L’ordinanza n. 39103/2025 della Quinta Sezione Penale chiarisce che il diritto di critica, anche politica, non esonera dall’obbligo di verificare la veridicità dei fatti prima di pubblicarli sui social network
L’utilizzo dei social network come strumento di denuncia e sensibilizzazione su temi di interesse pubblico è ormai pratica diffusa, soprattutto da parte di attivisti e esponenti di movimenti politici. Ma fino a che punto è lecito pubblicare critiche nei confronti di pubblici funzionari? E quali sono i limiti che anche l’attivismo politico deve rispettare?
A queste domande risponde la recente sentenza della Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, n. 39103 depositata il 3 dicembre 2025, che ha confermato la condanna per diffamazione aggravata di un esponente di un partito animalista che aveva pubblicato su Facebook pesanti accuse nei confronti di un veterinario dell’ASP.

I fatti: l’accusa di omissione rivolta al veterinario pubblico
La vicenda trae origine da un post pubblicato su Facebook da un attivista, all’epoca capo della Segreteria Nazionale del Partito Animalista Europeo. Nel messaggio, l’esponente politico accusava un medico veterinario dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Trapani di essersi rifiutato di intervenire per soccorrere un cane randagio agonizzante, presumibilmente avvelenato, rinvenuto nel Comune di Paceco. Secondo quanto pubblicato sul social network, il veterinario, pur essendo di turno e quindi reperibile, non si sarebbe recato sul posto per prestare le cure necessarie all’animale, omettendo così un atto dovuto nell’esercizio delle proprie funzioni e configurando il reato di rifiuto di atti d’ufficio previsto dall’art. 328 del codice penale.
La ricostruzione processuale: una notizia parziale e distorta
I giudici di merito, in primo e secondo grado, hanno ricostruito con precisione l’effettivo svolgimento dei fatti, giungendo a conclusioni radicalmente diverse rispetto alla versione divulgata sul social network. È emerso infatti che il veterinario pubblico non era affatto tenuto a intervenire personalmente nel Comune di Paceco, poiché tale municipio non disponeva di una struttura ambulatoriale pubblica dove prestare le prime cure veterinarie. Per ovviare a questa carenza, il Comune aveva stipulato una convenzione con un ambulatorio veterinario privato, proprio per gestire le emergenze come quella verificatasi, ossia animali feriti o agonizzanti rinvenuti sulla pubblica via.
Il veterinario pubblico, una volta ricevuta la segnalazione, si era immediatamente attivato contattando i Carabinieri e invitandoli a mettersi in comunicazione con i vigili urbani del Comune di Paceco, affinché venisse allertato il veterinario convenzionato. Quest’ultimo era effettivamente intervenuto tempestivamente, prelevando l’animale dalla strada e conducendolo presso il proprio ambulatorio per prestargli le cure necessarie.
La Corte ha inoltre accertato un elemento decisivo: l’autore del post si era personalmente recato presso l’ambulatorio del veterinario che aveva soccorso l’animale, venendo quindi a conoscenza diretta di tutti i particolari della vicenda e dell’evoluzione temporale dei fatti. Nonostante questa conoscenza, aveva comunque scelto di pubblicare su Facebook una ricostruzione parziale e distorta, omettendo di riferire che l’animale era stato soccorso e che non era addebitabile alcuna omissione o ritardo al veterinario di turno.
La natura del reato: diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità
Il Tribunale di primo grado ha riconosciuto la sussistenza del reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, del codice penale. La diffamazione consiste nell’offesa all’altrui reputazione comunicata a più persone, e risulta aggravata quando viene realizzata con qualsiasi mezzo di pubblicità. I social network, per la loro capacità di raggiungere un numero potenzialmente illimitato di destinatari, costituiscono certamente mezzi di pubblicità ai fini dell’applicazione della circostanza aggravante.
Nel caso specifico, l’accusa rivolta al veterinario di essersi rifiutato di prestare soccorso a un animale in difficoltà, pur essendovi tenuto per la propria qualifica professionale, risultava oggettivamente lesiva della sua reputazione professionale e del suo onore. Attribuire a un pubblico funzionario la commissione di un reato nell’esercizio delle proprie funzioni costituisce infatti una delle forme più gravi di diffamazione, idonea a minare la credibilità e l’affidabilità della persona nell’ambito della propria attività lavorativa.
La difesa invoca il diritto di critica politica: l’analisi della Cassazione
Dinanzi alla Corte di Cassazione, la difesa ha articolato tre motivi di ricorso, concentrando la propria strategia difensiva sull’invocazione del diritto di critica, inquadrato nella dimensione dell’attivismo politico. L’imputato infatti ricopriva all’epoca dei fatti un ruolo apicale all’interno del Partito Animalista Europeo e utilizzava abitualmente i canali social per la propria opera divulgativa in materia di tutela dei diritti degli animali.
Secondo la difesa, la pubblicazione del post doveva essere ricondotta all’esercizio del diritto di critica garantito dall’art. 21 della Costituzione e costituire una causa di giustificazione ai sensi dell’art. 51 del codice penale, che esclude la punibilità di chi agisce nell’esercizio di un diritto. In subordine, si invocava il riconoscimento dell’esimente putativa, sostenendo che l’imputato aveva agito nella ragionevole convinzione di esercitare legittimamente il proprio diritto di critica, avendo ritenuto in buona fede che il veterinario avesse violato i doveri connessi alla propria funzione.
I limiti del diritto di critica: il requisito imprescindibile della veridicità
La Suprema Corte ha respinto questa tesi difensiva, richiamando i consolidati principi giurisprudenziali che regolano i confini del diritto di critica. Il diritto di critica, anche quella politica più aspra, quando si fonda su un fatto determinato del quale sono precisati gli esatti contorni, non può mai prescindere dalla veridicità di tale fatto. L’esimente del diritto di critica non è applicabile quando l’agente manipola le notizie o le rappresenta in modo incompleto, in maniera tale che, pur contenendo il risultato complessivo un nucleo di verità, ne risulti stravolto il fatto inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati.
La Cassazione ha citato propri precedenti che chiariscono come la falsità sia integrata anche nel caso in cui la notizia sia stata divulgata volontariamente solo in modo parziale e distorto. Non è quindi sufficiente che un singolo elemento della vicenda corrisponda al vero – nel caso specifico, che effettivamente il veterinario pubblico non fosse intervenuto materialmente sul posto – se poi vengono omessi altri elementi essenziali per una corretta comprensione dei fatti, quali l’intervento tempestivo del veterinario convenzionato e l’impossibilità per il veterinario pubblico di prestare soccorso nel luogo dell’emergenza.
L’onere di verifica della notizia: un obbligo che non ammette eccezioni
Un passaggio particolarmente significativo della motivazione riguarda l’onere di verifica della veridicità della notizia prima della sua divulgazione. La Corte ha evidenziato come, nel caso di specie, tale verifica sarebbe stata di facile e pronta acquisizione da parte dell’imputato, essendosi questi personalmente presentato presso l’ambulatorio del veterinario che aveva soccorso l’animale. L’attivista aveva quindi avuto accesso diretto a tutte le informazioni necessarie per ricostruire correttamente l’accaduto.
La mancata verifica appare ancora più grave considerando che l’imputato aveva pubblicato il post all’indomani dell’accaduto, quando era già a conoscenza – per averlo constatato di persona – che l’animale era stato soccorso. Ciononostante, aveva scelto di attribuire il mancato intervento alla “pigrizia” del veterinario pubblico, che secondo la sua ricostruzione avrebbe preferito rimanere comodamente nella propria abitazione piuttosto che mettersi in viaggio verso un luogo distante circa 35 chilometri dalla propria residenza.
La Corte ha inoltre sottolineato come l’imputato, in ragione del suo ruolo di esperto in materia di tutela degli animali e conoscitore delle regole amministrative del settore, fosse perfettamente consapevole che il veterinario pubblico non era tenuto a intervenire nelle circostanze descritte. Questa consapevolezza esclude completamente la buona fede e rende inapplicabile l’esimente putativa del diritto di critica, configurabile solo nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati.
La differenza tra cronaca e critica nell’era dei social media
Un altro aspetto interessante affrontato dalla sentenza riguarda la distinzione tra diritto di cronaca e diritto di critica. La difesa aveva contestato alla Corte d’Appello di aver inquadrato il fatto nell’ambito della cronaca giornalistica, che impone obblighi più stringenti di verifica, laddove si sarebbe dovuto trattare la vicenda sotto il profilo del diritto di critica politica esercitato da un attivista attraverso i canali social, con standard di controllo meno severi.
La Cassazione ha ritenuto questo rilievo inconferente, evidenziando che nella fattispecie concreta la distinzione tra cronaca e critica risultava sfumata. L’imputato infatti, attraverso l’espressione del proprio disappunto per il comportamento del veterinario, aveva segnalato un fatto come realmente accaduto nei termini riportati, quando invece esso si era svolto in maniera oggettivamente diversa. Si trattava quindi, più che di pura critica, di una vera e propria attività di pseudo-cronaca, consistente nella narrazione distorta di un episodio presentato come accadimento reale.
L’irrilevanza della posizione politica dell’autore della pubblicazione
La sentenza affronta anche la questione della rilevanza della qualifica politica dell’autore della pubblicazione diffamatoria. Il fatto che l’imputato ricoprisse un ruolo apicale all’interno di un movimento politico e utilizzasse i social network come strumento ordinario di comunicazione nell’ambito della propria attività di divulgazione non costituisce, secondo la Suprema Corte, un elemento idoneo ad attenuare l’obbligo di verifica della veridicità delle notizie divulgate.
Non può ravvisarsi, in altri termini, una sorta di “immunità” o di standard meno rigorosi per chi operi in ambito politico o di attivismo sociale. Al contrario, proprio chi riveste un ruolo di responsabilità all’interno di organizzazioni politiche e gode di una certa visibilità pubblica dovrebbe prestare ancora maggiore attenzione alla correttezza e alla completezza delle informazioni che diffonde, considerata la maggiore capacità di influenzare l’opinione pubblica e la più ampia risonanza delle proprie dichiarazioni.
L’esclusione dell’errore su legge extrapenale
Un secondo motivo di ricorso, respinto dalla Cassazione, riguardava l’invocazione dell’errore su legge extrapenale previsto dall’art. 47, comma 3, del codice penale. La difesa sosteneva che l’eventuale errore dell’imputato nel ritenere sussistente un obbligo di intervento in capo al veterinario dell’ASP costituisse un classico esempio di errore su norma extrapenale che integra la norma penale in bianco, nella specie l’art. 328 c.p. che l’attivista riteneva violato dal veterinario.
La Suprema Corte ha respinto anche questa doglianza, evidenziando come non fosse configurabile alcun errore scusabile nella fattispecie. L’imputato, in ragione delle sue specifiche competenze settoriali e del ruolo di esperto che ricopriva in materia di tutela degli animali, non poteva invocare un errore sulla normativa amministrativa che regola l’intervento dei veterinari pubblici. La sua conoscenza della materia rendeva del tutto implausibile la tesi secondo cui avrebbe agito nella convinzione erronea che il veterinario fosse obbligato a intervenire personalmente.
La mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto
Il terzo motivo di ricorso lamentava la mancata applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto previsto dall’art. 131-bis del codice penale, che consente di prosciogliere l’imputato quando l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. La Cassazione ha dichiarato questo motivo inammissibile, rilevando che la questione non era stata sollevata in appello e che, in ogni caso, le circostanze del caso concreto non permettevano di ritenere il fatto di particolare tenuità.
I giudici avevano infatti sottolineato in più punti della motivazione la gravità della condotta, consistente nella divulgazione consapevole di una notizia falsa e gravemente lesiva della reputazione professionale di un pubblico funzionario, diffusa attraverso un mezzo di comunicazione di massa quale Facebook, con conseguente amplificazione del danno reputazionale.
Le implicazioni pratiche: cosa devono sapere gli utenti dei social network
La sentenza in commento offre importanti indicazioni per tutti coloro che utilizzano i social network come strumento di comunicazione, denuncia o critica. Il primo principio da tenere sempre presente è che la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione non è un diritto assoluto e incondizionato, ma trova un limite nel rispetto della reputazione altrui, anch’essa costituzionalmente tutelata.
Chi intende pubblicare su Facebook, Instagram, Twitter o altri social network critiche o denunce nei confronti di persone determinate, soprattutto se si tratta di pubblici funzionari o professionisti, deve sempre verificare con estrema accuratezza la veridicità delle informazioni che intende divulgare. L’onere di verifica grava su chiunque pubblichi contenuti potenzialmente lesivi della reputazione altrui, indipendentemente dal fatto che si tratti di un giornalista professionista, di un politico, di un attivista o di un semplice cittadino.
La verifica deve riguardare non solo l’esistenza di un nucleo di verità nella vicenda narrata, ma anche la completezza e la correttezza della ricostruzione complessiva. Pubblicare una versione parziale dei fatti, omettendo elementi essenziali che ne modificherebbero il significato, equivale a divulgare una notizia falsa e può integrare il reato di diffamazione.
Attivisti, influencer e comunicatori digitali: responsabilità accresciute
La sentenza riveste particolare importanza per chi opera professionalmente o abitualmente nel campo della comunicazione digitale, come attivisti, influencer, blogger o gestori di pagine social con un numero significativo di follower. Queste figure, proprio in ragione della maggiore visibilità e della capacità di influenzare l’opinione pubblica, hanno una responsabilità ancora più elevata nella verifica dell’accuratezza delle informazioni che diffondono.
Il fatto di operare in un contesto di attivismo politico o sociale, lungi dal costituire un’attenuante, rappresenta piuttosto un elemento che accentua la necessità di rigore e precisione nella comunicazione. Chi si pone come punto di riferimento per una comunità di cittadini su determinate tematiche deve essere consapevole che le proprie parole hanno un peso maggiore e possono causare danni significativi alla reputazione delle persone che vengono tirate in causa.
I confini tra denuncia legittima e gogna mediatica
La vicenda esaminata dalla Cassazione solleva anche una riflessione più ampia sul sottile confine che separa la legittima denuncia di comportamenti ritenuti scorretti dalla cosiddetta “gogna mediatica” o “giustizia sommaria” dei social network. È lecito e spesso doveroso segnalare pubblicamente inefficienze, omissioni o comportamenti scorretti da parte di chi riveste funzioni pubbliche o svolge professioni che incidono su diritti fondamentali dei cittadini.
Tuttavia, questa attività di denuncia deve sempre rispettare alcuni parametri fondamentali: la verifica accurata dei fatti, la completezza della ricostruzione, l’assenza di toni gratuitamente offensivi e, soprattutto, il rispetto della presunzione di innocenza. Accusare pubblicamente una persona di aver commesso un reato, senza disporre di elementi certi e completi, significa sostanzialmente sostituirsi all’autorità giudiziaria, unica deputata ad accertare responsabilità penali.
Il ruolo dei commenti e delle reazioni: quale responsabilità?
Un aspetto interessante, anche se marginale rispetto al cuore della decisione, riguarda i commenti diffamatori che altri utenti avevano pubblicato sotto il post dell’attivista. La difesa aveva infatti sollevato la questione della responsabilità per tali commenti, sostenendo che non potesse ravvisarsi in capo al titolare della pagina Facebook una posizione di garanzia analoga a quella del direttore di una testata giornalistica.
La Corte ha rilevato che questi commenti non erano stati contestati all’imputato nell’imputazione e costituivano quindi un elemento estraneo al processo. Tuttavia, la questione rimane di grande attualità: chi pubblica un post diffamatorio su un social network può essere chiamato a rispondere anche delle reazioni e dei commenti che tale pubblicazione suscita? La giurisprudenza tende a escludere una responsabilità automatica per i contenuti pubblicati da terzi, ma la questione merita ulteriori approfondimenti, soprattutto quando il post originario sia palesemente idoneo a scatenare una campagna di odio o di aggressione verbale nei confronti della persona indicata.
Criteri per un utilizzo consapevole e responsabile dei social network
Alla luce dei principi affermati dalla sentenza, è possibile individuare alcuni criteri pratici per un utilizzo consapevole e responsabile dei social network quando si intende esercitare il diritto di critica o di denuncia. Prima di pubblicare qualsiasi contenuto che coinvolga persone determinate è necessario verificare accuratamente i fatti, assicurandosi di avere una conoscenza completa e non parziale della vicenda. Se non si dispone di tutti gli elementi, è preferibile astenersi dalla pubblicazione o quantomeno accompagnare il post con espressioni che evidenzino l’incertezza o la parzialità delle informazioni disponibili.
È inoltre opportuno distinguere sempre tra fatti e opinioni. I fatti devono essere riportati con precisione e completezza, mentre le opinioni e le valutazioni critiche devono essere chiaramente presentate come tali, evitando di confondere i due piani. L’uso di toni misurati e rispettosi, anche quando si esprime una critica severa, contribuisce a mantenere il confronto nei limiti della civiltà giuridica e a ridurre il rischio di incorrere in responsabilità penali.
Infine, è sempre consigliabile, prima di pubblicare contenuti particolarmente delicati, consultare un legale che possa valutare il rischio di incorrere in responsabilità civili o penali. Una consulenza preventiva può evitare conseguenze giudiziarie spiacevoli e contribuire a un dibattito pubblico più consapevole e rispettoso dei diritti di tutti.
Conclusioni: libertà di espressione e responsabilità nell’era digitale
La sentenza n. 39103/2025 della Cassazione rappresenta un importante tassello nella definizione dei confini tra libertà di espressione e tutela della reputazione nell’era dei social network. La Suprema Corte ribadisce con chiarezza che l’utilizzo di piattaforme digitali per esercitare il diritto di critica, anche politica, non riduce in alcun modo l’onere di verifica della veridicità delle notizie divulgate e la responsabilità per i contenuti pubblicati.
Il caso esaminato dimostra come la diffusione di notizie false o parziali su Facebook possa integrare il reato di diffamazione aggravata, con conseguenze penali significative per l’autore della pubblicazione. L’eventuale ruolo politico o di attivista, lungi dal costituire un’attenuante o una giustificazione, rappresenta piuttosto un elemento che accentua la gravità della condotta, in ragione della maggiore capacità di influenzare l’opinione pubblica.
Per chi opera quotidianamente nel campo della comunicazione digitale, sia a livello professionale che amatoriale, il messaggio della Cassazione è chiaro: la libertà di espressione è un diritto fondamentale, ma comporta anche precise responsabilità. Prima di pubblicare contenuti che possano ledere la reputazione altrui è necessario verificare con estrema accuratezza i fatti, assicurarsi della completezza delle informazioni e valutare attentamente le possibili conseguenze delle proprie parole.
Il nostro studio legale è specializzato in diritto penale e nella tutela della reputazione online. Offriamo consulenza personalizzata sia a chi abbia subito diffamazione attraverso i social network, sia a chi intenda esercitare in modo consapevole e legittimo il proprio diritto di critica evitando di incorrere in responsabilità penali. Contattaci per una valutazione del tuo caso specifico e per ricevere assistenza qualificata nella gestione delle controversie legate alla comunicazione digitale.

