La Cassazione chiarisce i limiti della critica giornalistica e conferma il valore probatorio delle riproduzioni digitali
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 39792/2025 depositata il 10 dicembre 2025, è tornata a occuparsi di un tema sempre più attuale nell’era digitale: la diffamazione a mezzo stampa online e i confini del diritto di critica. La decisione, emessa dalla Quinta Sezione Penale, offre importanti chiarimenti su tre questioni fondamentali per chi opera nel mondo dell’informazione digitale e per chi si trova a dover tutelare la propria reputazione online.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un direttore responsabile di un settimanale online che aveva consentito la pubblicazione di due articoli particolarmente duri nei confronti di un alto ufficiale dell’Arma. Gli articoli, pubblicati a febbraio e aprile 2020 su un blog ospitato all’interno della testata, accusavano la persona offesa di aver orchestrato ricatti nei confronti degli inquirenti e di aver organizzato attacchi mediatici per garantirsi l’impunità da indagini a suo carico. L’elemento centrale della vicenda stava nel fatto che gli articoli definivano ripetutamente la persona offesa come “imputato”, quando in realtà all’epoca dei fatti non era ancora stata esercitata l’azione penale nei suoi confronti.
Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello avevano ritenuto integrato il reato di diffamazione aggravata e continuata, escludendo l’operatività della scriminante del diritto di critica. Il direttore responsabile aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, sollevando essenzialmente due questioni: la prima riguardava l’adeguatezza del materiale probatorio utilizzato per dimostrare la paternità degli scritti diffamatori, la seconda concerneva il mancato riconoscimento del diritto di critica.

La questione probatoria: il valore degli screenshot
Sul primo punto, il ricorrente lamentava che la sua responsabilità fosse stata accertata sulla base di semplici screenshot prodotti dalla parte civile, senza alcun supporto tecnico-informatico che ne confermasse autenticità e provenienza. Si trattava di una contestazione rilevante, considerato che nell’ambito dei procedimenti penali la genuinità delle prove acquisite riveste un’importanza cruciale.
La Cassazione ha risposto con un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Le riproduzioni informatiche di pagine web o di messaggi, quali gli screenshot, rientrano pienamente nella categoria delle prove documentali disciplinate dall’articolo 234 del codice di procedura penale. Queste riproduzioni sono pienamente utilizzabili in quanto rappresentano fatti, persone o cose, esattamente come qualsiasi altro mezzo riproduttivo di immagini. La fotografia istantanea dello schermo di un dispositivo elettronico sul quale sia visibile una pagina web costituisce quindi un documento perfettamente legittimo, che si caratterizza solamente per il suo oggetto specifico: uno schermo sul quale siano leggibili messaggi di testo o altri contenuti.
Non è quindi imposto dalla legge alcun adempimento particolare per il compimento di tale attività. Il giudice è libero di valutare questa prova documentale e trarne elementi di convincimento circa i fatti rappresentati, come avviene per qualsiasi altra prova. Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto attendibili gli screenshot anche in considerazione del fatto che la Polizia Giudiziaria aveva svolto accertamenti diretti sul sito internet in questione, confermando l’esistenza degli articoli e la loro provenienza dalla testata diretta dall’imputato.
Il diritto di critica: i tre requisiti invalicabili
La seconda e più importante questione affrontata dalla Cassazione riguarda i limiti entro i quali può esercitarsi legittimamente il diritto di critica, causa di giustificazione del reato di diffamazione prevista dall’articolo 51 del codice penale.
La Suprema Corte ha ribadito con chiarezza che l’esercizio del diritto di critica, per poter scriminare il reato di diffamazione, postula il rispetto di tre limiti invalicabili. Il primo è la pertinenza dell’argomento trattato, ovvero deve sussistere un interesse pubblico alla notizia. Il secondo è la continenza espressiva, che significa che la critica, pur potendo assumere toni aspri e polemici, non deve mai trasmodare in attacchi personali gratuiti o in espressioni inutilmente umilianti. Il terzo requisito, quello primario e fondamentale, è la verità del fatto storico su cui la critica si innesta.
Quest’ultimo elemento riveste un’importanza particolare. La giurisprudenza è costante nell’affermare che la critica, per quanto legittima, deve sempre poggiare su una base fattuale vera. Non può essere scriminata la falsa attribuzione di una condotta scorretta o infamante, utilizzata come fondamento per esporre a critica un personaggio pubblico. La critica non può essere fantasiosa o astrattamente speculativa, ma deve fondarsi sull’oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni espresse. Il nucleo essenziale della notizia non può essere strumentalmente travisato o manipolato per sostenere un’aggressione all’altrui reputazione.
Nel caso esaminato, i giudici di merito avevano correttamente escluso la sussistenza del requisito della verità. Gli articoli pubblicati nel febbraio e nell’aprile 2020 definivano ripetutamente la persona offesa come “imputato”, quando tale qualifica non corrispondeva al vero. All’epoca dei fatti, infatti, non risultava che fosse stata esercitata l’azione penale nei confronti dell’interessato, anche se successivamente questi fu effettivamente processato.
La Cassazione ha evidenziato un principio fondamentale: la veridicità della notizia deve essere valutata con riferimento al momento della sua pubblicazione. L’eventuale successiva assunzione della qualità di imputato da parte della persona offesa non può sanare retroattivamente la falsità dell’informazione diffusa in un momento antecedente. Non è quindi possibile confondere la posizione di “indagato” con quella di “imputato”, trattandosi di situazioni processuali distinte e ben differenziate nel nostro ordinamento.
Mancando il requisito essenziale della verità del fatto storico posto a fondamento degli articoli, i giudici hanno correttamente escluso l’applicabilità della scriminante, senza neppure dover verificare gli ulteriori requisiti della pertinenza e della continenza.
Il limite della continenza espressiva
La Corte ha comunque ritenuto opportuno soffermarsi anche sul secondo requisito, quello della continenza, per completezza di argomentazione. Anche sotto questo profilo, la scriminante non avrebbe potuto operare. La continenza espressiva postula che la critica, pur potendo assumere toni aspri, polemici e sferzanti, non deve mai trasmodare in attacchi personali gratuiti, in espressioni inutilmente umilianti o infamanti, o in argomenti ad hominem volti a demolire la figura morale e personale del criticato anziché a confutarne le idee o i comportamenti.
Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva rilevato un’accurata e intenzionale ricerca, nella esposizione dei fatti, di frasi ed espressioni ad effetto, volutamente molto offensive e del tutto sganciate dall’esigenza di narrazione obiettiva. Le locuzioni utilizzate negli articoli non costituivano una critica, per quanto severa, all’operato della persona offesa, ma si risolvevano in un attacco diretto alla sua dignità personale e in una gratuita attribuzione di comportamenti criminali. Espressioni come “testa sicuramente bacata” eccedevano ampiamente i limiti della correttezza formale e configuravano un’aggressione personale non scriminabile.
Implicazioni pratiche per giornalisti e direttori responsabili
Questa sentenza offre importanti indicazioni operative per tutti coloro che operano nel settore dell’informazione online. I direttori responsabili di testate giornalistiche devono prestare particolare attenzione alla veridicità delle notizie pubblicate, soprattutto quando queste riguardano vicende giudiziarie. La confusione tra le diverse posizioni processuali – indagato, imputato, condannato – può costare cara in termini di responsabilità penale.
La verifica delle fonti non può limitarsi a un controllo superficiale. È necessario accertarsi che i fatti narrati corrispondano alla realtà al momento della pubblicazione, non limitandosi a riferire voci o indiscrezioni. Il fatto che successivamente una persona finisca effettivamente sotto processo non giustifica una notizia falsa pubblicata in precedenza.
Sul fronte della continenza espressiva, emerge con chiarezza che la critica giornalistica, per quanto possa essere dura e pungente, deve sempre mantenersi entro i limiti del rispetto della dignità personale. Gli attacchi personali, le espressioni gratuitamente offensive, le insinuazioni infamanti prive di base fattuale non trovano alcuna protezione nell’alveo del diritto di critica.
La tutela della reputazione nell’era digitale
Per i cittadini e i professionisti che si trovano vittime di diffamazione online, questa sentenza conferma che gli strumenti di tutela sono efficaci e che le riproduzioni digitali costituiscono prove pienamente valide. Non è necessario disporre di perizie informatiche complesse per dimostrare l’esistenza di contenuti diffamatori pubblicati online: gli screenshot, accompagnati da altri elementi di riscontro, sono sufficienti a fondare l’accertamento della responsabilità.
La decisione evidenzia inoltre come la tutela della reputazione sia un bene primario che l’ordinamento protegge con rigore, anche quando questa si scontra con la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di critica. Quest’ultimo non è un lasciapassare per pubblicare contenuti falsi o gratuitamente offensivi, ma deve sempre rispettare i tre requisiti fondamentali: verità, pertinenza e continenza.
Conclusioni
La sentenza della Cassazione n. 39792/2025 rappresenta un importante contributo alla definizione dei confini tra libertà di informazione e tutela della reputazione nel contesto digitale. I principi affermati sono chiari: gli screenshot costituiscono prove documentali legittime, il diritto di critica richiede una base fattuale vera, la verità va valutata al momento della pubblicazione, e la critica non può mai trasformarsi in un attacco personale gratuito.
Per chi opera nel settore dell’informazione, questi principi costituiscono una guida operativa imprescindibile. Per chi subisce diffamazione online, rappresentano una conferma della possibilità di tutelare efficacemente la propria reputazione anche nel mondo digitale.
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