La Suprema Corte stabilisce nuovi criteri per valutare il nesso causale nei casi di tumore da sigarette, valorizzando l’asimmetria informativa tra produttori e consumatori
La Corte di Cassazione ha pronunciato una sentenza destinata a fare scuola in materia di responsabilità civile per danni da fumo attivo. Con l’ordinanza n. 21464/2025 del 29 aprile 2025, la Terza Sezione Civile ha accolto il ricorso degli eredi di un fumatore deceduto per neoplasia polmonare, cassando la decisione della Corte d’Appello di Torino e stabilendo principi innovativi che ridefiniscono l’approccio giurisprudenziale a questa complessa materia.
Il caso e la questione centrale
La vicenda riguardava un uomo che aveva iniziato a fumare nel 1968, all’età di 15 anni, consumando quotidianamente due pacchetti di sigarette fino alla morte avvenuta nel 2013 a causa di un tumore polmonare. Gli eredi avevano citato in giudizio la casa produttrice e l’Amministrazione dei Monopoli, chiedendo il risarcimento dei danni sia patrimoniali che non patrimoniali.
I giudici di merito avevano rigettato le domande, ritenendo che la libera scelta di fumare, nonostante la “notoria nocività del fumo sin dagli anni sessanta”, costituisse una causa interruttiva del nesso causale tra l’attività di produzione delle sigarette e il danno subito.
La svolta della Cassazione: non basta la generica nocività
La Suprema Corte ha ribaltato questa impostazione, stabilendo un principio fondamentale: non è sufficiente la generica consapevolezza della nocività del fumo per configurare un fatto colposo del danneggiato che interrompa il nesso causale. È invece necessario accertare la specifica conoscenza del rischio cancerogeno.
Come chiarisce la sentenza, “la questione controversa non è se vi fosse una generica consapevolezza sociale e personale in ordine alla nocività del fumo, bensì se il fumatore fosse stato specificamente informato e consapevole che il fumo era già a quei tempi cancerogeno”.
L’evoluzione temporale della consapevolezza sociale
La Corte ha tracciato una precisa linea temporale dell’evoluzione della consapevolezza pubblica sui rischi del fumo. Nel 1968, quando il soggetto aveva iniziato a fumare, “va certamente escluso che fosse socialmente nota la correlazione tra fumo e cancro”. L’asimmetria informativa è stata colmata normativamente solo con l’emanazione della legge 428/1990, che ha introdotto l’obbligo di apporre avvertimenti sui pacchetti di sigarette.
Prima di quella data, la normativa si limitava al divieto di pubblicità dei prodotti da fumo (legge n. 165/1962) e al divieto di fumare in determinati luoghi (legge n. 584/1975), senza fornire informazioni specifiche sui rischi cancerogeni.
L’attività pericolosa e gli obblighi del produttore
Confermando un orientamento consolidato, la Cassazione ha ribadito che “la produzione e la commercializzazione di tabacchi lavorati per il fumo integrano gli estremi di un’attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c.”. Questo inquadramento normativo comporta conseguenze decisive sul piano probatorio: il produttore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver adottato “tutte le misure idonee a evitare il danno”.
Tra queste misure rientrano non solo aspetti tecnici della produzione (come l’adozione di filtri o la riduzione delle sostanze cancerogene), ma soprattutto l’adeguata informazione sui rischi specifici del consumo. Come sottolinea la sentenza, “a fortiori il produttore avrebbe dovuto assumere una condotta prudenziale anche solo a livello di obblighi informativi, al fine di dissuadere dall’intraprendere o perseverare nella pratica”.
Il nesso causale in una prospettiva sistematica
La decisione introduce un approccio metodologico innovativo nella valutazione del nesso causale. La Corte critica l’impostazione della Corte d’Appello che aveva “focalizzato l’attenzione solo sull’atto di libera volizione del fumatore”, senza inserirlo “all’interno di una più complessa fattispecie” che comprende l’intera attività di produzione e commercializzazione.
Questo significa che il comportamento del consumatore non può essere valutato isolatamente, ma deve essere considerato nel contesto della pericolosità intrinseca dell’attività e dell’asimmetria informativa esistente al momento dei fatti.
Dipendenza e libertà di autodeterminazione
Un aspetto particolarmente rilevante della pronuncia riguarda il riconoscimento della dipendenza da nicotina come fattore che limita l’autodeterminazione del fumatore. La Corte osserva che “l’assuefazione alla nicotina esclude in radice la stessa possibilità di una libera volizione”, rendendo problematico considerare la mancata cessazione del fumo come una condotta colposa interruttiva del nesso causale.
Le implicazioni pratiche per i futuri contenziosi
Questa sentenza stabilisce criteri più rigorosi per valutare la responsabilità nelle azioni di risarcimento per danni da fumo. In particolare, sarà necessario distinguere tra:
La generica consapevolezza della nocività del fumo, che da sola non è sufficiente a escludere la responsabilità del produttore, e la specifica conoscenza del rischio cancerogeno, che deve essere accertata caso per caso.
Il momento storico in cui è iniziato il consumo di sigarette diventa cruciale: per i fumatori che hanno iniziato prima dell’introduzione degli avvertimenti obbligatori (1990), sarà più difficile per i produttori dimostrare l’adeguata informazione sui rischi.
La valutazione dell’asimmetria informativa tra produttore e consumatore assume un ruolo centrale nella determinazione della responsabilità.
Prospettive future e sviluppi attesi
La decisione della Cassazione apre nuovi scenari per i contenziosi in materia di danni da fumo, potenzialmente estendibili anche ad altri settori caratterizzati da prodotti intrinsecamente pericolosi e asimmetrie informative.
Il principio secondo cui l’attività pericolosa comporta specifici obblighi informativi potrebbe trovare applicazione in ambiti diversi da quello del tabacco, ogni volta che si verifichi uno squilibrio tra le conoscenze del produttore e quelle del consumatore riguardo ai rischi specifici.
Considerazioni conclusive
La sentenza rappresenta un importante passo avanti nel bilanciamento tra libertà individuale e responsabilità d’impresa. Senza negare il principio dell’autodeterminazione, la Corte riconosce che questa deve essere effettivamente informata per poter escludere la responsabilità di chi esercita attività intrinsecamente pericolose.
La decisione sottolinea come l’evoluzione delle conoscenze scientifiche e della consapevolezza sociale debba essere considerata nell’accertamento della responsabilità civile, evitando di applicare retroattivamente standard di conoscenza che non erano disponibili al momento dei fatti.
Per cittadini e professionisti, questa pronuncia evidenzia l’importanza di una corretta informazione sui rischi e la necessità di una valutazione attenta delle circostanze temporali e informative in ogni singolo caso.
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