La Corte Costituzionale estende il congedo di paternità alle madri intenzionali: una svolta storica per le famiglie omogenitoriali

Con la sentenza n. 115/2025, la Consulta riconosce pari dignità genitoriale alle coppie femminili, equiparando la madre intenzionale al padre nelle coppie eterosessuali La Corte Costituzionale italiana ha dichiarato con sentenza n. 115 del 21 luglio 2025 l’illegittimità costituzionale dell’art. 27-bis del D.Lgs. 151/2001 per violazione dell’art. 3 Cost., estendendo per la prima volta il congedo di paternità obbligatorio di 10 giorni alle “madri intenzionali” in coppie omogenitoriali femminili regolarmente iscritte nei registri dello stato civile. La decisione segna un punto di svolta nell’evoluzione dei diritti delle famiglie arcobaleno, equiparando funzionalmente la madre intenzionale alla figura paterna nelle coppie eterosessuali e affermando che “l’orientamento sessuale non incide di per sé sulla idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale”. La pronuncia, depositata a distanza di soli due mesi dalla storica sentenza n. 68/2025 sul riconoscimento dei figli da PMA eterologa, completa un quadro giurisprudenziale che rivoluziona il diritto di famiglia italiano, costringendo INPS e datori di lavoro a immediati adeguamenti procedurali per garantire parità di trattamento alle coppie omogenitoriali. L’architettura costituzionale della decisione La sentenza n. 115/2025, redatta dalla Giudice San Giorgio sotto la presidenza Amoroso, applica una logica di equiparazione funzionale che supera definitivamente ogni residua visione biologistica della famiglia. La Corte ha ritenuto “manifestamente irragionevole la disparità di trattamento tra coppie genitoriali composte da persone di sesso diverso e coppie composte da due donne riconosciute come genitori” attraverso PMA legalmente praticata all’estero. Il principio cardine della responsabilità genitoriale condivisa emerge dalle motivazioni: le coppie omogenitoriali che “condividendo un progetto di genitorialità, hanno assunto, al pari della coppia eterosessuale, la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali alle esigenze del minore” non possono subire discriminazioni nell’accesso ai diritti sociali. La Consulta identifica “nelle coppie omogenitoriali femminili una figura equiparabile a quella paterna”, distinguendo tra madre biologica (che partorisce) e madre intenzionale (che condivide l’impegno di cura). L’applicazione congiunta degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. integra i principi interni di uguaglianza con gli obblighi europei derivanti dalle direttive 2000/78/CE (parità di trattamento in materia di occupazione) e 2019/1158/UE (equilibrio vita professionale-familiare). Questa combinazione normativa, già consolidata nella giurisprudenza costituzionale post-2007, trasforma i vincoli CEDU in parametri diretti di costituzionalità. Il quadro giurisprudenziale di riferimento e i precedenti decisivi L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità dal 2020 al 2025 ha costruito un percorso lineare verso il pieno riconoscimento dei diritti omogenitoriali. La Consulta aveva già lanciato “moniti” al legislatore nelle sentenze nn. 230/2020, 32/2021 e 33/2021, denunciando l’inerzia normativa su filiazione e coppie same-sex. La sentenza n. 68 del 22 maggio 2025 aveva rappresentato il precedente diretto, dichiarando illegittimo l’art. 8 L. 40/2004 per mancato riconoscimento della madre intenzionale nei casi di PMA eterologa praticata legalmente all’estero. Questa decisione ha stabilito il principio dell’impegno genitoriale condiviso come fonte di status giuridico, superando la concezione puramente biologica della filiazione. La Cassazione civile ha mostrato un’evoluzione più lenta ma parallela. Le Sezioni Unite con la sentenza n. 38162/2022 avevano mantenuto un orientamento restrittivo sulla gestazione per altri, mentre singole sezioni (sent. nn. 7668/2020, 8029/2020, 23320/2021) negavano sistematicamente la trascrizione di atti di nascita con due madri. Tuttavia, la recente sentenza n. 15075/2025 ha riconosciuto l’immediata applicabilità della pronuncia costituzionale n. 68/2025 a tutti i giudizi pendenti, segnando una convergenza giurisprudenziale definitiva. I precedenti CEDU e l’obbligo di conformità europea La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha creato un quadro consolidato di obblighi positivi per il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali. Il caso Oliari and Others v. Italy (2015) aveva direttamente condotto alla Legge Cirinnà, stabilendo la violazione dell’art. 8 CEDU per l’assenza totale di riconoscimento giuridico delle coppie same-sex. L’evoluzione recente culmina con Fedotova and Others v. Russia (2023), dove la Grande Camera ha generalizzato l’obbligo positivo di tutti gli Stati del Consiglio d’Europa di fornire un quadro giuridico per le coppie omogenitoriali. Le successive decisioni Buhuceanu v. Romania e Przybyszewska v. Poland (entrambe del 2023) hanno specificato che tale obbligo include diritti fiscali, previdenziali e assistenziali concreti, non limitandosi al mero riconoscimento formale. Questi precedenti si integrano perfettamente con l’art. 117, comma 1, Cost. come “norma interposta” (sentenze nn. 348-349/2007), trasformando gli standard CEDU in parametri diretti di legittimità costituzionale delle leggi italiane. Implicazioni operative per INPS e sistema delle tutele La sentenza impone adeguamenti procedurali immediati che l’INPS deve implementare senza indugi. L’art. 27-bis D.Lgs. 151/2001 riconosce il congedo di paternità obbligatorio di 10 giorni lavorativi (20 per parti plurimi) al 100% della retribuzione, fruibile dai 2 mesi precedenti ai 5 successivi al parto. L’Istituto dovrà modificare le piattaforme telematiche che attualmente impediscono l’inserimento di due codici fiscali dello stesso genere per il congedo paterno, problema già risolto per il congedo parentale ordinario (art. 32) dopo la condanna del Tribunale di Bergamo del 25 gennaio 2024. La Circolare n. 122/2022 dovrà essere integrata eliminando la terminologia discriminatoria “padre lavoratore” e sostituendola con formulazioni neutre che includano la “madre intenzionale”. I datori di lavoro devono riconoscere immediatamente il diritto al congedo per le lavoratrici madri intenzionali in coppie omogenitoriali femminili regolarmente registrate. Non sussiste alcun aggravio economico poiché l’indennità viene anticipata e conguagliata con gli apporti contributivi INPS secondo le procedure ordinarie. La coordinazione con altre tutele prevede la possibilità di contemporaneità tra congedo di maternità della madre biologica e congedo di paternità della madre intenzionale, massimizzando la presenza genitoriale nei primi mesi di vita del bambino. Il congedo parentale ordinario (art. 32) rimane distribuito tra entrambe le madri secondo le regole generali. Prime reazioni dottrinali e prospettive applicative Nonostante la recentissima emanazione, sono emersi primi commenti autorevoli che inquadrano la portata rivoluzionaria della decisione. Il Prof. Gianfranco Pellegrino (LUISS) ha definito la sentenza “rivoluzionaria” per aver stabilito una “nozione interamente intenzionale di famiglia” basata sul “progetto di cura” piuttosto che sul “destino biologico”. Le reazioni politiche riflettono la polarizzazione del dibattito pubblico: il PD (on. Alessandro Zan) ha definito la decisione “uno schiaffo importante per il governo Meloni”, mentre organizzazioni conservative (Pro Vita & Famiglia) hanno criticato “l’impatto delle follie Gender sull’ordinamento giuridico”. Il silenzio della maggioranza di
ICI e Abitazione Principale: la Corte Costituzionale Elimina il Requisito della Dimora dei Familiari

Sentenza n. 112/2025: estesi all’ICI i principi già affermati per l’IMU sulla tutela della famiglia e l’uguaglianza fiscale La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 112 depositata il 18 luglio 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nella parte in cui subordinava l’esenzione ICI per l’abitazione principale alla dimora abituale dei familiari del contribuente. La decisione, che si pone in continuità con la precedente sentenza n. 209 del 2022 relativa all’IMU, elimina una discriminazione che penalizzava i coniugati non conviventi, equiparando definitivamente il trattamento fiscale delle due imposte immobiliari. I Principi Costituzionali Violati La Consulta ha fondato la declaratoria di illegittimità su tre pilastri costituzionali. In primo luogo, il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., poiché la normativa censurata creava un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti coniugati con residenze separate e single o coppie di fatto, a parità di situazione patrimoniale e fiscale. La Corte ha inoltre rilevato la violazione degli artt. 29 e 31 Cost. sulla tutela della famiglia, affermando che “nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio”. Infine, sotto il profilo dell’art. 53 Cost. sulla capacità contributiva, i giudici costituzionali hanno precisato che l’ICI, come l’IMU, costituisce un’imposta reale avente per presupposto il possesso di beni immobili, senza dipendere dalle caratteristiche personali del contribuente. Le Motivazioni della Decisione La sentenza riconosce la mutata realtà sociale contemporanea, evidenziando come sia “sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale”, per motivi lavorativi o di assistenza a genitori anziani. L’esenzione per l’abitazione principale si giustifica con il fatto che l’immobile risponde a un’esigenza abitativa del contribuente, indipendentemente da chi vi dimori. La natura reale dell’imposta rende pertanto irragionevole il requisito della dimora dei familiari. Le Implicazioni Pratiche La pronuncia produce effetti immediati sui giudizi ancora pendenti relativi alle annualità di vigenza dell’ICI, consentendo ai contribuenti coniugati non conviventi di beneficiare dell’esenzione per l’abitazione principale. Tuttavia, la decisione non si applica ai rapporti esauriti, ovvero alle situazioni in cui il contribuente non ha validamente impugnato l’avviso di accertamento o il processo si è concluso con sentenza passata in giudicato. Il rimborso dell’ICI già versata appare inoltre precluso dal decorso del termine quinquennale per la richiesta di rimborso. La sentenza contribuirà a uniformare l’interpretazione delle norme agevolative in materia di imposte immobiliari, eliminando incertezze applicative che hanno caratterizzato gli anni di vigenza dell’ICI. Prospettive Future La decisione della Consulta, pur limitata all’ICI ormai abrogata, assume rilevanza sistematica confermando i principi di tutela della famiglia e uguaglianza fiscale già affermati per l’IMU. Tale orientamento potrà influenzare l’interpretazione di analoghe disposizioni in altri tributi immobiliari. La pronuncia rappresenta un importante precedente per la giurisprudenza tributaria, ribadendo che le agevolazioni fiscali non possono essere strutturate in modo da penalizzare specifiche categorie di contribuenti per ragioni estranee alla capacità contributiva. Hai dubbi sull’applicazione delle agevolazioni fiscali per la tua abitazione principale? Il nostro studio è a disposizione per analizzare la tua situazione specifica e valutare eventuali azioni di tutela.
Società cancellata dal registro imprese: i crediti non si perdono automaticamente

Le Sezioni Unite chiariscono definitivamente quando gli ex-soci possono ancora far valere i diritti della società estinta Una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 19750 del 16 luglio 2025) ha risolto un importante contrasto giurisprudenziale che da anni divideva i tribunali italiani. La questione riguardava il destino dei crediti di una società dopo la sua cancellazione dal registro delle imprese: si estinguono automaticamente se non inclusi nel bilancio di liquidazione oppure si trasmettono agli ex-soci? La risposta della Suprema Corte è chiara e definitiva: l’estinzione della società conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese non comporta automaticamente l’estinzione dei crediti, che invece si trasmettono ai soci secondo un fenomeno di tipo successorio. Il principio stabilito dalle Sezioni Unite L’art. 1236 del Codice Civile disciplina la remissione del debito, richiedendo una manifestazione inequivocabile di volontà da parte del creditore. Le Sezioni Unite hanno stabilito che la mera cancellazione della società dal registro delle imprese, anche quando accompagnata dalla mancata inclusione di crediti nel bilancio finale di liquidazione, non può essere considerata automaticamente come rinuncia ai diritti della società. Per configurare una valida rinuncia al credito è necessario che il creditore abbia inequivocabilmente manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito, comunicandola al debitore. Il silenzio o l’inerzia non bastano: serve una condotta univocamente incompatibile con la volontà di far valere il diritto. Implicazioni pratiche per ex-soci e debitori Questa pronuncia ha conseguenze rilevanti per diverse categorie di soggetti. Gli ex-soci di società cancellate possono oggi far valere con maggiore sicurezza i crediti che erano di proprietà della società estinta, anche quando questi non erano stati inseriti nel bilancio finale di liquidazione. Non dovranno più temere che la semplice omessa inclusione comporti automaticamente la perdita del diritto. Dal lato opposto, i soggetti debitori verso società cancellate non possono più fare affidamento sulla presunzione automatica di estinzione del debito. Chi intende sostenere che un credito si è estinto per rinuncia deve allegare e provare rigorosamente tutti i presupposti della remissione: la volontà del creditore, la sua manifestazione inequivocabile e la comunicazione al debitore specifico. I rischi che corrono gli ex-soci Nonostante questa pronuncia favorevole, gli ex-soci devono prestare particolare attenzione a diversi aspetti critici. Il primo rischio riguarda i tempi di prescrizione: molti crediti potrebbero essersi prescritti durante le fasi di liquidazione e cancellazione della società, rendendo impossibile il loro recupero anche se teoricamente trasmessi. Un secondo elemento di criticità è rappresentato dalla difficoltà probatoria. Gli ex-soci che intendono far valere crediti della società estinta devono essere in grado di dimostrare l’esistenza e la consistenza di tali diritti, spesso in assenza della documentazione aziendale che potrebbe essere andata dispersa. Particolare attenzione merita anche la questione delle “mere pretese” e dei crediti incerti o illiquidi. La giurisprudenza mantiene una distinzione tra diritti certi e pretese generiche, con maggiori difficoltà per il recupero di queste ultime. Gli ex-soci devono valutare attentamente la solidità giuridica delle proprie rivendicazioni prima di intraprendere azioni legali. Il nuovo equilibrio tra tutela e certezza La decisione delle Sezioni Unite rappresenta un punto di equilibrio tra diverse esigenze. Da un lato, garantisce che la cancellazione societaria non diventi uno strumento per eludere impropriamente i creditori; dall’altro, non elimina completamente la possibilità di estinzione dei crediti, richiedendo però il rispetto delle forme sostanziali previste dal Codice Civile per la remissione del debito. Questo orientamento consolida il principio secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese determina un fenomeno successorio a favore dei soci, che subentrano tanto nelle obbligazioni quanto nei diritti attivi della società estinta, nei limiti della loro responsabilità originaria. Prospettive applicative La pronuncia avrà sicuramente impatti significativi sui contenziosi in corso e su quelli futuri. È prevedibile un aumento delle azioni promosse da ex-soci per il recupero di crediti ritenuti precedentemente perduti, con consequenziali effetti sui debitori che credevano di aver beneficiato dell’automatica estinzione. Diventa fondamentale per chi gestisce liquidazioni societarie prestare maggiore attenzione alla completezza del bilancio finale, includendo anche crediti incerti o di difficile realizzazione, per evitare successive complicazioni. Al tempo stesso, chi intende realmente rinunciare a specifici crediti dovrà seguire le procedure formali previste dalla legge. Stai affrontando questioni relative a crediti di società cancellate o hai dubbi sulla gestione di una liquidazione aziendale? Il nostro studio è specializzato in diritto societario e può assisterti nella tutela dei tuoi diritti. Contattaci per una consulenza personalizzata.