Indennità di accompagnamento: anche la “supervisione continua” dà diritto alla prestazione

La Cassazione chiarisce quando spetta l’indennità: nuova interpretazione sui requisiti della deambulazione assistita L’indennità di accompagnamento rappresenta un sostegno economico fondamentale per chi non è in grado di deambulare autonomamente o di compiere gli atti quotidiani della vita senza assistenza continua. Ma cosa si intende esattamente per “impossibilità di deambulare senza aiuto”? Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, ordinanza n. 28212/2025) offre un’interpretazione importante che amplia le tutele per i beneficiari. La pianificazione patrimoniale moderna richiede un approccio sistematico che vada oltre la semplice proprietà diretta dei beni, abbracciando invece strategie di controllo strategico e protezione strutturale. Attraverso l’analisi di cinque aspetti fondamentali spesso sottovalutati, emergerà come la gestione professionale del patrimonio familiare richieda competenze multidisciplinari e una visione d’insieme che sappia anticipare e gestire i rischi futuri. Il caso esaminato dalla Corte La vicenda processuale si è protratta per anni attraverso diversi gradi di giudizio. Un cittadino aveva richiesto il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, ma la sua domanda era stata inizialmente rigettata. Gli eredi, dopo la morte del ricorrente, hanno proseguito la battaglia legale fino alla Cassazione. Il punto centrale della controversia riguardava l’interpretazione delle condizioni cliniche documentate: le perizie mediche attestavano che il paziente necessitava di “supervisione continua” durante la deambulazione e di “aiuto” per l’elevato rischio di cadute. La deambulazione avveniva “con base allargata, con l’aiuto di appoggi e supervisione continua”. L’INPS e il giudice di merito avevano ritenuto che questa situazione non integrasse il requisito richiesto dalla legge, sostenendo che mancasse la “necessità dell’aiuto continuo di un accompagnatore durante la deambulazione”. In altre parole, secondo questa interpretazione restrittiva, la semplice supervisione non equivaleva all’assistenza fisica diretta. Il quadro normativo di riferimento L’indennità di accompagnamento è disciplinata dalla legge n. 18 del 1980 e successive modifiche (in particolare la legge n. 508 del 1988). L’articolo 1 della legge 18/1980 stabilisce che hanno diritto all’indennità “i mutilati ed invalidi civili totalmente inabili” che si trovano in una di queste due condizioni alternative: È sufficiente che si verifichi anche solo una delle due condizioni per avere diritto alla prestazione. La norma, quindi, non richiede che entrambi i requisiti siano contemporaneamente presenti. La decisione della Cassazione: un’interpretazione estensiva La Corte Suprema ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e affermando un principio interpretativo di grande rilevanza pratica. I giudici di legittimità hanno chiarito che la “necessità di supervisione continua” durante la deambulazione integra pienamente il requisito dell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore. L’argomentazione della Cassazione è lineare e convincente: la supervisione implica necessariamente che l’attività di deambulazione non possa essere compiuta in autonomia. Se è necessaria una presenza costante per evitare cadute o incidenti, significa che la persona non è in grado di muoversi da sola in sicurezza. La distinzione tra “supervisione” e “aiuto fisico diretto” viene quindi superata: entrambe le forme di assistenza rientrano nel concetto di “aiuto permanente” previsto dalla legge. La Corte ha inoltre sottolineato che tale necessità deve essere continua e non episodica, requisito che nel caso concreto era pienamente soddisfatto dalle risultanze mediche. Un aspetto importante chiarito dalla sentenza riguarda il rapporto tra i due requisiti alternativi previsti dalla legge. La Cassazione ha precisato che la residua autonomia funzionale del soggetto, valutata secondo parametri come la scala di Barthel (uno strumento standardizzato per misurare l’autonomia nelle attività quotidiane), non incide sulla valutazione del requisito della deambulazione assistita. Si tratta infatti di due presupposti distinti e alternativi: l’impossibilità di deambulare da un lato, l’impossibilità di compiere gli atti quotidiani dall’altro. La presenza di una parziale autonomia nelle attività quotidiane non esclude quindi il diritto all’indennità se sussiste l’impossibilità di deambulare senza assistenza. Le implicazioni pratiche della pronuncia Questa sentenza ha ricadute concrete importanti per diverse categorie di soggetti. Per i cittadini con disabilità motorie, la decisione rappresenta un’apertura significativa: non è più necessario dimostrare che si è completamente immobili o che si necessita di sostegno fisico diretto durante ogni spostamento. È sufficiente provare che, per la sicurezza della persona, è indispensabile la presenza costante di qualcuno che supervisioni i movimenti. Pensiamo, ad esempio, a una persona anziana con disturbi dell’equilibrio, a chi soffre di patologie neurologiche che comportano rischio di cadute improvvise, o a soggetti con deficit cognitivi che rendono pericolosa la deambulazione autonoma. In tutti questi casi, anche se tecnicamente la persona riesce a muovere qualche passo da sola, la necessità di supervisione continua per evitare incidenti integra il diritto all’indennità. Per i familiari e i caregiver, questa interpretazione riconosce il valore e la necessità dell’assistenza che quotidianamente prestano, anche quando questa non si traduce in un sostegno fisico diretto ma in una vigilanza costante e indispensabile. Dal punto di vista procedurale, la sentenza offre indicazioni importanti anche per la fase di accertamento sanitario. Le commissioni mediche e i consulenti tecnici d’ufficio dovranno prestare attenzione non solo alla capacità fisica di deambulazione, ma anche alla necessità di supervisione per garantire la sicurezza del soggetto. La documentazione clinica dovrà attestare non soltanto le difficoltà motorie in senso stretto, ma anche i rischi connessi alla deambulazione autonoma e la conseguente necessità di presenza assistenziale continua. Per gli avvocati e i professionisti del settore, questa pronuncia costituisce un precedente giurisprudenziale da richiamare nelle controversie previdenziali, specialmente quando l’INPS oppone un diniego basandosi su un’interpretazione restrittiva del requisito della deambulazione assistita. La sentenza della Cassazione n. 28212/2025 deve essere citata per sostenere che la supervisione continua equivale all’aiuto permanente richiesto dalla legge. È importante notare che la Corte ha cassato la sentenza di merito con rinvio, disponendo quindi che un altro giudice riesamini la questione alla luce dei principi affermati. Questo significa che il procedimento non è ancora concluso, ma l’orientamento interpretativo è ormai chiaramente fissato dalla Suprema Corte. Come far valere i propri diritti Se ti trovi in una situazione simile o hai ricevuto un diniego dall’INPS per l’indennità di accompagnamento nonostante tu necessiti di supervisione continua durante la deambulazione, è importante sapere che hai strumenti di tutela. Il primo passo è sempre verificare attentamente la motivazione del provvedimento di

Compensi professionali dell’avvocato: la Cassazione chiarisce i criteri di liquidazione tra attività stragiudiziale e giudiziale

La Suprema Corte definisce i confini applicativi del rito sommario per i compensi forensi e ribadisce i principi di interpretazione contrattuale nella determinazione degli onorari Una recente pronuncia della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, affrontando questioni cruciali che riguardano tanto i professionisti legali quanto i loro assistiti. La decisione interviene su temi di grande rilevanza pratica, quali l’ambito di applicazione del procedimento sommario previsto per le controversie sui compensi, i criteri di interpretazione degli accordi tra avvocato e cliente, e le regole per la determinazione delle maggiorazioni tariffarie in presenza di pluralità di controparti. La vicenda processuale trae origine da una richiesta di pagamento di compensi professionali avanzata da un avvocato nei confronti del proprio assistito, un ingegnere, per l’attività svolta sia in fase stragiudiziale sia nel corso di un complesso giudizio civile relativo a una successione ereditaria. L’importo richiesto ammontava complessivamente a circa duecentodiciassettemila euro, di cui circa novantacinquemila per l’attività stragiudiziale e circa cinquantaquattromila per quella giudiziale. Il professionista aveva assistito il cliente inizialmente in una fase negoziale e successivamente in un procedimento giudiziario conclusosi con una transazione dopo un tentativo di mediazione. Le parti avevano stipulato un primo accordo nel novembre duemilanove, prevedendo che il compenso sarebbe stato determinato secondo le tariffe forensi vigenti all’epoca. Con una successiva scrittura del maggio duemiladodici, avevano precisato che gli onorari sarebbero stati applicati nella misura massima prevista dal decreto ministeriale. Tuttavia, il cliente aveva corrisposto al professionista soltanto un acconto di diecimila euro, senza poi saldare il residuo nonostante le reiterate richieste. Il Tribunale di Milano, investito della controversia attraverso un procedimento per decreto ingiuntivo, aveva accolto solo parzialmente le richieste del professionista, riconoscendo compensi per circa ventottomila euro relativi esclusivamente all’attività giudiziale, rigettando invece integralmente la domanda concernente l’attività stragiudiziale. Questa decisione aveva spinto l’avvocato a proporre ricorso per cassazione, articolato su quattro distinti motivi di censura. Il procedimento sommario e i compensi stragiudiziali Il primo nucleo tematico affrontato dalla Suprema Corte riguarda l’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione previsto dall’articolo quattordici del decreto legislativo centocinquanta del duemilaundici per le controversie relative ai compensi professionali forensi. Il ricorrente sosteneva che anche le prestazioni stragiudiziali potessero essere richieste mediante tale rito speciale, in quanto strettamente connesse all’attività giudiziaria successivamente svolta per il medesimo cliente e con finalità unitarie. La Corte ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il procedimento sommario contemplato dalla norma si applica esclusivamente ai giudizi concernenti la liquidazione di compensi per prestazioni giudiziali rese in materia civile, potendosi estendere alle attività stragiudiziali soltanto quando queste risultino strettamente correlate alle prime. Il discrimine fondamentale risiede nel carattere di autonomia o di complementarietà dell’attività stragiudiziale rispetto a quella propriamente processuale. Nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che il Tribunale milanese avesse correttamente accertato il carattere autonomo delle prestazioni stragiudiziali rispetto all’attività giudiziaria successiva. Tale valutazione, fondata sull’esame delle concrete modalità di svolgimento del mandato professionale, appartiene al merito della controversia e non può essere rimessa in discussione in sede di legittimità se adeguatamente motivata. Il giudice di merito aveva infatti rilevato che le attività stragiudiziali svolte tra il duemilanove e il duemiladodici presentavano una propria fisionomia distinta, non configurandosi come mera preparazione o complemento necessario dell’azione giudiziaria intrapresa successivamente. Questo principio assume particolare rilievo pratico per i professionisti legali, poiché impone una valutazione attenta della natura delle prestazioni rese prima di scegliere lo strumento processuale attraverso cui far valere le proprie ragioni creditorie. L’utilizzo improprio del rito sommario per prestazioni stragiudiziali autonome può infatti esporre al rischio di un rigetto in rito della domanda, con conseguente necessità di instaurare un nuovo giudizio secondo le forme ordinarie. L’interpretazione degli accordi sul compenso professionale Il secondo aspetto di grande interesse riguarda l’applicazione dei principi di interpretazione contrattuale agli accordi intercorsi tra avvocato e cliente in ordine alla determinazione del compenso. Il caso presentava la peculiarità che le parti avevano formalizzato la propria intesa attraverso due distinti documenti scritti, redatti a distanza di tempo l’uno dall’altro. La Cassazione ha accolto la censura del ricorrente su questo punto, richiamando il fondamentale principio stabilito dall’articolo milletrecentosessantatré del codice civile. Tale norma impone al giudice, quando una medesima vicenda negoziale e i relativi effetti abbiano formato oggetto di più atti scritti, di esaminarli tutti congiuntamente per stabilire il rapporto intercorrente tra le varie clausole e documenti. Occorre cioè verificare se le pattuizioni successive costituiscano un chiarimento, un’integrazione, una modificazione, una trasformazione oppure un annullamento delle precedenti convenzioni. Il Tribunale di primo grado aveva invece compiuto un errore metodologico, concentrando la propria analisi esclusivamente sulla scrittura del maggio duemiladodici e deducendone che il professionista non avesse diritto ad alcun compenso oltre ai soli onorari. Tale approccio risultava viziato perché non prendeva in considerazione l’originario accordo del novembre duemilanove, che aveva costituito la base iniziale del rapporto professionale e nel quale erano stati definiti i criteri generali di determinazione del compenso. La corretta metodologia interpretativa avrebbe richiesto un esame sistematico di entrambi i documenti, per verificare se la seconda scrittura intendesse effettivamente escludere i diritti precedentemente riconosciuti oppure se si limitasse a specificare la misura degli onorari senza incidere sulle altre componenti del compenso previste dalla tariffa professionale vigente. In particolare, il ricorrente sosteneva che la precisazione relativa all’applicazione degli onorari nella misura massima non implicasse necessariamente la rinuncia ai cosiddetti diritti, che costituivano una voce distinta e autonoma della parcella professionale, caratterizzata da importi fissi e inderogabili secondo la disciplina tariffaria dell’epoca. Questo aspetto della pronuncia riveste notevole importanza pratica perché evidenzia come la formazione progressiva degli accordi professionali richieda particolare attenzione nella redazione dei documenti successivi, che devono chiarire in modo inequivocabile se intendano sostituire integralmente le precedenti pattuizioni oppure semplicemente integrarle o specificarle. Per il professionista, ciò comporta la necessità di prestare massima cura nella formulazione delle scritture integrative, evitando ambiguità che possano successivamente essere interpretate in senso sfavorevole. Per il cliente, emerge l’importanza di verificare che ogni modifica degli accordi originari venga espressa in termini chiari e

Morso del Cane: Quando il Proprietario Risponde Sempre (O Quasi)

Una recente sentenza del Tribunale di Roma ribadisce la natura oggettiva della responsabilità ex art. 2052 c.c. e i limiti ristretti per l’esenzione Il proprietario di un cane che aggredisce un passante deve risarcire i danni, anche se l’animale era affidato a un familiare e anche se ha adottato tutte le precauzioni possibili. È quanto emerge dalla sentenza n. 12916/2025 del Tribunale di Roma, pubblicata lo scorso 22 settembre, che offre l’occasione per fare chiarezza su un tema che tocca da vicino moltissimi cittadini: la responsabilità civile per i danni causati dagli animali domestici. Il caso: un’aggressione nel parco cittadino La vicenda trae origine da un episodio apparentemente ordinario ma dalle conseguenze dolorose. Una donna, mentre passeggiava con il proprio cagnolino al guinzaglio in un parco pubblico, veniva aggredita da un pastore tedesco lasciato libero di correre senza museruola. L’animale, condotto in quel momento dalla figlia minorenne della proprietaria, si avventava sulla donna mordendola al fianco destro e causandole lesioni che richiedevano l’intervento del Pronto Soccorso, con una prognosi iniziale di dieci giorni. La danneggiata decideva quindi di agire in giudizio nei confronti della proprietaria del cane, chiedendo il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, quantificati complessivamente in oltre dodicimila euro. La convenuta, tuttavia, sceglieva di non costituirsi in giudizio, rimanendo contumace per l’intero corso del processo. Il fondamento giuridico: l’art. 2052 c.c. e la responsabilità oggettiva Il Tribunale capitolino ha fondato la propria decisione sull’applicazione dell’art. 2052 c.c., norma cardine in materia di responsabilità per danni cagionati da animali. Tale disposizione stabilisce che il proprietario di un animale, o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale stesso, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito. Come chiarito da consolidata giurisprudenza di legittimità, citata puntualmente nella sentenza in commento (Cass. civ., Sez. III, n. 10402/2016; Cass. civ., Sez. III, n. 17091/2014; Cass. civ., Sez. III, n. 15895/2011), questa forma di responsabilità presenta carattere oggettivo. Ciò significa che non si fonda su un comportamento colposo del proprietario o del custode, né su una condotta commissiva o omissiva specifica, ma esclusivamente sulla relazione intercorrente tra il soggetto responsabile e l’animale, unitamente al nesso causale tra il comportamento dell’animale e l’evento dannoso. La ratio della norma risiede nell’esigenza di tutelare i terzi dai rischi connessi alla detenzione di animali, attribuendo al proprietario o custode un dovere qualificato di controllo e vigilanza. Tale dovere non si esaurisce nella comune diligenza, ma impone un’effettiva disponibilità giuridica e materiale sull’animale, con il correlato potere-dovere di intervento per controllarlo, evitare situazioni di pericolo e impedire che produca danni. La prova liberatoria: il caso fortuito e i suoi requisiti stringenti Il Tribunale di Roma ha ribadito con fermezza che l’unica causa di esonero dalla responsabilità è rappresentata dal caso fortuito. Ma cosa si intende esattamente per caso fortuito in questo contesto? La giurisprudenza ha elaborato criteri rigorosi: deve trattarsi di un fattore esterno, estraneo alla sfera soggettiva del convenuto, che presenti congiuntamente i caratteri dell’imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità, risultando idoneo a interrompere il nesso causale tra l’animale e il danno. Non è sufficiente, dunque, dimostrare di aver tenuto l’animale al guinzaglio, di averlo affidato a persona capace, di aver adottato tutte le precauzioni normalmente richieste. Occorre provare l’intervento di un evento del tutto imprevedibile ed eccezionale che abbia reso inevitabile il danno nonostante ogni possibile precauzione. Nel caso deciso dal Tribunale romano, la proprietaria non ha fornito alcuna prova in tal senso, rimanendo contumace, ma il giudice ha escluso che potesse comunque configurarsi un caso fortuito sulla base dei fatti accertati. Elemento significativo è che la responsabilità del proprietario sussiste anche quando l’animale è affidato alla vigilanza di un terzo. Nel caso di specie, il pastore tedesco era condotto dalla figlia minorenne della proprietaria, ma ciò non ha esonerato quest’ultima dalla responsabilità. Il principio è chiaro: chi detiene la proprietà o il possesso dell’animale mantiene la responsabilità per i danni da esso cagionati, indipendentemente da chi materialmente lo accudisce o lo porta a passeggio in quel momento specifico. La ripartizione dell’onere probatorio La sentenza offre anche utili indicazioni sulla distribuzione degli oneri probatori tra le parti. Grava sul danneggiato l’onere di provare tre elementi: l’esistenza del rapporto di proprietà o custodia tra il convenuto e l’animale, il nesso causale tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, e l’entità del danno subito. Nel caso esaminato, la danneggiata ha assolto pienamente a tale onere mediante la produzione del certificato di proprietà dell’animale dall’anagrafe canina, le testimonianze di chi aveva assistito all’aggressione e la consulenza tecnica d’ufficio che ha accertato il nesso causale tra le lesioni e il morso del cane. Sul convenuto, invece, grava l’eventuale onere di provare il caso fortuito quale causa interruttiva del nesso causale. Si tratta di un onere particolarmente gravoso, data la natura oggettiva della responsabilità e i requisiti stringenti richiesti per la configurazione del caso fortuito. La liquidazione del danno: criteri e parametri applicati Accertata la responsabilità, il Tribunale ha proceduto alla quantificazione del danno avvalendosi della consulenza tecnica d’ufficio medico-legale. Il consulente ha accertato che la danneggiata aveva riportato una ferita lacero-contusa al fianco destro, con esito cicatriziale permanente, configurante un lieve pregiudizio fisiognomico. Il danno biologico permanente è stato quantificato nella misura del 3,5%, con un’invalidità temporanea assoluta di dieci giorni e successiva invalidità temporanea parziale al 50% per ulteriori dieci giorni. Per la liquidazione, il giudice ha fatto riferimento alle tabelle in uso presso il Tribunale di Roma, aggiornate al 2025, riconoscendo alla danneggiata la somma di euro 4.610,50 per l’invalidità permanente ed euro 1.953,75 per l’inabilità temporanea, per un totale di danno biologico pari a euro 6.564,25. A tale importo è stato aggiunto il danno morale, liquidato equitativamente in euro 500,00 in considerazione del dolore, del disagio e delle sofferenze patite, nonché le spese mediche documentate pari a euro 27,48. Significativo è il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n.

Danno Morale e Danno Biologico: la Cassazione ricorda la distinzione che non va dimenticata

Quando il risarcimento per lesioni personali è incompleto: importante pronuncia della Suprema Corte sulla necessaria liquidazione autonoma della sofferenza soggettiva oltre al danno biologico Con l’ordinanza n. 27102 del 9 ottobre 2025, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è intervenuta su una questione tecnica ma di grande rilevanza pratica nell’ambito del risarcimento dei danni alla persona: la necessità di liquidare separatamente tutte le componenti del danno non patrimoniale, compreso il danno morale inteso come sofferenza soggettiva e dolore patito dalla vittima. La pronuncia rappresenta un importante richiamo ai giudici di merito affinché non omettano, nell’operare la liquidazione equitativa dei danni, di considerare e quantificare autonomamente anche la componente morale del pregiudizio subito. La vicenda processuale e il contesto fattuale La controversia trae origine da un sinistro stradale avvenuto in una giornata di pioggia battente del giugno 2013. Una pedona, mentre attraversava una strada comunale nei pressi di una scuola dell’infanzia, veniva investita da un furgone. L’impatto, violento, la proiettava a terra causandole lesioni che richiedevano il ricovero ospedaliero e determinavano postumi permanenti quantificati nella misura dell’11-12% di invalidità. La vittima agiva quindi in giudizio contro il conducente del veicolo e la sua compagnia assicuratrice, chiedendo il risarcimento integrale dei danni subiti. Il giudizio di primo grado si concludeva con esito sfavorevole per la danneggiata. Il Tribunale, infatti, riteneva provata la sua esclusiva responsabilità per non aver utilizzato correttamente le strisce pedonali nell’attraversamento della carreggiata, rigettando quindi la domanda risarcitoria. La sentenza veniva però riformata in appello dalla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado di Venezia, che riconosceva un concorso di colpa tra pedona e conducente, attribuendo alla prima una responsabilità del settanta per cento e al secondo del trenta per cento. La Corte territoriale fondava questo riparto sulla considerazione che, da un lato, la pedona aveva effettivamente attraversato la strada al di fuori delle strisce pedonali, ma dall’altro il conducente viaggiava a una velocità che, sebbene ridotta, non era adeguata alle condizioni meteorologiche avverse e alla presenza di una scuola nelle immediate vicinanze. Applicando quindi le percentuali di concorso di colpa e utilizzando le Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione equitativa, la Corte d’Appello condannava il conducente e la compagnia assicuratrice al pagamento della somma di euro 2.477,35, già comprensiva delle spese mediche sostenute e già ridotta in ragione del settanta per cento di responsabilità della danneggiata. Contro questa sentenza la pedona proponeva ricorso per cassazione articolando ben sette motivi di impugnazione. La struttura del ricorso e le questioni sottoposte alla Suprema Corte Il ricorso per cassazione si componeva di due gruppi distinti di censure. I primi quattro motivi contestavano l’accertamento della responsabilità civile e il riparto di colpa operato dalla Corte d’Appello, lamentando vizi di motivazione e violazioni di legge in relazione alla ricostruzione della dinamica del sinistro, all’applicazione degli artt. 2043 e 2054 c.c. in tema di responsabilità civile e circolazione stradale, nonché dell’art. 1227 c.c. sul concorso del fatto colposo del danneggiato. Gli ultimi tre motivi riguardavano invece la quantificazione del danno, contestando la determinazione dell’invalidità permanente, l’omessa liquidazione del danno morale e la mancata rifusione delle spese di consulenza tecnica di parte sostenute in primo grado. La Suprema Corte ha respinto o dichiarato inammissibili le censure relative alla responsabilità civile, confermando sostanzialmente l’impianto motivazionale della sentenza d’appello. In particolare, quanto al primo motivo che lamentava la carenza o apparenza della motivazione sulla ricostruzione dinamica del sinistro, i giudici di legittimità hanno ricordato il principio consolidato secondo cui il sindacato sulla motivazione della sentenza impugnata resta circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., senza che sia necessario esaminare le risultanze processuali. La Corte d’Appello aveva infatti richiamato puntualmente la documentazione prodotta, le dichiarazioni testimoniali, il verbale delle autorità intervenute e gli elaborati fotografici, fornendo quindi una motivazione non apparente e costituzionalmente adeguata. Per quanto riguarda i motivi secondo, terzo e quarto, tutti relativi all’accertamento della responsabilità e al concorso di colpa, la Cassazione li ha dichiarati inammissibili rilevando che, al di là dei vizi di legge formalmente evocati, essi mascheravano nella sostanza una richiesta di riesame del merito e della ricostruzione fattuale operata dai giudici di appello. Tale rivalutazione del giudizio di fatto sull’attribuzione di responsabilità e sulla comparazione delle condotte costituisce profilo estraneo al sindacato di legittimità, che non può sostituirsi alla valutazione delle prove compiuta dai giudici del merito. Il cuore della decisione: l’omessa liquidazione del danno morale Il punto decisivo della pronuncia riguarda il sesto motivo di ricorso, con il quale la ricorrente denunciava, in via principale, la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno morale inteso come dolore e sofferenza soggettiva. In via subordinata, qualora la Cassazione avesse ritenuto che la sentenza d’appello contenesse implicitamente un rigetto di tale domanda, veniva lamentata la nullità della sentenza per violazione dell’obbligo di motivazione previsto dagli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 111, comma 6, Cost. La Suprema Corte ha accolto questa censura, rilevando che la Corte d’Appello aveva effettivamente omesso di pronunciarsi sulla specifica richiesta di ristoro del danno morale quale componente autonoma del danno non patrimoniale. Per comprendere la fondatezza del motivo occorre analizzare nel dettaglio come la Corte territoriale aveva operato la liquidazione del danno. La sentenza impugnata, dopo aver determinato l’invalidità permanente nella misura dell’undici per cento, aveva applicato le Tabelle del Tribunale di Milano edizione 2021. Considerando l’età della danneggiata al momento del sinistro (trent’anni) e la percentuale di invalidità accertata, la Corte aveva liquidato a titolo di danno non patrimoniale permanente la somma di euro 22.112,00, alla quale aveva poi aggiunto le somme relative all’invalidità temporanea totale e parziale e le spese mediche, giungendo a un totale di euro 35.154,50, poi ridotto in ragione del settanta per cento di concorso di colpa della vittima. Il problema rilevato dalla Cassazione risiede nel fatto che le Tabelle Milanesi, correttamente richiamate e applicate dalla Corte d’Appello, prevedono per un soggetto di trent’anni con invalidità permanente dell’undici per cento un

Autovelox non omologati: la Cassazione conferma l’illegittimità delle multe

La Suprema Corte ribadisce che la sola approvazione ministeriale non equivale all’omologazione richiesta per legge: un orientamento ormai consolidato che tutela gli automobilisti Con l’ordinanza n. 26521 del 1° ottobre 2025, la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su una questione di rilevante portata pratica per milioni di automobilisti italiani: la validità delle sanzioni per eccesso di velocità rilevate mediante dispositivi autovelox che, pur essendo stati approvati dal Ministero competente, non hanno ricevuto la necessaria omologazione ministeriale. La vicenda processuale trae origine da una multa elevata per violazione dei limiti di velocità. Un automobilista era stato sanzionato per aver percorso una strada statale alla velocità di 88,40 chilometri orari, superando il limite consentito di 70 chilometri orari. L’accertamento era avvenuto mediante un’apparecchiatura elettronica VELOCAR RED & SPEED installata in postazione fissa, dispositivo che risultava approvato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ma privo della prescritta omologazione. Dopo aver perso sia in primo grado davanti al Giudice di Pace sia in appello presso il Tribunale, l’automobilista ha deciso di adire la Corte di Cassazione, sollevando una questione di diritto fondamentale: può un’apparecchiatura autovelox semplicemente approvata, ma non omologata, costituire fonte di prova legittima per l’accertamento di una violazione del codice della strada? Il quadro normativo di riferimento è chiaramente delineato dall’art. 142, comma 6, del decreto legislativo n. 285 del 1992 (Codice della Strada), il quale stabilisce che per determinare l’osservanza dei limiti di velocità possono essere utilizzate solo “apparecchiature debitamente omologate”, le cui risultanze costituiscono “fonti di prova”. La norma utilizza un’espressione inequivocabile che non lascia spazio a interpretazioni estensive o analogiche: solo gli strumenti debitamente omologati possono fornire dati probatori validi in giudizio. A completamento del quadro normativo interviene l’art. 192 del d.P.R. n. 495 del 1992 (Regolamento di esecuzione del Codice della Strada), che disciplina i controlli e le omologazioni in attuazione della norma programmatica contenuta nell’art. 45, comma 6, del Codice della Strada. Quest’ultima disposizione regolamentare distingue con precisione le attività e le funzioni dei procedimenti di approvazione da quelli di omologazione, attribuendo a ciascuno di essi effetti giuridici differenti. In particolare, il secondo comma dell’art. 192 del regolamento prevede che l’Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale accerti, anche mediante prove e avvalendosi del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, la rispondenza e l’efficacia dell’oggetto per il quale si richiede l’omologazione alle prescrizioni stabilite dal regolamento stesso, procedendo all’omologazione del prototipo solo quando gli accertamenti abbiano dato esito favorevole. Il terzo comma della medesima disposizione stabilisce invece che, quando si tratta di richieste relative a elementi per i quali il regolamento non stabilisce caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni, il Ministero approva il prototipo seguendo, per quanto possibile, la procedura prevista per l’omologazione. Da questa articolata disciplina emerge con evidenza che il procedimento di approvazione costituisce un passaggio propedeutico, dotato di una propria autonomia funzionale, rispetto alla successiva e distinta attività di omologazione. Si tratta, in sostanza, di due fasi procedimentali caratterizzate da presupposti, modalità e finalità differenti, che non possono essere considerate equivalenti sul piano giuridico. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha accolto il ricorso dell’automobilista e cassato la sentenza del Tribunale che aveva invece ritenuto sufficiente la sola approvazione ministeriale. Nel motivare la decisione, il Collegio ha richiamato un orientamento giurisprudenziale che, sebbene relativamente recente nella sua prima formulazione, si è rapidamente consolidato attraverso una serie di pronunce successive. L’orientamento ha preso avvio con l’ordinanza n. 10505 del 18 aprile 2024, nella quale la Suprema Corte ha affermato per la prima volta il principio secondo cui, in tema di violazioni del codice della strada per superamento dei limiti di velocità, è illegittimo l’accertamento eseguito con apparecchio autovelox approvato ma non debitamente omologato, atteso che la preventiva approvazione dello strumento di rilevazione elettronica della velocità non può ritenersi equipollente, sul piano giuridico, all’omologazione ministeriale prescritta dalla legge. Tale statuizione è stata successivamente ribadita con una serie di decisioni che hanno conferito all’orientamento carattere di indirizzo consolidato. La Corte richiama espressamente le ordinanze n. 20913 del 2024, n. 2857 del 2025, n. 12924 del 2025 e n. 13966 del 26 maggio 2025, dimostrando come la giurisprudenza di legittimità abbia ormai raggiunto una posizione univoca e stabile sulla questione. Il ragionamento della Corte si fonda su una lettura sistematica e letterale delle norme applicabili. Il Collegio evidenzia come l’espressione “debitamente omologate” contenuta nell’art. 142, comma 6, del Codice della Strada imponga necessariamente la preventiva sottoposizione del mezzo di rilevamento elettronico alla procedura di omologazione, procedura che, solo se positivamente conclusa, rende lo strumento idoneo a costituire fonte di prova per il riscontro del superamento dei limiti di velocità. La Cassazione richiama inoltre il principio interpretativo dell’in claris non fit interpretatio, sottolineando come la chiarezza letterale della norma non consenta operazioni ermeneutiche volte a equiparare l’approvazione all’omologazione. L’art. 45, comma 6, del Codice della Strada, ove si pone riferimento ai mezzi tecnici atti all’accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni, distingue nettamente i due termini, riferendosi a una pluralità di dispositivi, alcuni dei quali destinati a essere necessariamente omologati e altri per i quali risulta sufficiente la semplice approvazione. Tra i dispositivi per i quali l’omologazione costituisce requisito inderogabile rientrano certamente gli strumenti di rilevazione della velocità, in considerazione del chiaro precetto normativo contenuto nell’art. 142, comma 6, del Codice della Strada. Per altri mezzi tecnici di accertamento automatico delle violazioni, invece, può risultare sufficiente la sola approvazione ministeriale. La distinzione normativa risponde a logiche di proporzionalità e ragionevolezza, riservando il procedimento più rigoroso dell’omologazione agli strumenti che incidono maggiormente sulla libertà di circolazione e sui diritti degli automobilisti. Le implicazioni pratiche di questo orientamento giurisprudenziale sono di notevole rilievo e riguardano potenzialmente un numero elevato di sanzioni amministrative già irrogate o in corso di contestazione. Gli automobilisti che abbiano ricevuto verbali di accertamento per eccesso di velocità rilevato mediante dispositivi autovelox solamente approvati, ma non omologati, possono infatti contestare la legittimità della sanzione sia in sede di opposizione amministrativa sia attraverso il ricorso giurisdizionale al Giudice

Cinture di sicurezza non allacciate: quando il passeggero concorre alla propria lesione

La Cassazione chiarisce i limiti della responsabilità del conducente in caso di mancato uso dei dispositivi di protezione da parte del trasportato La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23691/2021 pubblicata il 3 ottobre 2025, torna a pronunciarsi su una questione di rilevante interesse pratico: quali conseguenze comporta il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza da parte del passeggero ai fini della responsabilità risarcitoria dopo un incidente stradale? La risposta della Terza Sezione Civile offre importanti indicazioni per comprendere come vengono ripartite le responsabilità quando il danneggiato ha omesso di adottare le basilari misure di autoprotezione previste dal Codice della Strada. La vicenda trae origine da un sinistro stradale avvenuto il 14 ottobre 2009, nel quale un passeggero trasportato su un veicolo ha riportato gravi lesioni personali in seguito a una collisione. Il danneggiato ha quindi agito in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti, lamentando di aver riportato lesioni consistite in trauma cranico, frattura delle ossa nasali, trauma distorsivo alla caviglia e distrazione delle rachidi cervicale. Il dato centrale della controversia, tuttavia, non riguardava tanto la dinamica del sinistro quanto un elemento apparentemente secondario ma di fondamentale importanza: al momento dell’impatto, il passeggero non indossava la cintura di sicurezza. Il primo giudice aveva respinto la domanda risarcitoria, mentre la Corte d’Appello di Roma, chiamata a riesaminare la questione, ha invece operato una diversa valutazione, riconoscendo che i comportamenti negligenti di entrambi i conducenti dovessero trovare spazio nella dinamica complessiva dell’evento dannoso. Il giudice di secondo grado ha quindi ritenuto che la responsabilità della collisione dovesse essere ripartita nella misura del cinquanta per cento tra i due veicoli coinvolti, pur rilevando che la causa unica ed esclusiva delle lesioni patite dal passeggero andasse ascritta al mancato uso della cintura di sicurezza da parte dello stesso. Avverso questa decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su cinque motivi. La Suprema Corte ha dichiarato infondati i primi quattro motivi, che denunciavano violazioni procedurali e di merito relative all’omessa consulenza tecnica d’ufficio, all’individuazione delle lesioni e al rigetto della domanda risarcitoria nonostante il concorso di colpa riconosciuto. Su questi aspetti, la Cassazione ha ribadito alcuni principi consolidati. In primo luogo, ha chiarito che il giudice di merito non è vincolato alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio quando si tratta di risolvere questioni di natura tecnica o scientifica. Il principio del “iudex peritus peritorum”, sancito dalla giurisprudenza costante della Corte, comporta che il giudice possa ricorrere alle conoscenze specialistiche acquisite attraverso studi o ricerche personali, oppure esaminando direttamente la documentazione su cui si basa la relazione del consulente tecnico, per poi eventualmente disattenderne le argomentazioni o sostituirle con proprie diverse valutazioni. Ciò che rileva è che tale operazione sia supportata da motivazioni adeguate e non contraddittorie. Quanto alla questione della compatibilità tra le lesioni riportate e il mancato uso delle cinture di sicurezza, la Corte ha rilevato che costituisce circostanza di notoria comune conoscenza il fatto che un soggetto presente sul sedile anteriore di un autoveicolo possa essere gravato da lesioni al setto nasale anche quando non ha allacciato la cintura di sicurezza. Il giudice d’appello aveva quindi correttamente escluso che le lesioni si sarebbero comunque prodotte anche in presenza di un regolare allaccio della cintura. Il cuore della decisione riguarda però il quinto motivo di ricorso, che la Cassazione ha accolto. Il ricorrente lamentava che la Corte d’Appello avesse rigettato la domanda risarcitoria nonostante avesse riconosciuto un concorso di colpa del trasportato solo minoritario, negando integralmente il risarcimento in un contesto in cui la compagnia assicuratrice aveva richiesto la concorsualità. La censura è stata ritenuta fondata. La Suprema Corte ha richiamato la propria consolidata giurisprudenza secondo cui, qualora la messa in circolazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza sia ricollegabile all’azione o omissione non solo del trasportato ma anche del conducente, il quale prima di iniziare o proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformità delle norme di prudenza e sicurezza, si verifica un’ipotesi di cooperazione nel fatto colposo. In particolare, quando tra i soggetti coinvolti si è formato il consenso alla circolazione medesima con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell’altro e accettazione dei relativi rischi, emerge una cooperazione nell’azione produttiva dell’evento dannoso. Solo in tale situazione può ritenersi risarcibile, a carico del conducente del veicolo antagonista, la responsabilità verso terzi ex art. 2054 cod. civ., tenuto conto che il comportamento del passeggero nell’ambito della cooperazione ipotizzata non può valere a interrompere il nesso causale tra la condotta del conducente e il danno, né a integrare un valido consenso alla lesione ricevuta. La giurisprudenza costante ha chiarito che il pregiudizio all’integrità fisica subito dal trasportato in conseguenza dell’incidente non può valere a interrompere il nesso causale fra la condotta del conducente ed il danno, né ad integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili, come già affermato da Cass. Sez. 3, ord. n. 11095 del 2020. Diversa è però la fattispecie in esame, nella quale la pretesa risarcitoria si indirizza esclusivamente nei confronti del proprietario e conducente del veicolo antagonista, unico convenuto in giudizio. In questo caso, la condotta colposa ascritta al danneggiato e consistente nel mancato uso della cintura di sicurezza, condotta alla quale il convenuto è rimasto per definizione estraneo, può esaurire l’intera efficienza causale del danno subito, a condizione che sia dimostrato in base a un accertamento di fatto non sindacabile in questa sede che l’impiego di tale strumento di protezione avrebbe neutralizzato le conseguenze del sinistro. Assumendo che, sulla base della consolidata giurisprudenza richiamata dalla stessa Corte, il mancato uso della cintura di sicurezza qualora accertato e dimostrato dal vettore o dalla sua compagnia non possa considerarsi concausa delle lesioni subite, ma può dare adito a un concorso di colpa minoritario del danneggiato, la Cassazione ha censurato la decisione del giudice d’appello. Quest’ultimo aveva riconosciuto una corresponsabilità di chi ha causato il sinistro nella misura dell’ottanta per cento e del settantacinque per cento, ponendo quindi la residuale quota minoritaria a carico del trasportato per via della propria negligenza

Responsabilità stradale della P.A.: quando il comportamento del danneggiato esclude il risarcimento

La Cassazione chiarisce i confini tra responsabilità dell’ente pubblico e colpa del conducente negli incidenti stradali Un recente pronunciamento della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sui criteri per stabilire la responsabilità della pubblica amministrazione negli incidenti stradali, evidenziando come il comportamento del danneggiato possa assumere rilevanza esclusiva nel determinare l’evento lesivo. La vicenda nasce da un sinistro motociclistico avvenuto nel 2007, quando un conducente perde il controllo del mezzo sostenendo di essere scivolato su pietrisco presente sulla carreggiata. Dopo aver ottenuto ragione in primo grado contro l’ente proprietario della strada, la situazione si ribalta completamente in appello e la Cassazione conferma definitivamente l’esclusione di ogni responsabilità pubblica. I principi consolidati sulla responsabilità stradale La Terza Sezione Civile della Suprema Corte riafferma con questa ordinanza alcuni principi fondamentali che governano la responsabilità degli enti pubblici per i danni derivanti dalle condizioni delle strade. In base all’articolo 2043 del Codice Civile, la pubblica amministrazione risponde dei danni solo quando sussiste un’effettiva situazione di pericolo occulto o di insidia non prevedibile né evitabile con l’ordinaria diligenza. Nel caso esaminato, la Corte d’appello aveva accertato che il tratto stradale interessato dal sinistro era adeguatamente segnalato, il sinistro era avvenuto in pieno giorno su un tratto rettilineo e ampio, e l’eventuale presenza di pietrisco sarebbe stata visibile e superabile utilizzando la normale prudenza nella guida. La responsabilità oggettiva ex articolo 2051: evoluzione giurisprudenziale Particolarmente significativo risulta il richiamo che la Cassazione fa alla propria giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità per danni da cose in custodia. La Corte ribadisce che questa forma di responsabilità, pur avendo natura oggettiva, può essere esclusa non solo dalla prova del caso fortuito, ma anche dalla dimostrazione della rilevanza causale esclusiva o concorrente della condotta del danneggiato. L’orientamento giurisprudenziale, cristallizzato dall’ordinanza numero 2482 del 2018 e successivamente confermato anche dalle Sezioni Unite, stabilisce un criterio di proporzionalità inversa: quanto più la situazione di pericolo è prevedibile e superabile attraverso l’adozione delle normali cautele, tanto maggiore diventa l’incidenza causale del comportamento imprudente del danneggiato nel determinare l’evento lesivo. Le implicazioni pratiche per cittadini e professionisti Questa pronuncia fornisce indicazioni preziose per chiunque si trovi coinvolto in sinistri stradali che possano coinvolgere la responsabilità di enti pubblici. La decisione della Cassazione dimostra che non è sufficiente dimostrare la presenza di un pericolo sulla strada per ottenere il risarcimento: occorre provare che tale pericolo costituisse un’insidia effettivamente occulta e non superabile con l’ordinaria diligenza. Per i danneggiati, questo significa che sarà fondamentale documentare accuratamente le circostanze del sinistro, dimostrando l’imprevedibilità e la non evitabilità del pericolo. Dal lato degli enti pubblici, la sentenza conferma l’importanza di mantenere un’adeguata segnaletica stradale e di poter documentare lo stato manutentivo delle infrastrutture. I criteri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità impongono inoltre una valutazione attenta del comportamento tenuto dal conducente al momento del sinistro. Elementi come l’orario, le condizioni di visibilità, la velocità, l’attenzione prestata alla guida e l’adozione delle normali precauzioni possono risultare determinanti per l’esito della controversia. Aspetti processuali e probatori rilevanti La pronuncia offre anche spunti significativi sul piano processuale. La Cassazione ribadisce che il giudice del merito non è tenuto a esaminare ogni singolo elemento probatorio acquisito al processo, purché esponga in maniera logicamente adeguata gli elementi posti a fondamento della decisione. Questo principio risulta particolarmente importante nelle controversie complesse dove sono numerose le testimonianze e le consulenze tecniche. Inoltre, viene chiarito definitivamente che l’omesso esame di singole risultanze probatorie non integra il vizio di omesso esame di fatto decisivo previsto dall’articolo 360 numero 5 del Codice di Procedura Civile, quando il giudice abbia comunque considerato e valutato il fatto storico rilevante per la decisione. Orientamenti futuri e consolidamento giurisprudenziale La decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai consolidato che tende a responsabilizzare maggiormente i conducenti nella valutazione dei rischi stradali. L’approccio della Cassazione valorizza il principio di solidarietà costituzionale che impone a ciascun soggetto l’adozione di ragionevoli cautele per evitare danni a sé stesso e agli altri. Questo orientamento appare destinato a influenzare significativamente la giurisprudenza di merito, orientandola verso una valutazione più rigorosa del comportamento del danneggiato e una maggiore attenzione ai profili di prevedibilità ed evitabilità del pericolo stradale. Conclusioni operative La pronuncia della Cassazione rappresenta un importante punto di riferimento per tutti i professionisti che si occupano di responsabilità civile e risarcimento danni. La chiarezza dei principi enunciati e il richiamo sistematico alla giurisprudenza precedente rendono questa decisione un precedente di particolare autorevolezza. Per chi dovesse trovarsi coinvolto in situazioni analoghe, risulta essenziale una valutazione accurata di tutti gli elementi fattuali e una strategia difensiva che tenga conto dell’evoluzione interpretativa consolidata dalla Suprema Corte. Hai subito un incidente stradale e vuoi sapere se sussistono i presupposti per una richiesta di risarcimento alla pubblica amministrazione? Il nostro studio offre consulenza specializzata in materia di responsabilità civile. Contattaci per una valutazione del tuo caso.

Parcheggio in Condominio: Quando l’Assemblea Può Vietare la Sosta sulle Aree Comuni

La Cassazione chiarisce definitivamente i limiti del diritto di parcheggio condominiale e i poteri dell’assemblea nella gestione degli spazi comuni La questione sempre attuale del parcheggio condominiale La gestione degli spazi comuni rappresenta una delle fonti più frequenti di conflitto nella vita condominiale. Tra tutte le controversie, quelle relative al diritto di parcheggio assumono particolare rilevanza, coinvolgendo aspetti pratici quotidiani e principi giuridici fondamentali. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, n. 25227/2025, offre importanti chiarimenti sulla natura e sui limiti del diritto di parcheggio sulle aree comuni, delineando con precisione i poteri dell’assemblea condominiale nella regolamentazione dell’uso di tali spazi. La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte trae origine da una controversia tra una condomina e il proprio condominio romano, relativa al presunto diritto di parcheggiare un’autovettura su un’area comune. La condomina sosteneva di aver acquisito tale diritto attraverso una serie di atti e deliberazioni, mentre l’assemblea condominiale aveva stabilito, con apposita delibera, il divieto di sosta per tutti i condomini, consentendo esclusivamente il transito per l’accesso ai garage privati. I fondamenti giuridici della controversia La ricorrente basava le proprie pretese su una concatenazione di titoli che, a suo avviso, avrebbero dovuto garantirle il diritto esclusivo di parcheggio. In particolare, faceva riferimento all’atto di acquisto della propria unità immobiliare, a precedenti atti di provenienza risalenti al 1983, al regolamento condominiale che prevedeva la partecipazione del dante causa alle spese per i passi carrabili, nonché a una scrittura privata del 1995 e a una successiva delibera assembleare che avrebbe preso atto di tale accordo. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto integralmente il ricorso, confermando le decisioni di merito e chiarendo alcuni principi fondamentali che meritano particolare attenzione. Il primo e più importante di questi principi riguarda la natura stessa del diritto di parcheggio: la possibilità di utilizzare un’area comune come parcheggio, salvo il caso in cui sia costituita in forma specifica ed autonoma come diritto di servitù, costituisce solo una facoltà di uso del bene connesso al diritto di comproprietà. La distinzione fondamentale: passaggio versus parcheggio Un aspetto cruciale della pronuncia riguarda la netta distinzione operata tra diritto di passaggio e diritto di parcheggio. Mentre il primo consiste nella facoltà di transitare attraverso l’area comune per raggiungere, ad esempio, il proprio garage, il secondo implica l’occupazione stabile e esclusiva di una porzione dell’area stessa. La Corte ha chiarito che l’articolo 1102 del codice civile disciplina l’uso paritario delle cose comuni, ma non attribuisce automaticamente a ciascun condomino il diritto di parcheggiare in modo esclusivo. La sentenza evidenzia come il diritto di parcheggio esclusivo, costituendo una vera e propria servitù sul bene comune, richieda per la sua costituzione il consenso scritto di tutti i condomini, secondo quanto disposto dall’articolo 1108, comma terzo, del codice civile. Questo principio trova conferma nella consolidata giurisprudenza di legittimità, che la Corte richiama attraverso i precedenti Cass. 2114/2018 e Cass. 27233/2013. Il potere regolamentare dell’assemblea condominiale Un ulteriore profilo di interesse riguarda l’ampiezza dei poteri dell’assemblea condominiale nella disciplina dell’uso delle parti comuni. La Suprema Corte ha stabilito che l’assemblea può regolare l’uso delle parti comuni, con la facoltà di imporre limitazioni più restrittive alle facoltà concesse dall’articolo 1102 del codice civile. Tale potere, tuttavia, deve essere esercitato nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, con l’obiettivo di rendere più ordinato e razionale l’uso paritario degli spazi secondo le rispettive circostanze. La Corte ha precisato che non è affetta da nullità la delibera adottata dall’assemblea condominiale che vieti l’uso carrabile e il posteggio su un’area comune, purché non precluda altri usi diversi di tale porzione agli altri comproprietari. Questo orientamento, confermato dalle recenti pronunce Cass. 13677/2022 e Cass. 7385/2023, dimostra la solidità dell’indirizzo giurisprudenziale in materia. Le implicazioni pratiche per amministratori e condomini La pronuncia in esame offre importanti indicazioni operative per tutti i soggetti coinvolti nella gestione condominiale. Per gli amministratori, la sentenza conferma la legittimità delle delibere assembleari che disciplinino l’uso delle aree comuni, purché rispettose dei diritti di tutti i condomini e finalizzate a un utilizzo più razionale degli spazi. Per i condomini, la decisione chiarisce che l’uso tollerato di un’area come parcheggio non genera automaticamente un diritto acquisito, essendo necessaria una fonte contrattuale specifica e il consenso di tutti i partecipanti al condominio. La Corte ha inoltre ribadito l’importanza della verifica della catena dei titoli di provenienza: nessuno può trasferire più diritti di quanti ne possieda. Nel caso di specie, il dante causa della ricorrente non era titolare di alcun diritto esclusivo di parcheggio, come accertato da precedenti pronunce giurisdizionali, e pertanto non poteva trasmetterlo ai successivi acquirenti. I principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che distingue nettamente tra i diversi tipi di uso delle parti comuni. Le determinazioni collegiali che introducono limitazioni dell’uso del cortile come parcheggio, come chiarito dalla giurisprudenza citata (Cass. 6573/2015, Cass. 9877/2012), si limitano a renderne più ordinato e razionale l’uso paritario secondo le rispettive circostanze, senza violare il diritto di proprietà dei singoli condomini. La Suprema Corte ha inoltre confermato che la possibilità dei comproprietari di usare un’area comune a parcheggio rimane sottoposta alla disciplina dell’uso del bene comune adottata dalla maggioranza dei condomini, salvo che non sia costituita in forma specifica ed autonoma come diritto di servitù. Conclusioni e raccomandazioni operative La pronuncia della Cassazione offre un quadro interpretativo chiaro e definitivo sulla questione del parcheggio condominiale, stabilendo principi di portata generale che trascendono il caso specifico. Per i professionisti del settore immobiliare e condominiale, la sentenza rappresenta un importante punto di riferimento per la gestione di controversie analoghe e per la redazione di regolamenti condominiali che disciplinino l’uso degli spazi comuni. La decisione evidenzia l’importanza di una corretta analisi dei titoli di provenienza e della verifica dell’effettiva esistenza di diritti esclusivi sulle parti comuni. Allo stesso tempo, conferma l’ampiezza dei poteri dell’assemblea condominiale nella regolamentazione dell’uso degli spazi condivisi, purché tale regolamentazione sia finalizzata a garantire un utilizzo più equo e ordinato delle aree comuni. Hai bisogno di

Il Creditore Può Sempre Cumulare le Azioni Esecutive: La Cassazione Chiarisce i Limiti dell’Art. 483 c.p.c.

Una recente ordinanza della Suprema Corte ribadisce il diritto del creditore di attivare contemporaneamente più procedure esecutive, stabilendo criteri rigorosi per valutare l’abusività del cumulo La Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con ordinanza n. 30011/2024 del 15 ottobre scorso, ha fornito un importante chiarimento sui limiti del cumulo dei mezzi di espropriazione, ribaltando una decisione del Tribunale di Ancona che aveva dichiarato abusiva la condotta di un istituto di credito. La vicenda trae origine da una situazione tutt’altro che infrequente nella prassi: un creditore, dopo aver ottenuto l’assegnazione del quinto dello stipendio della debitrice attraverso una prima procedura esecutiva che aveva fruttato circa 20.000 euro su un credito totale di 38.000 euro, aveva successivamente avviato una procedura di espropriazione immobiliare per soddisfare la parte residua del proprio credito. La Posizione dei Giudici di Merito: Un’Interpretazione Troppo Restrittiva Il giudice dell’esecuzione prima, e il Tribunale di Ancona poi, avevano ritenuto che questa condotta costituisse un abuso del cumulo dei mezzi espropriativi ai sensi dell’art. 483 c.p.c., motivando tale conclusione con argomentazioni che la Cassazione ha definito “manifestamente in contrasto con la ratio e con la lettera” della norma. I giudici di merito avevano fondato la loro decisione su tre elementi: il decorso di quattro anni tra le due procedure, l’incertezza sull’esito della procedura immobiliare, e l’aumento delle spese processuali a carico della debitrice. La Suprema Corte ha demolito sistematicamente ciascuno di questi argomenti, chiarendo come nessuno di essi possa giustificare una limitazione del diritto del creditore. I Principi Affermati dalla Cassazione La decisione della Cassazione si fonda su un principio cardine: il cumulo dei mezzi espropriativi è uno strumento consentito dall’ordinamento, la cui limitazione ha carattere eccezionale. Come chiarisce la Corte, l’abuso può essere ravvisato esclusivamente “quando il sacrificio del debitore, coinvolto in plurime procedure esecutive, non sia giustificato da un ragionevole interesse del creditore”. Particolarmente significativo è il passaggio in cui i giudici di legittimità sottolineano che l’espropriazione di una pluralità di beni del debitore rende “certamente più probabile e più rapida l’integrale soddisfazione del creditore” e costituisce sempre legittimo interesse di quest’ultimo ottenere tale risultato. La Corte ha inoltre precisato che sono inevitabilmente correlati al legittimo cumulo sia l’alea relativa all’esito di ogni procedimento esecutivo, sia le conseguenze in tema di spese processuali per il debitore. Questi elementi, lungi dal costituire indici di abusività, rappresentano le normali conseguenze di una scelta processuale lecita. L’Inversione dell’Onere della Prova Un aspetto cruciale della pronuncia riguarda la distribuzione dell’onere probatorio. La Cassazione ha chiarito che spetta al debitore dimostrare l’esistenza di elementi concreti che inducano, con certezza, ad escludere la possibilità di conseguire una più rapida o probabile soddisfazione mediante il cumulo. Nel caso esaminato, né il giudice dell’esecuzione né il Tribunale avevano richiesto o valutato tali prove specifiche, limitandosi a rilevare genericamente che non vi era certezza sui risultati delle procedure esecutive. Come osserva la Corte, questo approccio “ha sovvertito l’oggetto ed il corretto assetto degli oneri probatori”. Le Implicazioni Pratiche per Creditori e Debitori Questa pronuncia ha importanti ricadute pratiche. Per i creditori, rappresenta una conferma della possibilità di pianificare strategie esecutive articolate, senza il timore che la legittima ricerca di una maggiore efficacia nell’azione di recupero possa essere censurata come abusiva. Per i debitori, il messaggio è altrettanto chiaro: l’opposizione al cumulo delle procedure esecutive richiede la dimostrazione di circostanze specifiche ed eccezionali, non essendo sufficiente invocare genericamente l’aumento dei costi o l’incertezza degli esiti. La decisione assume particolare rilevanza considerando che l’assegnazione di crediti futuri e periodici, come nel caso del quinto dello stipendio, non determina l’immediata ed integrale soddisfazione del creditore, che si realizza esclusivamente a seguito del pagamento effettivo del terzo e nei limiti in cui esso effettivamente avvenga. Un Equilibrio tra Diritti del Creditore e Tutela del Debitore La Suprema Corte ha trovato un equilibrio tra la necessità di garantire al creditore strumenti efficaci per il recupero del proprio credito e l’esigenza di tutelare il debitore da condotte effettivamente vessatorie. Il principio emerso dalla pronuncia è che la mera possibilità di un aggravio per il debitore non può limitare il legittimo diritto del creditore di scegliere le strategie esecutive più adatte al caso concreto. Significativa è anche la considerazione della Corte secondo cui il debitore può “evitare l’aggravio semplicemente estinguendo il proprio debito”, ricordando come la situazione di soggezione alle procedure esecutive derivi dall’inadempimento dell’obbligazione originaria. Conclusioni e Prospettive L’ordinanza in commento rappresenta un importante contributo alla chiarificazione dei rapporti tra creditore e debitore nelle procedure esecutive. La Cassazione ha ribadito che il favor creditoris non è un principio superato, purché si mantenga entro i limiti della ragionevolezza e non sconfini nell’abuso. La pronuncia offre agli operatori del diritto criteri chiari per valutare la legittimità del cumulo dei mezzi espropriativi, fornendo certezza in un ambito spesso caratterizzato da interpretazioni divergenti. Per i tribunali di merito, rappresenta una guida autorevole per evitare valutazioni eccessivamente restrittive che possano compromettere l’efficacia della tutela esecutiva. Hai dubbi sui tuoi diritti come creditore o ti trovi in una situazione di plurime procedure esecutive? Il nostro studio legale può offrirti la consulenza specializzata di cui hai bisogno. Contattaci per una valutazione personalizzata del tuo caso.