Diffamazione online: quando la critica trasmoda nell’offesa personale

La Cassazione ribadisce i limiti del diritto di critica e conferma la validità degli screenshot come prova documentale

Con sentenza n. 39792 del 10 dicembre 2025, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione aggravata e continuata di un direttore responsabile di una testata online, chiarendo importanti principi in materia di diritto di critica e di prova documentale nei reati commessi attraverso internet.

La vicenda riguarda la pubblicazione, su un blog ospitato all’interno di un settimanale online, di due articoli apparsi nel febbraio e nell’aprile 2020, nei quali una persona veniva descritta come soggetto che, pur appartenendo alle Forze dell’ordine, aveva posto in essere ricatti nei confronti degli inquirenti e orchestrato attacchi mediatici nei loro confronti. Il tribunale di primo grado aveva condannato il direttore responsabile della testata alla pena di €1.000 di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello e ora dalla Cassazione.

I confini del diritto di critica: verità, pertinenza e continenza

Il primo e più rilevante profilo affrontato dalla Suprema Corte attiene ai limiti entro cui può esercitarsi legittimamente il diritto di critica quale scriminante del reato di diffamazione ex art. 51 cod. pen.

La giurisprudenza consolidata ha da tempo individuato tre requisiti essenziali affinché il diritto di critica possa operare come causa di giustificazione: la verità del fatto storico su cui la critica si innesta, la pertinenza (o interesse pubblico) dell’argomento trattato e la continenza espressiva. Questi tre elementi devono coesistere congiuntamente, e il difetto anche di uno solo di essi preclude l’operatività della scriminante.

Nel caso di specie, la Cassazione ha evidenziato come difettasse già il primo e fondamentale requisito: la verità del fatto. Gli articoli pubblicati definivano ripetutamente la persona offesa come “imputato”, mentre tale qualifica non corrispondeva al vero, non essendo stata esercitata l’azione penale nei suoi confronti all’epoca della pubblicazione degli articoli. La Corte chiarisce un principio importante: la veridicità della notizia deve essere valutata con riferimento al momento della sua pubblicazione. L’eventuale successiva assunzione della qualità di imputato da parte della persona offesa non può sanare retroattivamente la falsità dell’informazione diffusa in un momento antecedente.

La sentenza ribadisce che la critica, pur potendo assumere toni aspri e polemici, deve restare ancorata all’esistenza di una base fattuale vera e non può tollerare gratuiti attacchi alla reputazione scollegati da essa. L’esercizio del diritto di critica può certamente rendere non punibili espressioni anche dure e giudizi di per sé ingiuriosi, quando siano tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta e infamante, utilizzata come fondamento per l’esposizione a critica del personaggio stesso.

Come ha efficacemente affermato la Corte, la critica non può essere “fantasiosa o astrattamente speculativa”, ma deve fondarsi sull’oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni espresse. La verità deve riguardare il nucleo essenziale della notizia, che non può essere strumentalmente travisato o manipolato per sostenere un’aggressione all’altrui reputazione.

Il superamento del limite della continenza espressiva

A completamento dell’analisi, la Cassazione ha ritenuto che nella fattispecie fosse stato comunque superato anche il limite della continenza espressiva. Questo limite postula che la critica, pur potendo assumere toni aspri, polemici e sferzanti, non deve mai trasmodare in attacchi personali gratuiti, in espressioni inutilmente umilianti o infamanti, o in argomenti ad hominem volti a demolire la figura morale e personale del criticato, anziché a confutarne le idee o i comportamenti.

La Corte d’Appello, con motivazione ritenuta logica e congrua dalla Cassazione, aveva ravvisato nelle espressioni utilizzate negli articoli una “accurata, intenzionale ricerca, nella esposizione dei fatti, di frasi ed espressioni ad effetto, volutamente molto offensive, del tutto sganciate dall’esigenza di narrazione obiettiva dei fatti”. Le locuzioni impiegate non costituivano una critica, per quanto severa, all’operato della persona offesa, ma si risolvevano in un attacco diretto alla sua dignità personale e in una gratuita attribuzione di abitudini criminali e incapacità, eccedendo così ampiamente i limiti della correttezza formale e configurando un’aggressione personale non scriminabile.

La responsabilità del direttore e la questione probatoria

Un altro profilo di interesse della sentenza riguarda la responsabilità del direttore responsabile di una testata telematica. Il ricorrente aveva contestato l’attribuzione della paternità degli scritti, lamentando imprecisioni nella denominazione del sito internet e riferimenti temporali inconferenti.

La Cassazione ha rigettato queste censure, qualificandole come questioni nuove o comunque non conducenti rispetto alla ratio decidendi. I giudici hanno chiarito che la sentenza d’Appello faceva chiaro riferimento agli accertamenti compiuti dalla Polizia Giudiziaria, che avevano identificato nel ricorrente il direttore responsabile del settimanale all’epoca dei fatti, ovvero al momento della pubblicazione degli articoli nel 2020. Eventuali imprecisioni nella denominazione del sito costituivano meri errori materiali che non compromettevano la tenuta logica della motivazione.

Gli screenshot come prova documentale: principio consolidato

Di particolare rilevanza pratica è il principio affermato dalla Cassazione in materia di prova documentale nei reati commessi attraverso internet. Il ricorrente aveva contestato l’adeguatezza probatoria dei semplici screenshot prodotti dalla parte civile, in assenza di accertamenti tecnici volti a confermarne l’autenticità e la provenienza.

La Suprema Corte ha respinto questa censura, richiamando la giurisprudenza ormai consolidata secondo cui le riproduzioni informatiche di pagine web o di messaggi, quali gli screenshot, rientrano nella categoria delle prove documentali di cui all’art. 234 cod. proc. pen. e sono pienamente utilizzabili, in quanto rappresentano fatti, persone o cose, così come qualsiasi altro mezzo riproduttivo di immagini.

È legittima l’acquisizione, come documento, di una pagina di un social network o di un sito internet mediante la realizzazione di una fotografia istantanea dello schermo di un dispositivo elettronico sul quale la stessa è visibile. Tale mezzo di prova si caratterizza solamente per il suo oggetto, costituito da uno schermo sul quale siano leggibili messaggi di testo, senza che sia imposto dalla legge alcun adempimento specifico per il compimento di tale attività.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva correttamente valutato gli screenshot come prova documentale, traendone elementi probatori circa i fatti rappresentati. Tale valutazione di attendibilità era stata rafforzata dal richiamo alle indagini della Polizia Giudiziaria direttamente sul sito in questione, che avevano confermato l’esistenza degli scritti ripresi negli screenshot e la loro provenienza dal sito diretto dall’imputato.

Le implicazioni pratiche della decisione

Questa pronuncia riveste notevole importanza per diverse categorie di soggetti e per la corretta gestione della comunicazione online.

Per i direttori responsabili di testate giornalistiche online e i gestori di blog, la sentenza costituisce un monito sulla necessità di esercitare un controllo rigoroso sui contenuti pubblicati. Il diritto di critica, pur costituzionalmente garantito, non è illimitato e deve sempre rispettare i requisiti della verità, della pertinenza e della continenza. Prima della pubblicazione di articoli che coinvolgano la reputazione di persone, occorre verificare scrupolosamente la corrispondenza al vero dei fatti narrati, con particolare attenzione a qualifiche giuridiche come quella di “indagato” o “imputato”, che hanno un preciso significato tecnico e la cui erronea attribuzione può costituire elemento di diffamazione.

Per i giornalisti e gli autori di contenuti online, la decisione chiarisce che l’asprezza della critica, di per sé, non integra necessariamente diffamazione, purché si fondi su fatti veri e non trasmodi in attacchi personali gratuiti. È lecito stigmatizzare comportamenti realmente accaduti, anche con espressioni dure, ma non è consentito inventare o distorcere i fatti per sostenere la propria tesi critica. La linea di confine tra critica legittima e diffamazione passa attraverso l’ancoraggio a una base fattuale veritiera e il mantenimento di uno stile che, pur potendo essere polemico, non degeneri in umiliazioni personali o attribuzioni infamanti prive di fondamento.

Per le persone offese e i loro legali, la sentenza conferma la piena utilizzabilità degli screenshot come mezzo di prova nei procedimenti per diffamazione a mezzo internet. Non è necessario disporre di complesse perizie informatiche o di accertamenti tecnici particolarmente onerosi: una semplice fotografia dello schermo che ritrae i contenuti diffamatori costituisce prova documentale legittima e utilizzabile in giudizio. Naturalmente, tale prova può essere corroborata da ulteriori accertamenti (come le verifiche della Polizia Giudiziaria sul sito), ma la sua validità di per sé non è subordinata a formalità specifiche.

Per gli operatori del diritto, la pronuncia ribadisce i consolidati principi in materia di scriminanti della diffamazione, fornendo utili criteri applicativi per distinguere la critica legittima dall’offesa penalmente rilevante. In particolare, emerge con chiarezza il principio secondo cui la verità del fatto deve essere valutata al momento della pubblicazione e non può essere sanata da eventi successivi. Questo ha importanti ricadute nella valutazione delle difese basate sulla successiva verifica delle notizie pubblicate.

Conclusioni e insegnamenti per la comunicazione digitale

La sentenza n. 39792/2025 della Cassazione si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che mira a bilanciare il diritto di cronaca e critica con la tutela della reputazione delle persone. Il web e i social media hanno amplificato enormemente la portata e la velocità di diffusione delle informazioni, rendendo ancora più delicato questo equilibrio.

I principi di diritto affermati possono essere così sintetizzati: il diritto di critica, quale causa di giustificazione del reato di diffamazione ex art. 51 cod. pen., richiede la sussistenza congiunta di tre requisiti essenziali – verità del fatto storico su cui la critica si innesta, pertinenza dell’argomento e continenza espressiva. La verità deve riguardare il nucleo essenziale della notizia e deve essere valutata al momento della pubblicazione, senza che eventi successivi possano sanare la falsità originaria. La continenza espressiva tollera toni aspri e polemici, ma non consente attacchi personali gratuiti o espressioni inutilmente umilianti sganciate dall’esigenza di narrazione obiettiva. Gli screenshot di pagine web costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., senza necessità di specifici adempimenti formali, potendo essere liberamente valutati dal giudice quanto alla loro attendibilità.

Per chi opera nel campo della comunicazione digitale, il messaggio è chiaro: la libertà di espressione è un valore fondamentale, ma comporta anche responsabilità. Prima di pubblicare contenuti che possano incidere sulla reputazione altrui, è essenziale verificare i fatti, mantenersi nei limiti della continenza e comprendere che la velocità del web non giustifica la superficialità o l’aggressività gratuita.

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