Una recente ordinanza della Corte Suprema di Cassazione, Sezione Tributaria (Ordinanza n. 13598/2025, R.G.N. 27300/2020), segna un punto importante nel dibattito sull’applicazione della disciplina delle cosiddette “società di comodo” (o non operative) ai fini IVA. La Corte, richiamando principi consolidati del diritto unionale e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), ha di fatto sancito l’inapplicabilità di alcune presunzioni previste dalla legge nazionale quando queste precludono indebitamente il diritto alla detrazione e al rimborso dell’IVA.
La Vicenda al vaglio della Suprema Corte
La fattispecie esaminata trae origine dall’impugnazione di un atto di recupero notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società per diversi periodi d’imposta (dal 2008 al 2012). Con tale atto, l’Amministrazione finanziaria aveva disconosciuto il credito IVA della società in applicazione della disciplina delle “società di comodo”, contenuta nell’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994. Il disconoscimento era scaturito dal mancato superamento del cosiddetto “test di operatività” da parte della società a seguito dell’invio di questionari.
Dopo un primo grado favorevole alla società contribuente, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto appello. La Commissione tributaria regionale, pur dichiarando nulla la sentenza di primo grado per vizi formali, aveva comunque accolto nel merito il ricorso della società, annullando integralmente gli atti di recupero del credito IVA.
L’Agenzia delle Entrate ha quindi presentato ricorso in Cassazione, articolando le proprie doglianze su tre motivi principali, incentrati su specifiche questioni relative alla corretta determinazione del valore degli immobili posseduti dalla società ai fini del “test di operatività” e alla rilevanza di tali beni (alcuni inagibili, altri nella disponibilità dei soci) nel calcolo della presunzione di non operatività. In sintesi, l’Agenzia contestava l’applicazione del test e le conclusioni del giudice di merito riguardo agli immobili.
Le Questioni Giuridiche Fondamentali
Al di là delle specifiche contestazioni mosse dall’Agenzia delle Entrate sulla valutazione dei singoli beni, la questione giuridica centrale che la Corte di Cassazione si è trovata ad affrontare riguardava l’applicazione della normativa nazionale sulle “società di comodo” in relazione al diritto alla detrazione IVA, alla luce del diritto dell’Unione Europea.
La disciplina delle “società di comodo” prevede, semplificando, una presunzione di non operatività (superabile con prova contraria) basata sul mancato raggiungimento di una soglia minima di ricavi, calcolata in proporzione al valore di alcuni beni patrimoniali posseduti dalla società. Il mancato superamento di questo “test di operatività” comporta conseguenze fiscali, tra cui, appunto, il disconoscimento del credito IVA.
La Soluzione della Corte di Cassazione: La Prevalenza del Diritto UE
La Corte di Cassazione ha deciso di rigettare tutti e tre i motivi di ricorso presentati dall’Agenzia delle Entrate, ritenendoli infondati. La motivazione di questo rigetto si fonda su un principio di carattere superiore, derivante dalla giurisprudenza della CGUE e dalle recenti pronunce della stessa Cassazione in materia.
La Corte ha richiamato esplicitamente la sentenza della CGUE n. 341 del 7 marzo 2024 (Causa C-341/22) e precedenti ordinanze e sentenze della Cassazione (come la n. 24442 del 11/09/2024 e la n. 22249 del 06/08/2024). Queste pronunce hanno chiarito che, in materia di IVA, la qualità di “soggetto passivo” (colui che esercita un’attività economica in modo indipendente, indipendentemente dallo scopo o dai risultati) è riconosciuta anche a chi, in un dato periodo d’imposta, effettua operazioni il cui valore economico non raggiunge la soglia minima di ricavi attesi dalla normativa nazionale.
La Direttiva IVA (Dir. 2006/112/CE), in particolare l’articolo 9, paragrafo 1, definisce l’attività economica in modo ampio, includendo lo sfruttamento di beni per ricavarne introiti stabili. Crucialmente, nessuna disposizione della Direttiva subordina il diritto alla detrazione IVA (sancito dall’articolo 167 della Direttiva) al raggiungimento di una determinata soglia di ricavi.
Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994, nella parte in cui subordina la perdita del diritto alla detrazione IVA al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi, si pone in contrasto con l’articolo 167 della Direttiva IVA. Analogamente, nell’escludere il diritto alla detrazione per le società i cui introiti sono inferiori a una certa soglia, presumendone il carattere non operativo, la norma nazionale contrasta con gli articoli 9, paragrafo 1, e 167 della Direttiva.
Secondo i principi espressi dalla CGUE, le misure nazionali volte a contrastare frodi, evasione o abusi non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo e non devono compromettere il principio di neutralità dell’IVA. Una presunzione generale di evasione e abuso, come quella basata solo sul mancato superamento di una soglia di ricavi, non può giustificare un provvedimento fiscale che pregiudichi gli obiettivi della Direttiva. La CGUE ha specificato che tale presunzione, anche se superabile, non può negare il diritto alla detrazione o al rimborso per motivi estranei alla dimostrazione di una frode o di un abuso specifico.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha affermato che l’articolo 30 della Legge n. 724 del 1994, nella parte in contrasto con il diritto unionale, deve essere “disapplicato” dal giudice nazionale. Disapplicare una norma significa non farla valere nel caso concreto perché in conflitto con una norma di diritto UE direttamente applicabile e prevalente.
Pur riconoscendo che la motivazione della sentenza d’appello andava “corretta” poiché basata sull’applicazione di una normativa interna in contrasto con il diritto UE, la Corte ha confermato che il dispositivo (cioè, la decisione finale di annullare gli atti di recupero) era corretto. Infatti, il giudice d’appello non aveva messo in dubbio lo svolgimento di un’attività economica da parte della società nel senso della disciplina IVA, elemento che, secondo il diritto UE, è sufficiente a riconoscere la qualità di soggetto passivo e il diritto alla detrazione, a prescindere dal volume dei ricavi. Le stesse argomentazioni dell’Agenzia nel ricorso, incentrate sul calcolo della soglia di ricavi, confermavano implicitamente che la contestazione si basava proprio sul criterio che la CGUE ha ritenuto inadeguato per negare il diritto IVA senza provare frode o abuso.
Conclusioni
Questa ordinanza della Corte di Cassazione rappresenta una significativa riaffermazione della prevalenza del diritto dell’Unione Europea sulla normativa interna in materia di IVA. Stabilisce che la disciplina delle “società di comodo”, e in particolare la presunzione di non operatività basata sul mancato superamento del test dei ricavi minimi, non può essere utilizzata dall’Agenzia delle Entrate per negare automaticamente il diritto alla detrazione e al rimborso dell’IVA, salvo che non venga specificamente provata una condotta fraudolenta o abusiva da parte del contribuente.
Questo orientamento è di fondamentale importanza per tutte quelle società che, pur non raggiungendo le soglie di ricavo previste dalla normativa nazionale per superare il “test di operatività”, svolgono comunque un’attività economica rilevante ai fini IVA. La Corte ha di fatto protetto il loro diritto alla detrazione, in linea con il principio di neutralità dell’imposta sancito dal diritto UE.
Alla luce di queste recenti pronunce, appare cruciale valutare attentamente la posizione IVA delle società considerate “non operative” e l’applicabilità, nel caso specifico, della normativa nazionale alla luce dei principi unionale.
Le spese processuali, dato il quadro giurisprudenziale in evoluzione sul punto con la recente pronuncia della CGUE, sono state compensate tra le parti.
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