La Cassazione chiarisce come determinare il valore della causa per liquidare le spese a carico del soccombente quando la richiesta contiene una somma specifica con alternativa al ribasso
Quando si perde una causa, il giudice condanna il soccombente al pagamento delle spese legali della controparte. Ma come si calcola l’importo? Il parametro fondamentale è il valore della causa, che determina lo “scaglione” di riferimento per la liquidazione degli onorari secondo le tariffe professionali. E qui nascono i problemi: cosa succede quando l’attore chiede una somma determinata ma aggiunge “o quella minore che si riterrà di giustizia”? Quale scaglione va applicato se la domanda viene completamente rigettata?
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 31996/2025 pubblicata il 9 dicembre 2025, ha fornito una risposta chiara che risolve un contrasto interpretativo di lunga data. La decisione rappresenta un importante punto di riferimento per avvocati, giudici e tutti coloro che si trovano a gestire le conseguenze economiche della soccombenza processuale.

Il caso: un avvocato chiede il risarcimento per lite temeraria
La vicenda trae origine da una causa per risarcimento danni da sinistro stradale. Un avvocato, oltre ad assistere il proprio cliente, aveva proposto in proprio una domanda di risarcimento nei confronti della compagnia assicurativa convenuta, invocando l’art. 96 c.p.c. sulla responsabilità processuale aggravata. L’avvocato aveva chiesto la condanna della compagnia al pagamento di “euro 1.000,00 o in quel minor importo meglio ritenuto di giustizia e/o di equità”.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dichiarato inammissibile la domanda dell’avvocato, ritenendolo privo di legittimazione ad agire in proprio. Di conseguenza, l’avvocato era stato condannato alle spese processuali. Ma qui sorgeva il problema: quale scaglione applicare per liquidare le spese a suo carico?
Il Tribunale aveva liquidato le spese nell’intero in euro 1.200,00, facendo riferimento allo scaglione da euro 1.100,00 a euro 5.200,00, basandosi sul valore della domanda principale proposta dal cliente (circa 4.600 euro). L’avvocato, tuttavia, sosteneva che si sarebbe dovuto applicare lo scaglione inferiore, quello fino a euro 1.100,00, poiché la sua domanda personale era pari a soli 1.000 euro.
Il quadro normativo: come si determina il valore della causa
Il sistema processuale italiano prevede regole precise per determinare il valore di una controversia. L’art. 14 c.p.c. stabilisce che “nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall’attore”. Si tratta del cosiddetto principio del “disputatum”: conta ciò che l’attore domanda, non quanto effettivamente ottiene.
Per la liquidazione degli onorari degli avvocati, il d.m. n. 55 del 2014 all’art. 5, comma 1, richiama espressamente le norme del codice di procedura civile. Quindi, per stabilire quanto il soccombente deve pagare alla controparte a titolo di spese legali, bisogna guardare al valore dichiarato nella domanda e applicare lo scaglione tariffario corrispondente.
Ma quando la domanda viene formulata con espressioni come “somma X o quella maggiore/minore ritenuta di giustizia”, si apre un problema interpretativo: il valore va considerato determinato o indeterminabile?
Il contrasto giurisprudenziale risolto dalle Sezioni Unite
Sulla questione si erano formati due orientamenti contrapposti nella giurisprudenza di legittimità.
Un primo indirizzo riteneva che quando l’attore chiede una somma specifica ma aggiunge “o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia”, il valore della causa deve essere considerato indeterminabile. La ratio di questo orientamento era che, ai sensi dell’art. 1367 c.c. applicabile anche agli atti processuali, non si può presumere che tale espressione sia una semplice clausola di stile. Al contrario, si deve ritenere che l’attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo, rimettendo la quantificazione effettiva al giudice. In questi casi, secondo tale orientamento (Cass. n. 10984/2021, n. 19455/2018, n. 15306/2018, n. 6053/2013), si applica lo scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile.
Un secondo orientamento, invece, sosteneva che anche in presenza della formula “somma maggiore o minore ritenuta di giustizia”, il valore resta comunque determinato almeno nel suo importo minimo. Secondo questa tesi (Cass. Sez. 3, n. 35966/2023), la somma “eventualmente minore” rappresenta solo una domanda subordinata. La prova di questa interpretazione starebbe nel fatto che, se il giudice condannasse a una somma inferiore a quella espressamente richiesta, l’appello dell’attore per ottenere il maggiore importo sarebbe certamente ammissibile, non potendosi sostenere che l’attore avesse rimesso completamente al giudice la quantificazione.
A risolvere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione che, con sentenza n. 20805 del 23 luglio 2025, hanno affermato il seguente principio di diritto: nel caso di integrale rigetto della domanda di condanna al pagamento di una somma determinata di denaro, contenente l’indicazione alternativa del “diverso importo che dovesse risultare dovuto in corso di causa”, la liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa si determina sulla base dello scaglione corrispondente alla somma specificamente indicata dall’attore, qualora lo stesso attribuisca compensi superiori rispetto a quelli previsti per le cause di valore indeterminabile.
La soluzione della Cassazione: conta la somma specificamente indicata
Applicando il principio fissato dalle Sezioni Unite al caso concreto, la Terza Sezione Civile ha accolto il ricorso dell’avvocato. La Corte ha chiarito che nella fattispecie in esame la situazione era ancora più netta rispetto a quella esaminata dalle Sezioni Unite, perché l’avvocato non aveva chiesto “1.000 euro o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia”, bensì “1.000 euro o quella minore ritenuta di giustizia”.
In altri termini, l’alternativa posta nella domanda riguardava solo un possibile ribasso, non anche un eventuale aumento. Se c’è dunque incertezza, questa riguarda unicamente il limite minimo dell’importo richiesto, mentre il limite massimo resta fermamente determinato in euro 1.000,00.
La Cassazione ha evidenziato inoltre un profilo logico-sistematico decisivo: sarebbe contraddittorio liquidare spese di soccombenza commisurandole a un importo (quello della domanda principale del cliente, pari a circa 4.600 euro) per il quale non si era verificata alcuna soccombenza, essendo anzi la parte assistita dall’avvocato risultata vittoriosa.
La domanda proposta dall’avvocato in proprio era oggettivamente e soggettivamente distinta da quella proposta nell’interesse del cliente. Si trattava di un credito risarcitorio autonomo, che l’avvocato riteneva (erroneamente, secondo i giudici di merito) di poter richiedere direttamente in quanto anticipatario delle spese. Il valore di questa specifica domanda andava quindi commisurato esclusivamente all’importo richiesto a quel titolo, ossia 1.000 euro, e non alla domanda principale del cliente.
Le conseguenze pratiche della decisione
La pronuncia della Cassazione ha importanti ricadute operative per tutti coloro che si trovano a gestire controversie giudiziarie, sia come avvocati che come parti in causa.
In primo luogo, la sentenza fornisce certezza agli operatori del diritto su come redigere le conclusioni degli atti introduttivi. Quando si formula una domanda di condanna al pagamento di una somma determinata, l’aggiunta della formula “o quella minore ritenuta di giustizia” non comporta l’indeterminabilità del valore. Al contrario, il valore resta fissato nell’importo specificamente indicato, che costituisce il tetto massimo della pretesa.
Questa chiarezza permette anche una maggiore prevedibilità dei costi in caso di soccombenza. La parte che si difende da una domanda di 1.000 euro “o quella minore ritenuta di giustizia” sa che, se vincerà completamente la causa ottenendo il rigetto integrale della domanda avversaria, le spese processuali a carico del soccombente saranno liquidate secondo lo scaglione fino a 1.100 euro, non secondo scaglioni superiori.
Per gli avvocati, la decisione offre uno strumento per contestare liquidazioni di spese erronee che applichino scaglioni superiori rispetto a quello corretto. Nel caso esaminato, ad esempio, la rideterminazione dello scaglione ha comportato una riduzione delle spese dall’originario importo di 1.200 euro a soli 400 euro (poi compensate per metà, risultando in 200 euro effettivi a carico dell’avvocato soccombente).
Va sottolineato inoltre che il principio fissato dalle Sezioni Unite e applicato nella presente ordinanza vale anche per le domande che contengono la formula “somma X o quella maggiore o minore ritenuta di giustizia”. Anche in questi casi, secondo il nuovo orientamento consolidato, il valore della causa resta determinato sulla base della somma X specificamente indicata, purché questa attribuisca compensi superiori a quelli previsti per le cause di valore indeterminabile.
Attenzione alla formulazione delle domande
Un aspetto pratico da non sottovalutare riguarda la corretta redazione delle domande giudiziali. La giurisprudenza ha più volte sottolineato come l’uso di formule standardizzate non debba essere meccanico, ma deve riflettere l’effettiva volontà della parte.
Se l’attore intende davvero lasciare al giudice piena discrezionalità nella quantificazione del danno, dovrà formulare una domanda genuinamente indeterminata, senza indicare alcuna cifra specifica. Al contrario, se indica una somma precisa, anche l’aggiunta di clausole accessorie (“o quella maggiore/minore”) non potrà trasformare la domanda in indeterminata.
La distinzione è rilevante perché lo scaglione per le cause di valore indeterminabile è spesso superiore rispetto agli scaglioni per valori determinati di modesta entità. Pertanto, un attore che formuli una domanda mal calibrata rischia di esporsi, in caso di soccombenza totale, a un esborso per spese processuali superiore rispetto a quello che deriverebbe da una formulazione più oculata.
Conclusioni
L’ordinanza n. 31996/2025 della Cassazione rappresenta un importante tassello nel consolidamento della giurisprudenza in materia di liquidazione delle spese processuali. Applicando il principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite, la Corte ribadisce che quando una domanda viene completamente rigettata, il valore della causa ai fini della determinazione dello scaglione per le spese va individuato nella somma specificamente indicata dall’attore, anche se accompagnata da formule accessorie che facciano riferimento a un diverso importo “ritenuto di giustizia”.
Questa soluzione assicura certezza, prevedibilità e proporzionalità nella liquidazione delle spese, evitando che vengano applicati scaglioni inadeguatamente elevati rispetto al reale valore della controversia. Per gli avvocati e le parti processuali, la pronuncia costituisce un’importante guida operativa per la corretta formulazione delle domande e per il controllo della congruità delle liquidazioni di spese disposte dai giudici.
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