IL LAVORATORE IN MALATTIA CHE PARTECIPA AD UN CONCORSO NON PUO’ ESSERE LICENZIATO

Tempo di lettura: < 1 minuti Era in congedo per malattia, ma durante l’assenza dal lavoro aveva partecipato alle prove preselettive di un concorso. Il datore di lavoro aveva contestato l’illecito disciplinare al dipendente, per poi licenziarlo perché aveva simulato la malattia o comunque per averla aggravata con il suo comportamento. Il lavoratore aveva impugnato però il licenziamento innanzi al giudice del lavoro, sostenendo che la partecipazione al concorso non era incompatibile con la patologia da cui era affetto. Il Tribunale di Reggio Emilia, investito della causa, ha ritenuto di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, dalla quale è risultato che effettivamente il lavoratore era affetto dalla patologia risultante dalla certificazione medica, e che la condotta tenuta dal dipendente in costanza del congedo non era incompatibile con lo stato della malattia, né poteva avere aggravato la sua condizione fisica o frenato il recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore. In considerazione delle conclusioni esposte dal consulente medico – legale, il Tribunale ha perciò accolto il ricorso del dipendente con sentenza dell’11 maggio 2021, per l’insussistenza del fatto contestato. Secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015, il Giudice ha dichiarato perciò l’illegittimità del licenziamento ed ordinato la reintegrazione del lavoratore sul luogo di lavoro, condannando il datore al pagamento del risarcimento nella misura prevista dalla legge.

LA COMMESSA OFFENDE IL CLIENTE: PUO’ ESSERE LICENZIATA?

Tempo di lettura: 2 minuti E’ il 23 dicembre, e nel centro commerciale c’è ressa per gli acquisti dei regali natalizi. Uno dei negozi più affollati è quello degli articoli elettronici, in cui un cliente ha la sfortuna di rivolgersi ad una commessa particolarmente stressata. In breve tempo lei perde il controllo, e si rivolge all’avventore in modo grevemente scortese, con un’espressione volgare. Il cliente allora, irritato dall’insolenza della lavoratrice, decide di lasciare l’esercizio senza aver completato l’acquisto. La direzione del negozio, venuta a conoscenza dell’episodio, commina così alla dipendente la sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa. Il provvedimento espulsivo viene però impugnato dalla lavoratrice, e la Corte di Appello di Brescia accoglie il ricorso annullando il licenziamento. Ma la società datrice di lavoro propone ricorso innanzi la Corte di Cassazione sostenendo la adeguatezza della sanzione disciplinare rispetto alla gravità del comportamento contestato sul piano oggettivo, dal momento che un addetto alle vendite ha l’obbligo di instaurare con la clientela una relazione secondo uno standard di cortesia superiore a quello ordinario. Di segno opposto la tesi sostenuta dalla lavoratrice, secondo cui doveva essere considerato il suo comportamento pregresso, sempre corretto ed ossequioso, sicché l’episodio dell’espressione offensiva utilizzata non poteva essere ritenuto grave, tenuto anche conto del fatto che esso era rimasto isolato, e che non era stato notato dagli altri compratori presenti presso il punto vendita o dai colleghi.I giudici della Cassazione, esaminata la vicenda, con la sentenza n. 13774 del 2 maggio 2022, hanno respinto il ricorso della datrice di lavoro, annullando definitivamente il licenziamento comminato alla commessa. Secondo la Corte, tenendo conto delle disposizioni del contratto collettivo di settore, la violazione dalla lavoratrice dell’obbligo di usare modi cortesi col pubblico non poteva essere qualificata, nel contesto del fatto accertato, come grave, sicché, la sanzione disciplinare corretta non doveva essere quella espulsiva del licenziamento disciplinare senza preavviso. Per gli ermellini doveva essere invece considerata adeguatamente l’assenza di precedenti disciplinari, e nonostante la natura indubbiamente greve dell’espressione usata, la corretta applicazione del principio di proporzionalità o di adeguatezza della sanzione dell’illecito, da parte del giudice di merito. E’ stata anche esclusa la possibilità che alla lavoratrice venisse riconosciuta solo un’indennità risarcitoria e non già la reintegra nel posto di lavoro.Secondo la Corte, il comportamento non grave della lavoratrice, di violazione dell’obbligo di usare modi cortesi col pubblico, può essere ricondotto alla disciplina dell’ipotesi, prevista dall’art. 220, secondo comma del CCNL, del lavoratore che “esegua con negligenza il lavoro affidatogli”, con la conseguente applicazione della sanzione conservativa della multa, nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità della punizione disciplinare.

SI PUO’ LICENZIARE IL LAVORATORE CON HANDICAP PER IL SUO SCARSO RENDIMENTO?

Tempo di lettura: 2 minuti Il dipendente era affetto da una malattia che lo rallentava nello svolgimento del lavoro, e perciò l’azienda, per agevolarlo, aveva ridotto le mansioni che gli erano state affidate, alleggerendolo di alcuni compiti, assegnandogli anche un’autovettura aziendale con dispositivi speciali. Cinque anni più tardi, però, la prolungata ripercussione delle condizioni fisiche del lavoratore sull’andamento della produzione aveva indotto il presidente del consiglio di amministrazione a sollecitare il direttore generale a procedere al licenziamento del dipendente per sostituirlo con altro “più capace”. Pochi mesi dopo, il direttore aveva licenziato il lavoratore affetto da handicap, ma non aveva assunto nessun altro dipendente in sua sostituzione. Ma l’email inviata dal presidente del CDA al direttore generale, con cui si suggeriva di procedere al licenziamento, era giunta nelle mani del lavoratore, che, a questo punto, aveva impugnato il licenziamento perché discriminatorio, dato che gli era stato comminato in ragione ed in dipendenza della sua minorazione. L’azienda resisteva in giudizio contestando proprio la natura discriminatoria del licenziamento, alla luce del lungo tempo trascorso dall’insorgenza della malattia invalidante e della mancata sostituzione del dipendente espulso con altra unità che ne avesse preso il posto. Condividendo le ragioni dell’azienda, il tribunale aveva rigettato il ricorso del lavoratore, mentre la Corte di Appello di Milano aveva poi ribaltato la decisione, ritenendo che il contenuto della email inviata al direttore generale rivelasse la vera ragione del licenziamento, indipendentemente dal lungo tempo trascorso dall’insorgenza della malattia e dalla mancata sostituzione del lavoratore, come invece richiesta dai vertici aziendali. La datrice di lavoro impugnava la sentenza di appello innanzi alla Corte di Cassazione, che ha espresso infine la propria valutazione, sulla delicata questione, con l’ordinanza n. 30971 del 20.10.2022, rigettando le doglianze dell’azienda, e confermando quindi l’annullamento del licenziamento. I giudici di legittimità hanno ritenuto, infatti, che la ragione del recesso non poteva che essere collocata in stretta dipendenza con la strategia indicata dal CDA nella e-mail trasmessa al direttore generale, a nulla rilevando invece né il tempo trascorso da quando era insorta la malattia e nemmeno le diverse agevolazioni concesse al lavoratore prima del licenziamento. La Cassazione ha disatteso così la censura mossa dalla datrice di lavoro circa la prevalenza di diverse ragioni di carattere organizzativo, che avrebbero fondato la decisione presa nei confronti del lavoratore, valutate dalla corte come secondarie rispetto alla ragione discriminatoria. In definitiva, per i giudici di legittimità, la mancata sostituzione del lavoratore licenziato o il lungo tempo trascorso tra l’insorgenza della malattia, non escludono la natura discriminatoria soggettiva del licenziamento, quando esso è comunque irrogato in ragione dello status di handicap del dipendente.

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