.059,25 euro per effetto del concorso di colpa della vittima. Il danno patrimoniale e i nuovi coefficienti di capitalizzazione Per il danno patrimoniale da perdita del contributo economico del coniuge, il Tribunale ha adottato i coefficienti di capitalizzazione elaborati dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano nel maggio 2023. Questi nuovi parametri superano le inadeguate tabelle del R.D. 1403/1922 e del CSM del 1989, proiettando correttamente la capitalizzazione solo sull’arco della vita lavorativa residua e non sull’intera vita fisica. Partendo dal reddito netto del defunto e dalla quota

Truffato in Banca? L’Europa Cambia Tutto: 4 Novità Rivoluzionarie che Devi Conoscere

Una svolta storica nella protezione dei consumatori: le banche dovranno restituire i soldi ai correntisti vittime di frodi online La crescente sofisticazione delle truffe bancarie online genera un’ansia diffusa e una sensazione di impotenza tra i consumatori. Un click sbagliato, un messaggio ingannevole, e i risparmi di una vita possono svanire nel giro di pochi secondi. Ma ora, una nuova ondata normativa europea introduce una svolta storica che cambia radicalmente le regole del gioco a favore dei cittadini. Il 28 giugno 2023, la Commissione Europea ha presentato un pacchetto legislativo rivoluzionario composto dalla proposta di Regolamento sui Servizi di Pagamento (PSR, COM(2023) 366 final) e dalla terza Direttiva sui Servizi di Pagamento (PSD3, COM(2023) 367 final). Il 23 aprile 2024, il Parlamento Europeo ha approvato questi testi con emendamenti significativi, segnando un passo decisivo verso un sistema di pagamenti più sicuro e protetto per tutti i cittadini europei. In questo articolo analizzeremo i punti più sorprendenti e di maggiore impatto di questa riforma, esplorando come trasformerà la protezione dei nostri conti correnti e ridefinirà le responsabilità degli attori coinvolti nell’ecosistema digitale. Le 4 Rivoluzioni della Nuova Riforma Europea sui Pagamenti 1. Fine dei “Se” e dei “Ma”: Il Rimborso Bancario Diventa Obbligatorio Il cuore della riforma è un cambio di paradigma radicale che ribalta l’attuale distribuzione delle responsabilità. L’Unione Europea sta introducendo l’obbligo diretto per le banche di rimborsare i clienti vittime di truffe, spostando il rischio finanziario della frode dalle spalle del consumatore, che ha scarso controllo sui sistemi di sicurezza, a quelle delle istituzioni finanziarie, che hanno i mezzi e le competenze per prevenirla. Questo non è un semplice aggiustamento normativo, ma un fondamentale riallineamento economico. La frode al consumatore cessa di essere una questione di cortesia del servizio clienti per diventare una passività diretta sul bilancio della banca, trasformandola in un problema centrale di gestione del rischio finanziario. Quando un correntista subisce una frode e la denuncia tempestivamente, la banca sarà tenuta a procedere al rimborso delle somme sottratte, senza poter addurre giustificazioni basate su presunte negligenze del cliente. Questa misura rappresenta l’incentivo più potente mai concepito per spingere le banche a investire seriamente in sicurezza e protezione. Ora sono direttamente responsabili per le perdite economiche derivanti da frodi. Se i loro sistemi si dimostrano inadeguati, dovranno affrontare rimborsi economicamente rilevanti, trasformando la sicurezza informatica da centro di costo a elemento essenziale per la stabilità finanziaria dell’istituto. La normativa introduce inoltre una clausola di protezione speciale per le frodi basate sull’impersonificazione, come i furti di identità digitale o la clonazione di profili aziendali. In questi casi specifici, le banche dovranno riconoscere un rimborso completo a chi denuncia la frode, indipendentemente dal fatto che la banca avesse implementato o meno gli altri strumenti di protezione standard. Questa disposizione riconosce che determinate forme di inganno sono talmente sofisticate da rendere impossibile per un consumatore medio distinguere una comunicazione autentica da una fraudolenta. 2. Non Solo Rimborsi: Le 4 Armi di Difesa che la Tua Banca Deve Offrirti Questo drammatico spostamento verso il rimborso obbligatorio è reso sostenibile dal secondo pilastro della riforma, che impone alle banche di adottare un nuovo e potente arsenale difensivo. L’Unione Europea non sta semplicemente trasferendo la responsabilità, ma sta imponendo gli strumenti necessari per gestirla. La riforma non è solo reattiva, ma anche proattiva, richiedendo a tutte le banche e ai fornitori di servizi di pagamento di implementare strumenti di protezione tecnologicamente avanzati. Il primo strumento obbligatorio è il controllo automatico della corrispondenza tra il nome del beneficiario di un bonifico e l’IBAN di destinazione. Questa misura, che potrebbe sembrare semplice, rappresenta in realtà una barriera formidabile contro uno dei metodi di truffa più diffusi: quello in cui il malintenzionato convince la vittima a effettuare un bonifico verso un conto intestato a terzi. Con questo sistema, quando si inserisce l’IBAN di destinazione, la banca verificherà automaticamente che il nome del titolare corrisponda a quello indicato dal cliente. In caso di incongruenza, la transazione deve essere rifiutata automaticamente, impedendo così il completamento della frode. Il secondo pilastro è l’autenticazione forte del cliente, che diventa obbligatoria per confermare l’identità dell’utente durante ogni operazione sensibile. Non basterà più una semplice password: sarà necessario utilizzare sistemi di autenticazione a più fattori che combinino almeno due elementi tra qualcosa che si conosce (come una password), qualcosa che si possiede (come uno smartphone o un token) e qualcosa che si è (come un’impronta digitale o il riconoscimento facciale). Questo sistema rende estremamente difficile per un truffatore portare a termine un’operazione fraudolenta, anche se fosse riuscito a rubare le credenziali di accesso della vittima. Il terzo strumento prevede che gli istituti debbano fornire agli utenti la possibilità di impostare in autonomia limiti di spesa e blocchi preventivi sui propri conti. Ogni correntista potrà decidere, attraverso l’app della propria banca, quale sia l’importo massimo che può essere trasferito in una singola operazione o in un determinato periodo di tempo. Potrà inoltre bloccare completamente determinate tipologie di transazioni o impostare avvisi automatici che lo informino immediatamente quando vengono effettuate operazioni che superano determinate soglie. Il quarto elemento è l’obbligo per le banche di implementare sistemi di monitoraggio che blocchino temporaneamente i movimenti che presentano caratteristiche anomale rispetto al comportamento abituale del cliente. Se un correntista effettua normalmente operazioni di poche centinaia di euro e improvvisamente tenta di trasferire migliaia di euro verso un nuovo beneficiario, il sistema dovrà rilevare l’anomalia e sospendere l’operazione fino a quando il cliente non confermi che si tratta effettivamente di una sua volontà. Se una banca non implementa adeguatamente questi strumenti di protezione, sarà considerata responsabile delle perdite subite dai clienti e dovrà procedere al rimborso integrale. Questo meccanismo crea un incentivo potentissimo per gli istituti finanziari a investire in tecnologie di sicurezza all’avanguardia e a mantenerle costantemente aggiornate di fronte all’evoluzione delle tecniche di frode. 3. La Sorpresa: Anche i Social Network Ora Hanno una Responsabilità Economica Un capitolo particolarmente innovativo della riforma estende, per la prima volta, la responsabilità economica anche alle piattaforme digitali e

Procedure fallimentari troppo lunghe: quando scatta l’indennizzo?

La Cassazione fissa il termine di 6 anni come limite invalicabile e chiarisce le regole per ottenere l’equa riparazione Quanto può durare una procedura fallimentare prima che diventi “irragionevolmente” lunga? E quando un creditore ammesso al passivo ha diritto a un indennizzo per l’eccessiva durata del processo? A queste domande risponde la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31806/2025, depositata il 5 dicembre 2025, che fa chiarezza su un punto cruciale della legge Pinto (legge 24 marzo 2001, n. 89) in materia di equa riparazione. La vicenda nasce dalla richiesta di indennizzo presentata da una creditrice ammessa al passivo di una procedura fallimentare aperta nel 2014. La creditrice aveva presentato domanda di ammissione al passivo nell’aprile 2015 ed era stata ammessa nell’ottobre dello stesso anno per un credito di circa 2.600 euro. Dopo oltre sette anni di attesa, con la procedura ancora pendente, la creditrice ha chiesto l’equa riparazione per l’irragionevole durata del fallimento. Il primo grado ha respinto la domanda, ritenendo non provata la fondatezza. Anche la Corte d’Appello di Napoli ha confermato il rigetto, ma per una ragione diversa e che si è rivelata decisiva. Secondo i giudici napoletani, la ragionevole durata di una procedura fallimentare doveva essere stimata in sette anni, e poiché tra l’ammissione al passivo e la data della certificazione di pendenza erano trascorsi solo sette anni e due mesi, il presupposto per l’indennizzo non sussisteva ancora. La creditrice ha quindi fatto ricorso in Cassazione, contestando proprio questo calcolo. La questione centrale era interpretare correttamente l’articolo 2, comma 2-bis, della legge 89 del 2001, introdotto nel 2012 con il decreto legge n. 83, convertito nella legge n. 134. Questa norma rappresenta una vera e propria rivoluzione nel sistema dell’equa riparazione, perché stabilisce termini precisi per valutare la ragionevolezza della durata di un processo. Il comma 2-bis è molto chiaro quando afferma che “si considera rispettato il termine ragionevole se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”. Prima di questa riforma, il giudice godeva di ampia discrezionalità nel valutare se la durata fosse ragionevole, dovendo considerare la complessità del caso, il comportamento delle parti e del giudice, e altri fattori soggettivi. Con la novella del 2012, il legislatore ha voluto fissare un parametro oggettivo e tassativo. Per le procedure concorsuali, come il fallimento, questo parametro è stato individuato in sei anni. La Corte di Cassazione, con la decisione in esame, accoglie il ricorso e cassa il decreto della Corte d’Appello. I giudici di legittimità chiariscono un principio fondamentale: il termine di sei anni per le procedure concorsuali è “insuscettibile di autonoma valutazione da parte del giudice, perché predeterminato dal legislatore”. In altre parole, il giudice non può discostarsene, non può dire che in quel caso specifico sette anni sono ancora ragionevoli. Il termine di sei anni è un limite invalicabile. Ma la Cassazione fa un passo ulteriore, precisando che la fissazione di questo termine non impedisce al giudice di valutare, alla luce degli elementi indicati nel comma 2 dell’articolo 2 (complessità del caso, comportamento delle parti e del giudice), la durata irragionevole effettivamente imputabile allo Stato. Questo significa che il giudice deve comunque verificare se eventuali ritardi siano dipesi da circostanze non addebitabili all’apparato giudiziario. Il termine di sei anni fissa il limite oltre il quale la durata diventa presuntivamente irragionevole, ma il giudice mantiene il potere di valutare le cause concrete del ritardo. Un altro aspetto rilevante riguarda l’individuazione del momento iniziale da cui far decorrere il termine. La Cassazione ribadisce il proprio orientamento consolidato: per il creditore ammesso al passivo fallimentare, il dies a quo coincide con la data di proposizione della domanda di ammissione al passivo, non con la dichiarazione di fallimento. Questo perché è con la domanda che si instaura il rapporto processuale tra il creditore e la procedura. Nel caso specifico, quindi, il termine decorreva dall’aprile 2015 e, al momento della richiesta di equa riparazione nel marzo 2023, erano trascorsi quasi otto anni. La Corte censura anche il metodo utilizzato dalla Corte d’Appello di Napoli, che aveva fatto un generico richiamo alla complessità del processo senza fornire una specifica motivazione sul perché ritenesse applicabile un termine di sette anni anziché di sei. Questo tipo di motivazione generica non è più ammissibile dopo la riforma del 2012, che ha cristallizzato i termini di durata ragionevole. Sul piano pratico, questa sentenza ha conseguenze significative per tutti i creditori coinvolti in procedure concorsuali di lunga durata. Se una procedura fallimentare, o più in generale una procedura concorsuale come il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale (che ha sostituito il fallimento con il Codice della crisi d’impresa), supera i sei anni dalla data di ammissione al passivo, il creditore ha diritto di chiedere l’equa riparazione. Non è più necessario dimostrare che nel caso specifico la durata sia stata particolarmente lunga o complessa, perché il superamento del termine di sei anni costituisce di per sé una presunzione di irragionevolezza. Per le imprese creditrici, questo significa poter pianificare con maggiore certezza quando maturerà il diritto all’indennizzo. Per gli studi professionali che assistono creditori in procedure concorsuali, rappresenta uno strumento importante per tutelare gli interessi dei clienti che si trovano a dover attendere anni prima di vedere soddisfatti, anche solo parzialmente, i propri crediti. La sentenza si inserisce in un filone giurisprudenziale che cerca di dare attuazione concreta all’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che garantisce il diritto a un processo equo e di ragionevole durata. La lunghezza eccessiva dei procedimenti giudiziari rappresenta una delle principali criticità del sistema giustizia italiano, più volte sanzionata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La legge Pinto è stata proprio introdotta per offrire ai cittadini un rimedio interno prima di dover ricorrere a Strasburgo. La Cassazione rinvia ora la causa alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, che dovrà riesaminare la domanda alla luce di questi principi. Il nuovo collegio dovrà verificare se, superato il termine di sei anni, ci siano elementi concreti che giustifichino il ritardo o se questo sia effettivamente imputabile alla durata irragionevole

Malattia e lavoro: cosa puoi fare davvero e cosa rischi

La Cassazione e il Garante Privacy tracciano i confini tra i doveri del lavoratore in malattia e i limiti del potere di controllo del datore di lavoro Sei in malattia e ti chiedi se puoi uscire a fare la spesa, se un collega che ti vede in giro può denunciarti, o se il tuo datore di lavoro può controllarti. La realtà giuridica che governa queste situazioni è molto più articolata di quanto comunemente si creda. Recenti pronunce della Corte di Cassazione e provvedimenti del Garante per la Protezione dei Dati Personali hanno tracciato confini precisi, e talvolta sorprendenti, tra i doveri del lavoratore e i poteri del datore di lavoro. Lavorare durante la malattia: il rischio non è quello che pensi Molti credono che svolgere un’altra attività lavorativa durante la malattia costituisca motivo automatico di licenziamento. La realtà giuridica, tuttavia, è più complessa. La Corte di Cassazione, con la sentenza R.G.N. 1472/2024 del 15 gennaio 2024, ha chiarito che il licenziamento è legittimo non per il semplice fatto di svolgere un’altra attività, ma perché tale attività può mettere in pericolo la guarigione. La Suprema Corte ha introdotto il concetto di illecito di pericolo. In termini pratici, questo significa che non è necessario dimostrare che l’attività extra-lavorativa abbia effettivamente ritardato il rientro al lavoro. È sufficiente che il comportamento del dipendente sia stato imprudente e abbia messo a rischio una pronta guarigione. L’obbligo del dipendente, dunque, non si esaurisce nel semplice astenersi dalla propria prestazione lavorativa, ma si estende al dovere di adottare attivamente ogni cautela per guarire nel più breve tempo possibile, rispettando l’interesse del datore di lavoro al rapido rientro in servizio del proprio collaboratore. Questo principio sposta significativamente il focus dalla prova del danno effettivo alla responsabilità preventiva del lavoratore. Uscire di casa: non sei agli arresti domiciliari Il mito del dipendente in malattia costretto alla reclusione domestica è duro a morire, ma è appunto un mito. La sentenza della Cassazione R.G.N. 20210/2016 del 7 ottobre 2016 ha fatto definitiva chiarezza su questo punto. Nel caso esaminato, un lavoratore era stato visto più volte spostarsi in scooter durante il periodo di malattia. Nonostante ciò, il suo licenziamento è stato ritenuto sproporzionato e quindi illegittimo. La ragione? La condotta del lavoratore non aveva in alcun modo compromesso la guarigione, il suo rientro al lavoro era avvenuto regolarmente nei tempi previsti e, durante le visite di controllo, era sempre risultato reperibile presso il proprio domicilio. La conclusione della Corte è netta: l’uscita di casa può essere sanzionata soltanto in due ipotesi. La prima è la violazione dell’obbligo di reperibilità nelle fasce orarie stabilite per la visita fiscale (attualmente dalle ore 10 alle 12 e dalle ore 17 alle 19, anche nei giorni festivi). La seconda è quando l’attività svolta risulti palesemente incompatibile con lo stato di malattia al punto da pregiudicare o ritardare la guarigione. Il datore di lavoro non può improvvisarsi detective Il sospetto che un dipendente stia abusando della malattia può spingere il datore di lavoro a prendere iniziative drastiche, ma la legge pone paletti molto rigidi. Come confermato dall’ordinanza della Cassazione R.G.N. 23578/2025 del 20 agosto 2025 e da un recente provvedimento del Garante per la Privacy, i cosiddetti controlli difensivi sono ammessi solo a condizioni estremamente severe. Tali controlli devono basarsi su un sospetto concreto e fondato e rispettare scrupolosamente i principi di proporzionalità e minimizzazione dei dati raccolti. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un dirigente era stato pedinato da un’agenzia investigativa per oltre due settimane, compresi i giorni di Natale e Santo Stefano. Questo tipo di sorveglianza è stata giudicata sproporzionata e un’invasione inammissibile della vita privata. L’attività investigativa, per la sua estensione temporale e per la natura dei dati raccolti, si traduceva in una indebita interferenza nella sfera privata del lavoratore. È fondamentale sottolineare che le prove raccolte illegalmente, come report investigativi sproporzionati o riprese video non autorizzate, sono inutilizzabili in qualsiasi procedimento disciplinare. La tutela non riguarda soltanto la privacy del lavoratore, ma riafferma il principio secondo cui il sospetto del datore di lavoro non può mai trasformarsi in un’inquisizione senza limiti. Chat private e social network: una zona off-limits Nell’era digitale, la tentazione di utilizzare informazioni reperite online per contestazioni disciplinari è forte, ma illecita. Il Garante per la Protezione dei Dati Personali, con provvedimento riportato nella Newsletter n. 536 del 25 giugno 2025, ha sanzionato una società che aveva utilizzato contenuti tratti dai social network per giustificare un licenziamento. L’Autorità ha stabilito con chiarezza che un datore di lavoro non può utilizzare contenuti presi da profili Facebook privati o da chat personali su piattaforme di messaggistica per giustificare un licenziamento, neanche se questi contenuti vengono forniti spontaneamente da altri colleghi. Il principio affermato dal Garante è di portata fondamentale: i dati personali online, specialmente in ambienti ad accesso limitato come profili privati o conversazioni dirette, non sono terra di nessuno. Il loro utilizzo per fini disciplinari viola i principi di liceità e finalità del trattamento, oltre al diritto costituzionalmente garantito alla riservatezza della corrispondenza ex art. 15 Cost. L’unico controllo legittimo: la visita fiscale Se i controlli privati incontrano limiti così stringenti, qual è lo strumento corretto a disposizione del datore di lavoro? La risposta, convergente sia dalla massima Corte giudiziaria sia dall’Autorità per la privacy, è una e inequivocabile: la visita fiscale. L’ordinamento prevede uno strumento specifico, ufficiale e rispettoso della dignità della persona per la verifica delle assenze per malattia: la visita di controllo richiesta agli istituti previdenziali competenti (INPS). Ricorrere a metodi alternativi non autorizzati, come incaricare un collega di filmare di nascosto un dipendente o assoldare investigatori per una sorveglianza generalizzata, non è solo sproporzionato ma è illecito. Il fatto che sia la Cassazione sia il Garante Privacy indichino concordemente la visita fiscale come unica via maestra non è casuale. Esso sottolinea che, a prescindere dall’angolo prospettico – diritto del lavoro o protezione dei dati – la sorveglianza privata è considerata un’eccezione estrema, mai la regola. Cosa significa in pratica per te Se sei un

Incidente con Cane Randagio: Chi Risarcisce i Danni?

La Cassazione chiarisce i limiti della responsabilità del Comune e dell’ASL Chi deve pagare quando un automobilista subisce un incidente dopo aver investito un cane randagio? La risposta non è così scontata come potrebbe sembrare. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30616/2025, ha fornito indicazioni precise sui presupposti necessari per ottenere un risarcimento dalla pubblica amministrazione in questi casi. Il Caso: Tragedia sulla Strada Provinciale La vicenda ha origine da un drammatico incidente stradale. Un automobilista, mentre percorreva una strada provinciale alla guida della propria vettura, ha improvvisamente impattato contro un cane randagio presente sulla carreggiata. L’urto ha causato uno sbandamento del veicolo con conseguente capovolgimento, risultando fatale per il conducente. I familiari della vittima hanno quindi agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti iure proprio (cioè per il danno personale derivante dalla perdita del congiunto) nei confronti del Comune e dell’Azienda Sanitaria Locale. La tesi accusatoria si fondava sulla presunta responsabilità degli enti pubblici per non aver adempiuto agli obblighi di prevenzione del randagismo previsti dalla legge nazionale 281/1991 e dalla legge regionale pugliese 12/1995. Tuttavia, sia il Tribunale in primo grado sia la Corte d’Appello hanno respinto le richieste risarcitorie. La Suprema Corte ha poi confermato questa decisione, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dai familiari. La Questione Giuridica: Responsabilità Oggettiva o per Colpa? Il punto centrale della controversia riguarda la natura della responsabilità della pubblica amministrazione in caso di danni causati da animali randagi. Quando un ente locale può essere chiamato a rispondere per i danni provocati dalla presenza di cani vaganti sul territorio? La normativa di riferimento attribuisce ai Comuni e alle ASL precise competenze in materia di controllo del randagismo. La legge 281 del 1991 ha introdotto un sistema di prevenzione basato sulla registrazione degli animali, sulla sterilizzazione e sulla creazione di strutture di ricovero. Le leggi regionali, come la legge pugliese 12 del 1995, hanno poi specificato ulteriormente questi obblighi. Tuttavia, la mera esistenza di questi obblighi normativi non determina automaticamente una responsabilità dell’amministrazione ogni volta che un cane randagio causa un danno. Come ha chiarito la Cassazione, siamo nell’ambito della responsabilità aquiliana disciplinata dall’articolo 2043 del codice civile, che richiede la prova di tutti gli elementi costitutivi: il comportamento colposo, il danno e il nesso causale tra condotta ed evento dannoso. I Principi Affermati dalla Cassazione La Corte Suprema ha ribadito alcuni principi fondamentali che meritano particolare attenzione. Primo principio: l’onere della prova grava sul danneggiato. Chi chiede il risarcimento per danni causati da un cane randagio deve dimostrare non solo che l’animale ha provocato l’incidente, ma anche che l’amministrazione pubblica sia stata negligente nell’organizzare il servizio di prevenzione del randagismo. Non è sufficiente il semplice fatto che un cane vagante abbia causato il danno: occorre provare una vera e propria insufficienza organizzativa del servizio pubblico. In altre parole, bisogna dimostrare che il Comune o la ASL non hanno predisposto adeguate misure di cattura, sterilizzazione, ricovero degli animali o non hanno effettuato i controlli dovuti sul territorio. Secondo principio: la colpa esclusiva del danneggiato è rilevabile d’ufficio. La Cassazione ha precisato che l’accertamento del concorso di colpa del danneggiato, o addirittura della sua colpa esclusiva nella causazione del sinistro, rientra nell’ipotesi prevista dall’articolo 1227 del codice civile. Si tratta di una mera difesa e non di un’eccezione in senso stretto, il che significa che il giudice può e deve valutarla d’ufficio, anche se la controparte si limita a contestare genericamente la propria responsabilità senza sollevarla espressamente. Questo aspetto è particolarmente rilevante perché consente al giudice di respingere la domanda risarcitoria quando emerge chiaramente che il danno è stato causato dalla condotta imprudente dello stesso danneggiato. Terzo principio: l’analisi della condotta di guida è determinante. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva rilevato una serie di circostanze fattuali decisive: il conducente procedeva a velocità eccessiva per le condizioni della strada, non manteneva la destra come prescritto dal codice della strada e, soprattutto, l’animale non stava effettuando un improvviso attraversamento della carreggiata ma si trovava già sulla corsia di sorpasso, risultando quindi avvistabile con una condotta di guida prudente. Come ha efficacemente sintetizzato la sentenza, il veicolo “trovò sulla corsia di sinistra non l’improvviso ostacolo di un cane in movimento che attraversava ma l’ostacolo, insolito ma ben avvistabile, di un cane che su quella corsia circolava con modalità analoghe ad una vettura”. Questa ricostruzione fattuale ha portato i giudici a concludere che “la natura randagia del cane non ebbe rilevanza causale nella dinamica dell’incidente”, essendo il sinistro interamente riconducibile alla condotta imprudente del conducente. Quando il Comune Può Essere Responsabile? È importante chiarire che l’ordinanza della Cassazione non esclude in assoluto la possibilità di ottenere un risarcimento dalla pubblica amministrazione per danni da randagismo. Tuttavia, traccia una linea netta sui presupposti necessari. La responsabilità del Comune o della ASL può configurarsi quando il danneggiato riesce a dimostrare che il servizio di prevenzione del randagismo era organizzato in modo manifestamente insufficiente o inesistente. Ad esempio, potrebbero rilevare circostanze come l’assenza totale di interventi di cattura sul territorio, la mancata attivazione del canile comunale, l’omessa sterilizzazione nonostante segnalazioni ripetute di branchi vaganti in determinate zone, o la carenza di personale dedicato ai controlli. Una volta fornita questa prova, il nesso di causa tra la condotta omissiva e il danno può essere dimostrato anche ricorrendo al criterio della “concretizzazione del rischio”. Questo principio giuridico consente di ritenere provato il nesso causale quando si verifica proprio quel tipo di danno che la norma violata mirava a prevenire. In altri termini, se l’amministrazione non ha adempiuto agli obblighi di controllo del randagismo e si verifica proprio un incidente con un cane vagante, il nesso causale può essere riconosciuto. Tuttavia, anche in presenza di un’organizzazione insufficiente del servizio, la responsabilità dell’ente pubblico può essere esclusa o ridotta se emerge un concorso di colpa del danneggiato. Come nel caso esaminato, se il conducente ha tenuto una condotta di guida imprudente che ha reso inevitabile l’incidente nonostante la presenza dell’animale fosse evitabile con una guida attenta, la domanda risarcitoria

Affitti Brevi e Check-in da Remoto: La Sentenza del Consiglio di Stato che Ridefinisce le Regole

Il videocollegamento sostituisce le key box: cosa cambia davvero per host e viaggiatori dopo la decisione di novembre 2025 L’esperienza è ormai familiare a milioni di viaggiatori: arrivi davanti all’appartamento prenotato, digiti un codice, apri la cassetta di sicurezza e recuperi le chiavi. Nessuna attesa, nessun appuntamento da concordare. Il self check-in automatizzato ha rappresentato per anni il simbolo della flessibilità nel turismo moderno, offrendo autonomia tanto agli ospiti quanto ai gestori delle proprietà. Ma un recente intervento del Consiglio di Stato ha ridefinito profondamente questo scenario, introducendo regole che, a una prima lettura, sembravano segnare la fine del check-in da remoto. La realtà, però, è molto più articolata e sorprendente. Con la sentenza del 21 novembre 2025, il Consiglio di Stato ha annullato la precedente decisione del TAR Lazio e ripristinato la circolare del Ministero dell’Interno del novembre 2024, che imponeva l’identificazione “de visu” degli ospiti nelle strutture ricettive. Una lettura affrettata potrebbe far pensare a un ritorno al passato, all’epoca in cui ogni check-in richiedeva necessariamente la presenza fisica di host e viaggiatore nello stesso luogo. Eppure, un’analisi più approfondita del provvedimento rivela quattro elementi chiave che cambiano radicalmente le prospettive del settore turistico. La Vera Natura dell’Identificazione “De Visu” Il primo aspetto sorprendente emerge proprio dall’interpretazione che il Consiglio di Stato ha fornito del concetto di identificazione “de visu”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il termine non equivale esclusivamente a “di persona nel senso fisico”. I giudici hanno infatti chiarito che l’identificazione faccia a faccia può avvenire anche a distanza, purché vengano impiegati sistemi di videocollegamento in tempo reale. Questa precisazione è tutt’altro che marginale: apre ufficialmente la strada all’utilizzo di tecnologie digitali per il riconoscimento degli ospiti, purché queste garantiscano un’interazione sincrona e attiva. La distinzione fondamentale riguarda la modalità di verifica. I metodi basati sul mero invio passivo di documenti, come la trasmissione di una fotografia della carta d’identità via WhatsApp o email, non sono più considerati conformi alla normativa. Il motivo risiede nell’assenza di una verifica interattiva: chi riceve l’immagine non ha modo di accertarsi in tempo reale che la persona che si presenta sia effettivamente quella ritratta nel documento. Al contrario, una videochiamata condotta al momento dell’arrivo dell’ospite, durante la quale l’host o un suo delegato può verificare simultaneamente l’identità della persona e il documento esibito, rispetta pienamente i requisiti imposti dalla sentenza. La tecnologia non è quindi bandita, ma viene ricondotta a un utilizzo che garantisca la stessa affidabilità di un controllo di persona. Le Radici Storiche dell’Obbligo di Identificazione Per comprendere appieno la decisione del Consiglio di Stato, occorre risalire alle motivazioni che hanno portato a privilegiare la sicurezza pubblica rispetto alla comodità operativa. Il principio dell’identificazione degli ospiti nelle strutture ricettive affonda le radici in una tradizione normativa secolare, come ha evidenziato Federalberghi nel corso del giudizio. Tracce di questo obbligo si rintracciano già nella Grida milanese del 1583, e la sua importanza emerge anche nella letteratura italiana classica. Nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, l’oste della Luna Piena ricorda a Renzo l’obbligo di “render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi”, mentre ne La Locandiera di Carlo Goldoni il cameriere Fabrizio spiega che il mancato adempimento di tale dovere comporterebbe gravi conseguenze. Non si tratta però solo di storia e tradizione culturale. La sentenza si fonda su prove concrete dell’efficacia di questo sistema nella prevenzione di attività criminali. Il Ministero dell’Interno ha portato all’attenzione dei giudici un episodio significativo avvenuto a Viterbo il 3 settembre 2025. Due individui armati furono arrestati proprio grazie alla vigilanza del titolare di un bed and breakfast che, durante la verifica di persona, notò una discrepanza tra il documento d’identità precedentemente inviato via WhatsApp e l’ospite che si era effettivamente presentato. Il documento fotografato ritraeva una persona diversa da quella che si trovava davanti alla struttura. Questa incongruenza, impossibile da rilevare con un controllo meramente documentale e differito nel tempo, permise di sventare un potenziale pericolo. Le parole del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi hanno sottolineato come la sentenza rafforzi la sicurezza chiarendo in modo definitivo le regole per tutte le strutture, tutelando sia chi viaggia sia chi vive nei quartieri più esposti al fenomeno turistico e sostenendo il lavoro quotidiano delle forze di polizia. Il Conflitto tra Tradizione Alberghiera e Innovazione Extralberghiera Le reazioni alla sentenza hanno messo in luce una frattura profonda all’interno del settore turistico, quella tra il mondo alberghiero tradizionale e il mercato degli affitti brevi. Federalberghi ha accolto la decisione come una vittoria completa, sottolineando due elementi centrali: il rafforzamento della sicurezza e l’eliminazione di quella che definisce un’ingiustificata disparità applicativa. Quest’ultimo punto merita particolare attenzione dal punto di vista della concorrenza di mercato. Prima della sentenza, gli operatori extralberghieri godevano di un vantaggio competitivo significativo, potendo evitare i costi e gli oneri organizzativi legati a un check-in presidiato. Gli albergatori, al contrario, assolvevano da sempre all’obbligo di riconoscimento degli ospiti con personale dedicato, sostenendo spese che i loro concorrenti potevano eludere. Il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, ha evidenziato come questo impegno sia sempre stato assolto con grande senso civico, a beneficio della sicurezza dell’intera comunità. Di tutt’altro avviso si è mostrata FARE, la Federazione delle associazioni di ricettività extralberghiera. Pur riconoscendo formalmente la vittoria del Ministero, l’associazione interpreta la sentenza come una conferma della propria linea di pensiero: la sicurezza può e deve essere compatibile con l’innovazione tecnologica. L’apertura esplicita al videocollegamento viene vista come la legittimazione di quei sistemi di verifica digitale che FARE aveva proposto. In una mossa dialettica significativa, l’associazione ha evidenziato un’apparente contraddizione: se l’interpretazione del Consiglio di Stato richiede negli alberghi la presenza fisica al desk come condizione necessaria per l’identificazione, potrebbero risultare non conformi proprio quelle strutture alberghiere che hanno adottato sistemi di check-in totalmente automatizzati. Questa osservazione mette in discussione le stesse pratiche di un settore che ha fortemente sostenuto la necessità della sentenza. L’Incertezza Tecnologica e le Possibili Soluzioni Nonostante la sentenza abbia chiarito un principio fondamentale, ha al contempo generato un nuovo problema:

Caduta su scalinata monumentale: quando il Comune non risponde dei danni

La Cassazione chiarisce i limiti della responsabilità per custodia e l’onere probatorio del danneggiato Scivolare su una scalinata può causare gravi lesioni, ma non sempre il proprietario della struttura è tenuto a risarcire il danno. La Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con l’ordinanza n. 29760/2025 dell’11 novembre 2025, ha tracciato con estrema precisione i confini della responsabilità degli enti pubblici per i danni subiti dai cittadini che utilizzano beni monumentali, chiarendo quando una caduta può essere attribuita allo stato della cosa custodita e quando, invece, dipende esclusivamente dalla condotta imprudente di chi la utilizza. La pronuncia offre importanti spunti di riflessione sull’equilibrio tra tutela del danneggiato e ragionevolezza delle pretese risarcitorie, specialmente quando si tratta di beni storici e monumentali naturalmente soggetti all’usura del tempo e caratterizzati da irregolarità strutturali evidenti. La vicenda: una caduta sulla scalinata monumentale La vicenda trae origine da un incidente avvenuto il 5 luglio 2014 su una celebre scalinata monumentale romana. Una donna, mentre scendeva lungo la prima rampa, cadde rovinosamente a terra riportando gravi lesioni: lussazione del gomito sinistro con frattura di capitello radiale e coracoide, frattura di scafoide tarsale e cuboide del piede sinistro. Le conseguenze furono serie, tanto da richiedere un ricovero ospedaliero e un intervento chirurgico, con postumi permanenti valutati al 22% e un periodo di inabilità temporanea totale di 90 giorni, seguita da un’ulteriore inabilità parziale al 50% per altri 90 giorni. La danneggiata convenì in giudizio Roma Capitale chiedendo il risarcimento del danno biologico quantificato in oltre 128.000 euro, oltre alle spese mediche, sulla base della responsabilità per custodia prevista dall’art. 2051 del codice civile. Questa norma stabilisce che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Si tratta di una responsabilità oggettiva, che non richiede la prova della colpa del custode, ma solo del nesso causale tra la cosa e il danno. A sostegno della propria domanda, la danneggiata lamentava che la scalinata si trovava in stato di cattiva manutenzione, con gradini disconnessi e consumati, estremamente scivolosa anche in assenza di pioggia. Inoltre, sosteneva l’assenza di cartelli di pericolo e di presìdi antinfortunistici. Il restauro della scalinata, del resto, era iniziato solo nel 2015, quindi dopo l’incidente e a distanza di vent’anni dal precedente intervento conservativo. Roma Capitale si oppose sostenendo che la responsabilità per custodia non fosse applicabile, trattandosi di bene di utilizzazione generale e diretta da parte di terzi, e che risultava impossibile esercitare una vigilanza effettiva sull’enorme estensione viaria e sui manufatti comunali. L’ente rilevava inoltre che la scalinata, in quanto bene monumentale vincolato risalente alla prima metà del Settecento, veniva pulita solo mediante acqua a pressione, e che il sinistro era avvenuto in condizioni di buona visibilità, su un bene naturalmente sottoposto a usura quotidiana per il transito di migliaia di visitatori. Sia il Tribunale di Roma che la Corte d’Appello rigettarono la domanda, giudicando insufficiente la prova del nesso causale tra le condizioni della scalinata e il danno subìto. Di qui il ricorso in Cassazione. I motivi del ricorso: violazione delle regole probatorie La ricorrente articolò due motivi di impugnazione, entrambi fondati sulla violazione di norme sostanziali e processuali. Con il primo motivo denunciò la violazione degli artt. 2697, 1227 e 2051 del codice civile, nonché dell’art. 115 del codice di procedura civile, contestando alla Corte d’Appello di aver erroneamente affermato che non era stato provato il nesso di causalità tra le condizioni della scalinata e il danno, e di aver ritenuto sussistente un’ipotesi di caso fortuito identificato nel comportamento imprudente della danneggiata, senza specificarne gli estremi concreti. Con il secondo motivo denunciò la violazione dell’art. 2729 del codice civile in materia di presunzioni, sostenendo che la Corte territoriale aveva valorizzato elementi di prova privi delle necessarie qualità di gravità, precisione e concordanza espressamente imposte dalla legge. Le presunzioni semplici, infatti, possono costituire prova solo quando sono gravi, precise e concordanti tra loro. In sostanza, la ricorrente contestava alla Corte di merito di aver effettuato una valutazione errata delle prove e di aver attribuito il sinistro esclusivamente alla propria condotta imprudente, senza riconoscere alcuna responsabilità dell’ente custode. La risposta della Cassazione: inammissibilità del ricorso La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando la decisione della Corte d’Appello e riaffermando principi consolidati in materia di responsabilità per custodia e onere della prova. Prima di esaminare nel dettaglio le censure, la Cassazione ha richiamato il proprio orientamento costante in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia. Il principio fondamentale è che la condotta del danneggiato, quando entra in interazione con la cosa, assume rilevanza diversa a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso. Occorre infatti valutare il dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione. La regola è questa: quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno. In altre parole, se il pericolo era evidente e prevedibile, e il danneggiato non ha adottato le normali precauzioni, la sua condotta può interrompere il nesso eziologico tra la cosa e il danno, fino a escludere del tutto la responsabilità del custode. La Corte ha poi ribadito che la responsabilità ex art. 2051 del codice civile ha natura oggettiva, nel senso che si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode. Tale responsabilità può essere esclusa in due modi: dalla prova del caso fortuito, oppure dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, delle condotte del danneggiato o di un terzo. Nel primo caso si tratta di un fatto giuridico estraneo alla sfera di controllo del custode, nel secondo caso rileva la colpa del danneggiato ai sensi dell’art. 1227 del codice civile. Fondamentale è un ulteriore aspetto: la valutazione

Responsabilità della PA per Immissioni da Traffico: La Cassazione Conferma la Tutela dei Cittadini

Ordinanza Cass. civ. Sez. III, n. 29798/2025, del 12 novembre 2025 Premessa La Corte di Cassazione, con ordinanza della Terza Sezione Civile n. 29798/2025, depositata il 12 novembre 2025, interviene su una questione di rilevante interesse pratico: la responsabilità degli enti locali per le immissioni sonore e di polveri sottili derivanti dal traffico veicolare e, soprattutto, i poteri del giudice ordinario nel disporre misure concrete per eliminare tali immissioni intollerabili. La vicenda trae origine da un’azione promossa da numerosi proprietari di immobili situati lungo via del Foro Italico a Roma, nel tratto che costituisce la tangenziale est della Capitale. Gli attori lamentavano di subire inquinamento acustico e ambientale a causa dell’intenso traffico veicolare, nonostante la presenza di barriere che si erano rivelate inadeguate a contenere le immissioni. La Decisione dei Giudici di Merito Il Tribunale di Roma aveva inizialmente accolto solo parzialmente le domande, condannando Roma Capitale al risarcimento del danno non patrimoniale da immissioni rumorose intollerabili, quantificato in €2.000,00 per ciascun attore. Il primo giudice aveva ritenuto che le sole immissioni di rumore (e non quelle relative alle polveri sottili) superassero i limiti di legge, ma aveva escluso l’adozione di misure strutturali ritenendo sproporzionata l’installazione di barriere fonoassorbenti rispetto al lieve superamento dei limiti. La Corte d’Appello di Roma, invece, accogliendo il gravame degli attori, ha riformato la sentenza di primo grado disponendo: I Motivi del Ricorso in Cassazione Roma Capitale ha impugnato la sentenza d’appello articolando cinque motivi di ricorso, tutti rigettati dalla Suprema Corte. Primo Motivo: Omesso Esame sulla Prova delle Polveri Sottili L’amministrazione contestava che la Corte d’Appello avesse accertato il superamento dei limiti di tollerabilità delle polveri sottili utilizzando dati relativi a una zona limitrofa (Corso Francia) anziché rilievi specifici sugli immobili in questione. La Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, ribadendo che il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. è configurabile solo quando l’omissione investa “un fatto vero e proprio” – cioè un preciso accadimento storico-naturalistico – e non una mera questione interpretativa. Nel caso di specie, la censura si risolve in un tentativo di rivalutazione dei fatti storici accertati dal giudice di merito, operazione preclusa in sede di legittimità (principio ribadito da Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476). Secondo Motivo: Violazione della Separazione dei Poteri Il cuore del ricorso riguardava la presunta violazione dei principi costituzionali sulla ripartizione dei poteri tra organi giurisdizionali e organi amministrativi, con particolare riferimento all’art. 142 del Codice della Strada, che attribuisce agli enti proprietari delle strade la competenza esclusiva a stabilire i limiti di velocità. Su questo punto la Cassazione ha svolto un ragionamento di particolare rilevanza, rigettando il motivo e affermando un principio già consolidato nella giurisprudenza di legittimità: l’inosservanza da parte della Pubblica Amministrazione delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna al risarcimento dei danni, ma anche per ottenere la condanna ad un facere. La Suprema Corte richiama espressamente il principio enunciato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., ord. 12 ottobre 2020, n. 21993), secondo cui tale domanda non investe scelte e atti autoritativi della Pubblica Amministrazione, ma un’attività materiale soggetta al principio del neminem laedere. In altri termini, la condanna di Roma Capitale a disporre idonee misure per contenere le immissioni non viola la separazione dei poteri, poiché si tratta di una misura adottata a norma dell’art. 2058 cod. civ. (risarcimento in forma specifica) per eliminare un’attività lesiva. Terzo Motivo: Installazione dei Pannelli Fonoassorbenti Roma Capitale contestava la condanna all’installazione dei pannelli fonoassorbenti, sostenendo che il primo giudice avesse correttamente ritenuto tale misura sproporzionata rispetto al modesto superamento dei limiti acustici. La Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, rilevando l’assenza di qualsiasi profilo di interferenza tra la valutazione sulle polveri sottili e le misure adottate per contenere le immissioni di rumore. La decisione di ordinare l’installazione delle barriere fonoassorbenti si fonda sull’autonoma valutazione dell’insufficienza delle finestre autoventilanti a contenere l’inquinamento acustico. Quarto e Quinto Motivo: Liquidazione del Danno Gli ultimi due motivi riguardavano rispettivamente la liquidazione equitativa del danno (ritenuta priva di prova sulla consistenza dello stesso) e la presunta moltiplicazione indebita del risarcimento in favore degli eredi subentrati in corso di causa ex art. 110 cod. proc. civ. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il quarto motivo, osservando che la violazione dell’art. 2697 cod. civ. (onere della prova) è configurabile solo quando il giudice abbia attribuito l’onere probatorio a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie. Nel caso di specie, invece, si contestava la valutazione delle prove, censura che avrebbe dovuto essere proposta con il diverso vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Il quinto motivo è stato rigettato nel merito. La Corte ha chiarito che, in applicazione del principio secondo cui l’esatto contenuto della sentenza va individuato integrando il dispositivo con la motivazione, la condanna al risarcimento di €10.000,00 deve intendersi riferita a ciascun “attore” originario e non agli eredi successivamente subentrati. Il credito risarcitorio, infatti, è correlato non solo alla proprietà degli immobili ma anche all’abitazione presso gli stessi, posizione che si concentrava negli attori originari. I Principi di Diritto Affermati L’ordinanza in commento consolida alcuni principi fondamentali in materia di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione: Sul piano della giurisdizione: il giudice ordinario è pienamente competente a conoscere di domande dirette a ottenere non solo il risarcimento del danno, ma anche la condanna della PA ad adottare misure concrete (facere) per eliminare immissioni intollerabili, quando queste non investano scelte autoritative discrezionali ma attività materiali soggette al principio del neminem laedere. Sul piano sostanziale: la condanna ad adottare misure per contenere le immissioni (come l’imposizione di limiti di velocità o l’installazione di barriere fonoassorbenti) costituisce una forma di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 cod. civ., applicabile anche nei confronti della Pubblica Amministrazione quando questa sia responsabile di immissioni intollerabili derivanti dalla gestione del proprio

Trasferimento del lavoratore e rifiuto di prestare servizio: quando il licenziamento è legittimo?

La Cassazione chiarisce i limiti del diritto di rifiutare un trasferimento aziendale La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 29341/2025 pubblicata il 6 novembre 2025, ha affrontato una questione che interessa molti lavoratori dipendenti: quando è legittimo rifiutarsi di prestare servizio nella nuova sede dopo un trasferimento aziendale? E soprattutto, quando questo rifiuto può giustificare un licenziamento disciplinare? La vicenda processuale offre l’occasione per riflettere su un delicato equilibrio tra le esigenze organizzative del datore di lavoro e i diritti fondamentali del lavoratore, in particolare quando quest’ultimo invoca ragioni familiari per opporsi al trasferimento. Il caso esaminato dalla Suprema Corte La controversia trae origine dal licenziamento disciplinare di una lavoratrice impiegata presso una società attiva nel settore energetico. Nel febbraio 2020, l’azienda aveva comunicato alla dipendente il trasferimento dalla sede di Roma a quella di Corleto Perticara, in provincia di Potenza. La lavoratrice, madre di due figli piccoli, aveva manifestato la propria contrarietà al trasferimento, invocando generiche “oggettive ragioni familiari” e l’impossibilità materiale di trasferirsi. Non essendosi presentata al lavoro nella nuova sede dal 11 al 15 maggio 2020, l’azienda le aveva contestato l’assenza ingiustificata e le aveva intimato il licenziamento disciplinare il 9 giugno 2020. La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, ma sia il Tribunale di Roma in primo grado sia la Corte d’Appello di Roma avevano respinto le sue domande, ritenendo legittimo il provvedimento espulsivo. Seguiva quindi il ricorso per cassazione, anch’esso respinto dalla Suprema Corte. Il principio di diritto: la buona fede nell’esecuzione del contratto La questione centrale affrontata dalla Cassazione riguarda l’applicazione dell’articolo 1460, secondo comma, del codice civile al rapporto di lavoro subordinato. Questa norma stabilisce che la parte che non ha adempiuto o non ha offerto di adempiere per prima non può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione, salvo che il rifiuto risulti giustificato alla luce delle circostanze del caso concreto e del principio di buona fede. In termini più semplici, quando il datore di lavoro non rispetta i propri obblighi contrattuali, ad esempio disponendo un trasferimento illegittimo, il lavoratore potrebbe in teoria rifiutarsi di prestare servizio. Tuttavia, questo rifiuto non è automaticamente legittimo: deve essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze concrete e, soprattutto, deve risultare conforme al principio di buona fede che governa l’esecuzione dei contratti. La Cassazione ha confermato un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo quando tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede. Questo giudizio deve tenere conto sia dell’entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, sia della concreta incidenza di tale inadempimento su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore. L’onere di allegazione gravante sul lavoratore Un aspetto particolarmente significativo della pronuncia riguarda l’onere di allegazione che grava sul lavoratore che invochi ragioni familiari per rifiutare un trasferimento. La Corte d’Appello di Roma aveva rilevato che la lavoratrice si era limitata ad allegare generiche e non meglio precisate “oggettive ragioni familiari” nonché l’”impossibilità materiale di trasferirsi”, senza mai precisare le concrete ragioni ostative al trasferimento, ovvero quali fossero i motivi che le rendevano impossibile spostarsi in provincia di Potenza. La Suprema Corte ha condiviso questo ragionamento, sottolineando che spetta al giudice di merito valutare le circostanze del caso concreto per stabilire se il rifiuto del lavoratore sia sorretto da buona fede. Nel caso esaminato, la Corte territoriale aveva accertato che era documentato e incontestato che la società dal gennaio 2020 non avesse più alcuna sede in Roma, elemento che giustificava pienamente il trasferimento dal punto di vista delle esigenze organizzative aziendali. Di fronte a questa circostanza oggettiva, la lavoratrice avrebbe dovuto specificare in modo puntuale e concreto quali fossero le ragioni che le impedivano materialmente di trasferirsi. Il fatto di avere due figli piccoli, pur costituendo un dato rilevante, non è di per sé sufficiente a giustificare il rifiuto, se non accompagnato da una descrizione circostanziata degli ostacoli pratici insormontabili che il trasferimento avrebbe comportato. Le implicazioni pratiche della decisione Questa sentenza offre importanti indicazioni operative sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per i lavoratori che ricevano una comunicazione di trasferimento ritenuta illegittima o gravosa, la pronuncia chiarisce che non è sufficiente invocare generiche ragioni familiari o personali per giustificare il rifiuto di prestare servizio nella nuova sede. È invece necessario specificare in modo dettagliato e documentato quali siano le concrete circostanze ostative al trasferimento. Ad esempio, non basta affermare di avere figli piccoli: occorre dimostrare che il trasferimento comporterebbe conseguenze specifiche e gravi, come l’impossibilità di trovare soluzioni alternative per la loro cura, l’assenza di familiari o supporti nella nuova località, eventuali problemi di salute che richiedono assistenze mediche disponibili solo nella città di origine, e così via. Per i datori di lavoro, la decisione conferma che la legittimità del trasferimento va valutata principalmente in relazione alle esigenze organizzative aziendali. Se queste esigenze sono reali e documentate, come nel caso in cui la società non abbia più alcuna sede nella città di origine del lavoratore, il trasferimento appare giustificato. Tuttavia, il datore di lavoro prudente dovrebbe comunque valutare attentamente le eventuali ragioni ostative concrete rappresentate dal dipendente, per verificare se esistano soluzioni alternative che consentano di conciliare le esigenze aziendali con quelle personali del lavoratore. Sul piano processuale, la sentenza ricorda che la valutazione della buona fede nell’esecuzione del contratto spetta al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizi di motivazione. Questo significa che le parti devono prestare la massima attenzione a rappresentare compiutamente, già nel giudizio di primo grado, tutti gli elementi di fatto rilevanti per la valutazione della conformità o meno del proprio comportamento al canone di buona fede. Conclusioni La pronuncia della Cassazione n. 29341/2025 si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato che richiede un’attenta valutazione caso per caso della legittimità del rifiuto del lavoratore di prestare servizio nella nuova sede assegnatagli. Il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto