La Corte di Giustizia europea boccia ancora il sistema pensionistico spagnolo: i principi affermati nelle cause C-623/23 e C-626/23 rappresentano un monito diretto per il nostro sistema previdenziale
Le norme sulla parità di genere nascono storicamente per tutelare le donne da svantaggi strutturali nel mondo del lavoro. Ma cosa accade quando una legge, concepita proprio per promuovere l’uguaglianza, finisce per creare una discriminazione speculare a danno degli uomini? È esattamente ciò che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha contestato alla Spagna in una serie di pronunciamenti che meritano un’analisi approfondita, anche in prospettiva italiana.
La CGUE ha infatti sistematicamente smantellato l’architettura normativa spagnola in materia di integratori pensionistici per genitori, giudicandola incompatibile con i principi fondamentali del diritto europeo. L’ultima sentenza in ordine cronologico, pronunciata nelle cause riunite C-623/23 e C-626/23 il 15 maggio 2025, rappresenta il capitolo più recente di questa vicenda. Da questa complessa evoluzione giurisprudenziale emergono tre insegnamenti fondamentali, che costituiscono un avvertimento diretto e potenzialmente molto oneroso per l’Italia e per l’INPS.

Prima lezione: correggere una discriminazione con un’altra non funziona mai
Il primo principio cardine emerge proprio dalla sentenza del 15 maggio 2025 nelle cause C-623/23 e C-626/23. Questa pronuncia ha dimostrato come il tentativo di sanare una disparità di trattamento attraverso l’introduzione di una nuova discriminazione sia una strategia giuridicamente destinata al fallimento.
La storia inizia nel 2019, quando la Corte europea aveva già condannato la Spagna per una legge che riconosceva un’integrazione pensionistica esclusivamente alle madri. Il legislatore spagnolo aveva quindi modificato la norma con l’obiettivo dichiarato di ridurre il divario di genere. Tuttavia, la nuova versione prevedeva che l’integrazione venisse concessa automaticamente alle donne con figli, mentre per i padri erano richieste condizioni aggiuntive molto stringenti.
In particolare, un uomo doveva provare un effettivo danno alla propria carriera lavorativa, come un’interruzione dei versamenti contributivi per almeno centoventi giorni successivi alla nascita di un figlio. Inoltre, anche in presenza di questo requisito, l’integrazione spettava solo se la pensione complessiva del padre risultava inferiore a quella della madre.
La Corte di Giustizia ha respinto anche questa versione “corretta” della norma, qualificandola come discriminazione diretta fondata sul sesso. Il ragionamento dei giudici europei si basa su un principio chiaro: la situazione di un padre e quella di una madre sono comparabili per quanto riguarda l’educazione dei figli. Di conseguenza, imporre condizioni ulteriori solo ai padri per accedere allo stesso beneficio pensionistico costituisce una violazione del diritto dell’Unione.
La CGUE ha inoltre precisato che la misura spagnola non poteva neppure essere giustificata come autentica “azione positiva” ai sensi dell’articolo 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Questo perché l’TFUE prevede che gli Stati possano mantenere o adottare misure che assicurino vantaggi specifici destinati a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, oppure a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.
Tuttavia, secondo la Corte, il supplemento pensionistico spagnolo non perseguiva realmente questi obiettivi. Non si trattava di una misura volta a rimuovere ostacoli che le donne incontrano durante la vita lavorativa, ma di un semplice bonus retroattivo concesso al momento del pensionamento. In sostanza, la norma spagnola interveniva troppo tardi, quando gli svantaggi di carriera si erano ormai manifestati, senza fare nulla per prevenirli o compensarli durante la fase attiva della vita professionale.
Il messaggio della Corte è inequivocabile: le buone intenzioni non bastano a legittimare strumenti discriminatori. Una misura che si limita a trasferire risorse economiche al momento della pensione, senza incidere sulle cause strutturali del divario di genere durante la carriera lavorativa, non supera il vaglio di legittimità europeo.
Seconda lezione: ignorare le sentenze europee ha un costo economico pesantissimo
La seconda grande lezione emerge dalla sentenza C-113/22, pronunciata il 14 settembre 2023, e riguarda le conseguenze economiche derivanti dall’inerzia amministrativa dopo una condanna europea.
Dopo la prima bocciatura del 2019, l’ente previdenziale spagnolo INSS avrebbe dovuto adeguarsi spontaneamente e riconoscere l’integrazione pensionistica anche ai padri che ne facevano richiesta. Invece, l’ente ha emanato una direttiva interna, la cosiddetta “regola di gestione n. 1/2020”, che continuava a negare sistematicamente il beneficio ai padri richiedenti, obbligando di fatto ciascuno di loro a intentare una causa legale per ottenere ciò che la Corte europea aveva già stabilito essere un loro diritto.
La CGUE ha analizzato questa prassi amministrativa e ha formulato una conclusione tanto chiara quanto severa: la resistenza dell’ente non costituiva una mera inerzia burocratica, ma una discriminazione autonoma e distinta rispetto a quella originariamente sanzionata. In altri termini, l’INSS aveva creato una seconda violazione sovrapponendo alla discriminazione normativa una discriminazione amministrativa.
Le conseguenze economiche di questa seconda discriminazione sono state devastanti per le casse dell’ente spagnolo. La Corte ha stabilito che il giudice nazionale, in situazioni di questo tipo, non può limitarsi a ordinare all’amministrazione di concedere il beneficio con gli arretrati. Deve anche condannare l’ente a corrispondere un risarcimento integrale del danno subito dal cittadino che ha dovuto ricorrere al giudice. Questo risarcimento deve includere esplicitamente il rimborso completo delle spese legali e degli onorari professionali degli avvocati.
Il fondamento giuridico di questa sanzione risiede nel principio di effettività del diritto dell’Unione, secondo cui un diritto riconosciuto dall’ordinamento europeo non è realmente tale se il suo esercizio viene reso sistematicamente oneroso per il cittadino. La condanna al risarcimento integrale delle spese legali serve quindi a garantire che le sentenze della Corte non rimangano prive di effetti concreti e a dissuadere gli enti pubblici dal vanificare i diritti dei cittadini attraverso prassi amministrative ostruzionistiche.
In pratica, ogni padre spagnolo che ha dovuto intentare causa per ottenere l’integrazione pensionistica ha diritto non solo al beneficio con gli arretrati, ma anche al rimborso di tutti i costi sostenuti per far valere il proprio diritto in tribunale. Moltiplicato per il numero potenzialmente elevato di ricorrenti, l’esborso complessivo per l’INSS spagnolo potrebbe raggiungere cifre considerevoli.
Terza lezione: il caso spagnolo è un avvertimento per l’INPS italiano
La terza lezione fondamentale è che le vicende spagnole non rappresentano un episodio isolato nel panorama europeo, ma costituiscono un monito diretto per il nostro ordinamento. Questo principio discende da una regola basilare del diritto dell’Unione: il primato del diritto europeo sugli ordinamenti nazionali.
In parole semplici, le sentenze della Corte di Giustizia che interpretano una direttiva europea o i principi fondamentali dei Trattati non producono effetti limitati allo Stato coinvolto nella controversia specifica. Al contrario, esse sono vincolanti per i giudici di tutti gli Stati membri, Italia compresa. Questo significa che le pronunce relative alla Spagna hanno una portata interpretativa generale, applicabile a qualsiasi situazione analoga che si presenti in un altro Paese dell’Unione.
L’implicazione per l’ordinamento italiano è diretta e concreta. Qualora una norma nazionale del nostro sistema previdenziale dovesse creare una discriminazione di genere analoga a quella contestata alla Spagna, un giudice italiano sarebbe tenuto, in base al principio del primato del diritto UE, a disapplicare tale norma. Di conseguenza, dovrebbe riconoscere al genitore discriminato lo stesso beneficio previsto per l’altro genitore, con piena efficacia retroattiva, applicando direttamente i principi sanciti dalla Corte di Giustizia.
Il rischio per l’INPS italiano è quindi duplice e molto concreto. Da un lato, l’ente potrebbe trovarsi esposto a una serie di ricorsi giudiziali da parte di genitori che lamentano trattamenti discriminatori in materia di prestazioni previdenziali. Dall’altro lato, e questo è forse l’aspetto più preoccupante, se l’INPS dovesse adottare una prassi di resistenza simile a quella dell’INSS spagnolo, costringendo i cittadini a intentare causa per vedersi riconosciuto un diritto già affermato a livello europeo, si esporrebbe esattamente alla medesima sanzione economica che ha colpito l’ente spagnolo.
In concreto, ciò significherebbe non solo dover corrispondere il beneficio con gli arretrati a tutti i ricorrenti, ma anche essere condannato a rimborsare integralmente tutte le spese legali sostenute da ciascun cittadino per far valere i propri diritti. Considerando che i procedimenti giudiziari in materia previdenziale attraversano spesso più gradi di giudizio, l’ammontare complessivo delle spese legali da rimborsare potrebbe raggiungere cifre estremamente elevate, gravando pesantemente sui conti dell’ente e, in ultima analisi, sulle finanze pubbliche.
Inoltre, va considerato l’effetto moltiplicatore di questa tipologia di contenzioso. Una volta che i primi ricorrenti ottenessero ragione, con il riconoscimento del diritto e il rimborso delle spese legali, si innescherebbe probabilmente una reazione a catena, con un numero crescente di cittadini che potrebbero avanzare pretese analoghe. Questo fenomeno, già osservato in Spagna, potrebbe replicarsi anche in Italia qualora esistessero norme o prassi amministrative discriminatorie nel nostro sistema pensionistico.
Implicazioni pratiche per cittadini, professionisti e amministrazioni
Le sentenze della Corte di Giustizia europea analizzate hanno ricadute concrete su diverse categorie di soggetti.
Per i cittadini, sia italiani che di altri Stati membri, queste pronunce rappresentano un potente strumento di tutela contro discriminazioni di genere in materia previdenziale. Qualunque genitore che ritenga di essere stato trattato in modo discriminatorio rispetto all’altro genitore nell’accesso a benefici pensionistici può far valere i principi affermati dalla CGUE davanti al giudice nazionale, con la ragionevole aspettativa non solo di ottenere il beneficio negato, ma anche di vedersi rimborsate tutte le spese legali sostenute.
Per gli enti previdenziali, come l’INPS in Italia, il messaggio è altrettanto chiaro: l’adozione di prassi amministrative che ostacolino l’applicazione dei principi europei non costituisce una strategia difensiva sostenibile. Al contrario, espone l’ente a sanzioni economiche significative e alimenta un contenzioso seriale che, oltre a essere costoso in termini di risarcimenti, assorbe ingenti risorse amministrative e genera un danno reputazionale rilevante.
Per i professionisti del diritto, e in particolare per gli avvocati specializzati in diritto previdenziale, queste sentenze aprono nuovi spazi di tutela. I legali che assistono clienti in contenziosi previdenziali devono essere consapevoli che, di fronte a dinieghi ingiustificati da parte dell’amministrazione in materia di prestazioni legate alla genitorialità, è possibile invocare direttamente il diritto europeo e ottenere non solo il riconoscimento del diritto sostanziale, ma anche il pieno ristoro delle spese di lite.
Conclusione: la parità non ammette scorciatoie
L’esito del contenzioso spagnolo cristallizza tre principi non negoziabili per tutti gli ordinamenti previdenziali dell’Unione. In primo luogo, le discriminazioni non si correggono attraverso l’introduzione di altre discriminazioni, anche se mascherate da buone intenzioni. In secondo luogo, ignorare le sentenze europee e opporre resistenza amministrativa al loro recepimento comporta un costo economico significativo e una responsabilità diretta per danno. In terzo luogo, ciò che vale per la Spagna vale anche per l’Italia, in virtù del principio del primato del diritto europeo.
Questi casi rappresentano un monito eloquente contro ogni forma di disparità di genere in ambito previdenziale, anche quelle che si presentano sotto la veste di misure correttive. L’Europa, attraverso le sentenze della sua Corte di Giustizia, sta chiarendo con fermezza crescente che la parità di trattamento non è un obiettivo negoziabile e che gli Stati membri devono garantirla in modo effettivo, senza scorciatoie normative o resistenze amministrative.
La questione, oggi, non è più se i principi di parità debbano essere applicati nel settore previdenziale, ma come e con quale rapidità gli Stati membri adegueranno le proprie normative e, soprattutto, le proprie prassi amministrative. L’Italia, e in particolare l’INPS, sono chiamati a una riflessione seria su questi temi. Saremo in grado di recepire proattivamente questi principi, anticipando possibili criticità e adeguando spontaneamente il nostro sistema, oppure assisteremo a una nuova stagione di contenziosi seriali che peseranno sia sui cittadini costretti a rivolgersi al giudice, sia sulle casse dell’ente previdenziale e dello Stato?
La risposta a questa domanda dipenderà dalla capacità delle nostre istituzioni di apprendere dagli errori altrui e di agire in modo preventivo, piuttosto che attendere passivamente l’inevitabile ondata di ricorsi che le esperienze di altri Paesi europei hanno già anticipato.
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