La Quarta Sezione Penale ribadisce che anche poche piantine possono integrare il reato di coltivazione: conta l’idoneità della sostanza, non la quantità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 655 del 24 giugno 2025, torna a occuparsi di un tema controverso e di grande attualità: quando la coltivazione domestica di piante di cannabis assume rilevanza penale? La questione divide da anni giuristi, operatori del diritto e cittadini, e questa pronuncia offre l’occasione per fare chiarezza sui principi consolidati e sulle sfumature interpretative che caratterizzano questa delicata materia.
La vicenda esaminata dalla Corte
Il caso trae origine dalla condanna di un soggetto per il reato previsto dall’articolo 73, commi 4 e 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo Unico Stupefacenti). L’imputato era stato sorpreso mentre coltivava alcune piantine di canapa indica, di altezza variabile tra i sette e i trentacinque centimetri. La Corte d’Appello di Salerno aveva confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che quella coltivazione, pur svolta in forma domestica, presentasse le caratteristiche della coltivazione penalmente rilevante. A nulla era valso l’argomento difensivo secondo cui il numero esiguo di piante e la loro distribuzione in diversi ambienti dell’abitazione avrebbero dovuto far escludere la sussistenza del reato.
Il quadro normativo e costituzionale di riferimento
Per comprendere la decisione della Cassazione occorre partire dai principi tracciati dalla Corte Costituzionale. Con la storica sentenza n. 360 del 1995, il giudice delle leggi ha riconosciuto la legittimità costituzionale della previsione di illiceità penale persistente per la coltivazione di stupefacenti, anche quando questa sia univocamente destinata all’uso personale e indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto. La condotta resiste alla verifica costituzionale in quanto, pur potendo essere valutata come pericolosa, rimane comunque idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio.
Questa impostazione non ha significato, tuttavia, che ogni forma di coltivazione debba essere automaticamente punita. La Corte Costituzionale ha precisato che rimane affidata al giudice ordinario l’identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide sulla linea di confine del penalmente illecito. Si tratta di una questione meramente interpretativa, rimessa alla valutazione caso per caso della magistratura.
Il principio delle Sezioni Unite: quando la coltivazione è reato
Gli anni successivi hanno visto un acceso dibattito giurisprudenziale sulla necessità che il giudice valutasse in concreto l’offensività di una condotta di coltivazione domestica. I contrasti interpretativi sono stati definitivamente composti dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 12348 del 19 dicembre 2019 (deposito 2020, Caruso). Secondo tale pronuncia, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
Questa sentenza ha ritenuto, tuttavia, che debbano ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile e la mancanza di ulteriori indici di inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
In sostanza, il Supremo Collegio ha tracciato una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti nelle sue diverse accezioni, articolando una soluzione basata sull’affermazione della mancanza di tipicità quando ricorrano tutte le condizioni sopra specificate per la coltivazione domestica destinata all’autoconsumo.
L’applicazione dei principi al caso concreto
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, la Corte d’Appello aveva valorizzato diversi elementi per giungere alla conclusione che quella coltivazione non potesse essere considerata penalmente neutra. Tra i parametri utilizzabili, la Corte territoriale aveva preso in considerazione il numero delle piante messe a dimora, la maggior parte delle quali collocate in un vano sottotetto, e la presenza di un bilancino elettronico di precisione. Ne aveva tratto la conclusione che quella coltivazione non potesse essere considerata di dimensioni minime e neppure di ridottissima produttività potenziale, anche se giustificata dalla necessità di evitare la recessività di altri indici valutabili.
La Cassazione ha condiviso pienamente questa valutazione. Nel solco della giurisprudenza di legittimità, la Corte ha ritenuto l’offensività della condotta non solo in virtù della conformità delle piante al tipo botanico previsto, ma anche per l’attitudine delle stesse a giungere a maturazione. Per coltivazione deve intendersi l’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto. È stato così ritenuto che la messa a coltura di quindici piantine di marijuana non potesse essere considerata coltivazione di minime dimensioni né di ridottissima produttività potenziale.
I giudici di merito, inoltre, non avevano mancato di sottolineare che la destinazione all’uso personale non era in alcun modo giustificata dalla documentazione prodotta dalla difesa, attestante che l’imputato era in carico presso un servizio per le dipendenze con diagnosi da oppiacei. Questo elemento ha contribuito a rafforzare il convincimento che la coltivazione non fosse riconducibile al paradigma dell’autoconsumo penalmente irrilevante.
Le circostanze attenuanti generiche e la sostituzione della pena
La sentenza affronta anche due ulteriori questioni processuali. Il ricorrente lamentava, con il secondo motivo, la violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche alla luce del fatto che era stato considerato di lieve entità. La Corte ha ribadito un principio consolidato: quando decide in ordine all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto degli elementi previsti dall’articolo 133 del codice penale, considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione.
Anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole, all’entità del reato o alle modalità di esecuzione può risultare sufficiente per giustificare il diniego delle attenuanti generiche. La motivazione resa dalla Corte d’Appello, che faceva riferimento ai numerosi precedenti penali anche specifici annoverati dall’imputato, rappresentava una ragione logicamente coerente con le emergenze processuali e risultava quindi insindacabile in sede di legittimità.
Con il terzo motivo di ricorso, l’imputato lamentava la mancata sostituzione della pena detentiva, sul mero presupposto della recidivanza senza tenere conto dell’assenza formale di ostacoli e della maggiore aderenza delle pene sostitutive alle finalità rieducative proprie della pena. La Corte ha dichiarato questo motivo inammissibile per difetto di specificità, rilevando che il ricorrente non aveva indicato per quali ragioni, nel caso concreto, una pena sostitutiva avrebbe dovuto essere valutata più idonea alla rieducazione, né aveva fornito più precise indicazioni nel corso del giudizio.
Le novità normative e la loro applicazione
La sentenza richiama anche il testo vigente della legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificato dal decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150. L’articolo 58 richiede al giudice che debba valutare se applicare una pena sostitutiva di tenere conto dei criteri indicati dall’articolo 133 del codice penale. Questo significa che nel decidere se applicare una pena sostitutiva e nello scegliere quale pena applicare, il giudice deve valutare quale sia la pena più idonea alla rieducazione del condannato e se sia possibile, attraverso opportune prescrizioni, prevenire il pericolo di commissione di altri reati.
Nel motivare sull’applicazione o mancata applicazione delle pene sostitutive, il giudice deve ancora oggi tenere conto dei precedenti penali dell’imputato, anche se non deve valutarli tanto nella prospettiva della meritevolezza del beneficio della sostituzione, quanto nella prospettiva dell’efficacia della pena sostitutiva e della possibilità di considerarla più idonea alla rieducazione rispetto alla pena detentiva.
La giurisprudenza recente ha precisato che, per giustificare la propria prognosi negativa in ordine all’adempimento delle prescrizioni, il giudice può trarre argomenti dalla natura, dal numero dei precedenti e dall’epoca di commissione degli illeciti. Applicando questi principi al caso concreto, la Corte ha rilevato che l’imputato era gravato da precedenti non solo per violazioni della legge in materia di stupefacenti, ma anche per evasione, circostanza che consentiva di valutare non manifestamente illogica la motivazione con cui era stata respinta la richiesta di applicazione di sanzioni sostitutive.
Implicazioni pratiche per cittadini e professionisti
Questa pronuncia offre diversi spunti di riflessione pratica. Per i cittadini è fondamentale comprendere che la coltivazione domestica di piante di cannabis non può essere considerata automaticamente lecita o penalmente irrilevante solo perché destinata all’uso personale. La giurisprudenza richiede una valutazione complessiva che tenga conto di molteplici fattori: il numero delle piante, le tecniche di coltivazione utilizzate, la quantità potenziale di sostanza ricavabile, la presenza di strumenti che possano far pensare a una destinazione commerciale (come bilancini di precisione), e l’assenza di elementi che indichino un inserimento nel mercato illegale.
Per gli operatori del diritto, la sentenza conferma la necessità di un’analisi caso per caso, evitando automatismi valutativi. La difesa di un imputato per coltivazione domestica deve necessariamente articolarsi su una pluralità di elementi fattuali che dimostrino, nel loro complesso, la destinazione esclusivamente personale e la assoluta marginalità dell’attività svolta. Non basta affermare genericamente che le piante erano poche o che la coltivazione avveniva in casa: occorre documentare in modo puntuale le modalità concrete, l’assenza di finalità commerciali, e preferibilmente anche la situazione personale che giustifichi l’utilizzo della sostanza.
La sentenza ricorda inoltre che il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e l’applicazione di pene sostitutive rimangono valutazioni discrezionali del giudice di merito, sindacabili in sede di legittimità solo per manifesta illogicità o contraddittorietà. I precedenti penali, soprattutto se specifici, rappresentano un elemento ostativo significativo che deve essere affrontato con particolare attenzione nelle strategie difensive.
Conclusioni
La sentenza della Cassazione n. 655/2025 si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che cerca di bilanciare la tutela della salute pubblica con il rispetto del principio di offensività e proporzionalità della risposta penale. La coltivazione domestica di cannabis può integrare il reato previsto dal Testo Unico Stupefacenti quando supera determinate soglie di rilevanza, individuate non sulla base di criteri matematici rigidi, ma attraverso una valutazione complessiva delle circostanze concrete.
Per chi si trova ad affrontare procedimenti penali in questa materia, risulta essenziale affidarsi a professionisti esperti che sappiano valorizzare adeguatamente gli elementi fattuali e costruire una strategia difensiva coerente con i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
Hai ricevuto un avviso di garanzia o sei indagato per reato di coltivazione? Contatta il nostro studio per una consulenza specialistica. Il nostro team di avvocati penalisti è a tua disposizione per valutare la tua situazione e costruire la migliore difesa possibile, nel pieno rispetto dei tuoi diritti e delle garanzie processuali.

