La Cassazione chiarisce i criteri per verificare chi sia il reale destinatario dei dividendi nelle operazioni transfrontaliere
Quando una società italiana distribuisce dividendi a una controllante estera, quale aliquota di ritenuta alla fonte deve applicare? E soprattutto: quale Convenzione contro le doppie imposizioni si applica quando la società madre europea è a sua volta controllata da una capogruppo extra-UE?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32149/2025 pubblicata il 10 dicembre 2025, ha fornito importanti chiarimenti sul concetto di “beneficiario effettivo” dei dividendi, cassando una sentenza che aveva trascurato di applicare correttamente i test sostanziali previsti dalla giurisprudenza comunitaria.

Il caso concreto e la questione giuridica
La vicenda riguarda una società italiana che nel 2008 ha corrisposto dividendi alla propria controllante danese, la quale era a sua volta partecipata da una capogruppo statunitense. L’Agenzia delle Entrate ha contestato alla società distributrice l’omessa applicazione della ritenuta alla fonte del 27% sui dividendi erogati, sostenendo che si fosse trattato di un utilizzo abusivo (il cosiddetto “treaty shopping”) della Convenzione bilaterale Italia-Danimarca contro le doppie imposizioni. Secondo l’Amministrazione finanziaria, la holding danese avrebbe costituito uno schermo fittizio dietro il quale si celava la vera beneficiaria dei dividendi, da individuare nella capogruppo americana.
La società italiana si era difesa sostenendo di aver correttamente applicato l’art. 10, paragrafo 2, lettera a), della Convenzione Italia-Danimarca del 5 maggio 1999, che prevede un’aliquota dello 0% quando la società madre detenga almeno il 25% del capitale della società figlia per un periodo di dodici mesi anteriore alla distribuzione. La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto le ragioni della contribuente, annullando l’avviso di accertamento.
In appello, però, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato la decisione, applicando invece la Convenzione Italia-USA del 25 agosto 1999 e rideterminando la ritenuta al 5%. Secondo i giudici d’appello, dagli atti emergeva che la direzione e il controllo sulle operazioni di distribuzione dei dividendi provenivano dalla società americana, mentre la struttura operativa della società danese era “sostanzialmente inesistente”.
La soluzione della Cassazione: i tre test del beneficiario effettivo
La Suprema Corte ha accolto il ricorso della società italiana, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa a un nuovo esame. Il punto centrale della decisione riguarda la corretta individuazione del “beneficiario effettivo” dei dividendi, concetto fondamentale per determinare quale regime fiscale applicare.
La Corte richiama innanzitutto il quadro normativo di riferimento. L’art. 27-bis del DPR n. 600 del 1973, che attua la direttiva comunitaria “madre-figlia”, prevede l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi distribuiti da società figlie a società madri comunitarie, anche quando queste ultime sono controllate da società extra-UE. Tuttavia, questa esenzione può essere negata se la partecipazione è detenuta allo scopo esclusivo o principale di beneficiare indebitamente del regime fiscale agevolato.
Per verificare se un soggetto sia il reale beneficiario effettivo dei dividendi, la giurisprudenza comunitaria e di legittimità ha elaborato tre test autonomi e disgiunti, denominati dalla dottrina:
Il “substantive business activity test” verifica se la società percipiente svolga un’attività economica effettiva o sia una costruzione di puro artificio. Questo test esamina se esista una struttura operativa reale, con dipendenti, locali, mezzi aziendali, oppure se si tratti di una mera scatola vuota.
Il “dominion test” rappresenta il cuore dell’indagine e valuta se la società percipiente possa disporre liberamente delle somme ricevute a titolo di dividendi o sia tenuta a rimetterle a un soggetto terzo. In altre parole, si analizza se la società madre trattenga per sé i dividendi, utilizzandoli per i propri scopi, sì da disporre del diritto di uso e godimento dei flussi reddituali.
Il “business purpose test” esamina le ragioni dell’interposizione della società nel flusso reddituale transfrontaliero, per appurare se essa abbia una funzione economica di finanziamento o sia una mera “conduit company” o “société relais”, ossia una società-canale utilizzata artificiosamente per beneficiare di un trattamento fiscale favorevole.
L’errore della Commissione Tributaria Regionale
La Cassazione ha censurato la sentenza d’appello proprio perché non aveva applicato correttamente questi criteri. I giudici regionali si erano concentrati sui poteri di direzione e controllo esercitati dalla capogruppo americana e sulla sostanziale inesistenza di una struttura operativa della controllata danese, senza però verificare l’elemento decisivo: se quest’ultima trattenesse per sé, in tutto o in parte, i dividendi ricevuti, utilizzandoli per i propri scopi.
La Corte sottolinea che tale indagine avrebbe dovuto essere condotta anche esaminando i bilanci prodotti in giudizio dalla contribuente, dei quali viene fatta menzione nella motivazione della sentenza ma che non sono stati analizzati sotto questo profilo.
Inoltre, nell’applicare il “substantive business activity test”, la CTR aveva escluso che la società danese esercitasse un’effettiva attività economica a causa della sostanziale inesistenza di una struttura operativa, senza considerare le peculiarità di una holding o sub-holding pura. Questo tipo di società, infatti, non svolge direttamente attività commerciale, ma gestisce le partecipazioni in altre società. Il consolidato orientamento della Cassazione ha chiarito che anche una holding pura può essere riconosciuta come beneficiario effettivo dei dividendi, purché sussistano determinate condizioni.
Le implicazioni pratiche per le operazioni transnazionali
Questa decisione ha rilevanti conseguenze per tutte le società coinvolte in operazioni di distribuzione di dividendi transfrontaliere, specialmente quando la catena partecipativa coinvolge più giurisdizioni.
Per le imprese che distribuiscono dividendi, la sentenza evidenzia l’importanza di una documentazione completa e sostanziale. Non basta che la società madre estera sia formalmente residente in uno Stato UE: occorre dimostrare che essa sia effettivamente il beneficiario dei dividendi percepiti. Questo richiede di conservare e produrre elementi probatori che attestino l’effettivo utilizzo dei flussi finanziari, l’autonomia decisionale della holding, l’esistenza di valide ragioni economiche per la struttura adottata.
Per le società holding intermedie, la decisione chiarisce che la mera esistenza di una struttura societaria europea non è sufficiente a garantire l’applicazione del regime agevolato previsto dalle Convenzioni bilaterali. È necessario dimostrare l’esistenza di una sostanza economica reale, anche se compatibile con la natura di holding pura. La certificazione rilasciata dall’autorità fiscale estera sulla residenza e sulla soggettività passiva alle imposte dirette costituisce un elemento rilevante ma non decisivo.
Per i consulenti fiscali e i professionisti, l’ordinanza ribadisce l’importanza di strutturare le operazioni transnazionali con attenzione alla sostanza economica, non solo alla forma giuridica. La pianificazione fiscale internazionale deve fondarsi su scelte imprenditoriali genuine e non su costruzioni artificiose finalizzate esclusivamente al risparmio d’imposta.
Per l’Amministrazione finanziaria, la sentenza fornisce una chiara roadmap metodologica per l’accertamento dell’abuso nelle operazioni di distribuzione dei dividendi. L’Agenzia delle Entrate dovrà applicare tutti e tre i test previsti dalla giurisprudenza comunitaria, non limitandosi a considerare elementi formali come l’assenza di una struttura operativa complessa.
I princìpi di diritto affermati dalla Cassazione
Dalla motivazione della Suprema Corte emergono alcuni princìpi che costituiscono importanti punti di riferimento per la prassi futura.
In primo luogo, la Cassazione ha confermato che l’indagine volta ad accertare la qualità di beneficiario effettivo si articola in tre test autonomi e disgiunti. Ciascuno di questi test prende in considerazione specifici parametri-spia o indici segnaletici che devono essere valutati complessivamente e non in modo isolato.
In secondo luogo, la Corte ha ribadito che nel processo tributario l’Amministrazione finanziaria conserva la disponibilità dei diritti in contestazione. Pertanto, se si avvede della fondatezza di un’eccezione sollevata dal contribuente, non è tenuta a rinnovare l’intero procedimento amministrativo di accertamento, ma può ridurre la domanda originaria. Questa riduzione della domanda, non equivalendo a un diverso e autonomo accertamento in via di rettifica, è ammissibile anche se operata per la prima volta in grado d’appello.
In terzo luogo, la sentenza sottolinea che il processo tributario, quale giudizio di “impugnazione-merito”, è diretto non alla mera eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico, bensì alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che di quanto accertato dall’Ufficio. Conseguentemente, il giudice tributario non può limitarsi ad annullare l’avviso di accertamento, ma è tenuto a esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla eventualmente alla corretta misura.
Uno sguardo al futuro: la rilevanza delle “sentenze danesi”
La Cassazione richiama espressamente le cosiddette “sentenze danesi” della Corte di Giustizia Europea, in particolare quella del 26 febbraio 2019 (cause riunite C-116/16 e C-117/16), che attiene specificamente alla distribuzione dei dividendi. Questo richiamo evidenzia come la normativa interna di recepimento della disciplina unionale debba essere interpretata alla luce dei chiarimenti forniti dalla giurisprudenza comunitaria.
La Corte europea ha infatti affermato che la circostanza che il soggetto che reclama i benefici previsti dalla direttiva madre-figlia non ne sia “beneficiario effettivo” costituisce un elemento da valutare per ricostruire la fattispecie in termini di pratica elusiva, quale segnale di una struttura posta in essere in maniera formale e artificiosa per usufruire indebitamente dei benefici riservati alle società con sede nell’Unione.
Questo approccio sostanziale, contrapposto a quello meramente formale, rappresenta la stella polare per orientarsi nelle complesse questioni fiscali transnazionali. Non si tratta di criminalizzare la pianificazione fiscale internazionale, ma di garantire che essa si fondi su scelte economiche genuine e non su costruzioni artificiose.
Conclusioni
L’ordinanza n. 32149/2025 della Cassazione costituisce un importante tassello nel mosaico giurisprudenziale relativo alla distribuzione dei dividendi transfrontalieri. La sentenza chiarisce che l’individuazione del beneficiario effettivo richiede un’analisi approfondita e sostanziale, che non può limitarsi a considerare elementi formali o la presenza di poteri di direzione e controllo da parte della capogruppo extra-UE.
Il cuore dell’indagine deve concentrarsi sulla verifica della libera disponibilità dei dividendi da parte della società percipiente, ossia sul cosiddetto “dominion test”. Solo attraverso un esame completo dei tre test previsti dalla giurisprudenza è possibile determinare se la società madre europea sia effettivamente il destinatario dei flussi reddituali o costituisca invece una mera società-canale interposta artificiosamente.
Per le imprese che operano in contesti multinazionali, la decisione sottolinea l’importanza di costruire strutture dotate di sostanza economica, documentando adeguatamente le scelte imprenditoriali che giustificano l’organizzazione societaria adottata. La forma giuridica deve rispecchiare la sostanza economica dell’operazione.
Il nostro studio è a disposizione per assistere le imprese nella corretta gestione degli aspetti fiscali legati alla distribuzione di dividendi transfrontalieri e per fornire consulenza specialistica nelle controversie tributarie relative a queste tematiche.