Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono i confini della condotta sanzionabile e l’elemento soggettivo richiesto per l’illecito ex art. 64 del Codice Deontologico Forense
Può un avvocato essere sanzionato disciplinarmente per non aver pagato un debito contratto nella sua vita privata? La risposta è sì, se quel debito compromette la dignità della professione e l’affidamento dei terzi.
Con l’ordinanza n. 30771/2025, pubblicata il 22 novembre 2025, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fatto chiarezza su una questione delicata che tocca da vicino la deontologia forense: quando l’inadempimento dell’avvocato a obbligazioni assunte nei confronti di terzi integra un illecito disciplinare.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte
La vicenda trae origine da un procedimento disciplinare avviato nei confronti di un professionista che aveva commissionato lavori di manutenzione su un proprio natante per un importo di oltre 10.000 euro. Nonostante l’esecuzione dei lavori, l’avvocato non aveva mai corrisposto quanto dovuto all’impresa, costringendo il creditore ad instaurare un procedimento monitorio per ottenere il pagamento. Il Consiglio dell’Ordine territoriale aveva contestato la violazione degli articoli 4, 9 comma 2 e 63 comma 1 del Codice Deontologico Forense, ritenendo che tale condotta avesse arrecato disdoro alla professione.
Il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense aveva applicato una sanzione di quattro mesi di sospensione dall’esercizio della professione. Il Consiglio Nazionale Forense, in sede di gravame, aveva confermato la responsabilità disciplinare ma ridotto la sanzione a due mesi, riconducendo la fattispecie all’articolo 64 del Codice Deontologico, che disciplina specificamente l’obbligo di provvedere all’adempimento di obbligazioni assunte nei confronti dei terzi.
L’avvocato aveva proposto ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, l’involontarietà della propria condotta, adducendo precarie condizioni di salute, l’età avanzata e le vicende legate a un lungo processo penale conclusosi con assoluzione. Aveva inoltre evidenziato di aver avanzato una proposta transattiva per ottenere la rateizzazione del debito e contestato la rilevanza della natura voluttuaria della spesa contratta.
Il quadro normativo di riferimento
L’articolo 64 del Codice Deontologico Forense stabilisce l’obbligo per l’avvocato di provvedere all’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti dei terzi. Questa disposizione rappresenta un presidio fondamentale per tutelare la dignità e il prestigio della professione forense, evitando che comportamenti irresponsabili in ambito privatistico possano riflettersi negativamente sull’immagine dell’intera categoria.
Il codice deontologico non si limita a regolare la condotta professionale stricto sensu, ma si estende anche alla sfera dei rapporti privati dell’avvocato quando questi assumono rilevanza tale da compromettere la fiducia che i cittadini ripongono nella professione legale. Si tratta di un principio consolidato nella giurisprudenza disciplinare, che riconosce come l’avvocato debba essere un modello di correttezza non solo nell’esercizio del mandato professionale, ma anche nei rapporti della vita quotidiana.
L’articolo 21 del medesimo Codice Deontologico, richiamato dalle Sezioni Unite, attribuisce agli organi disciplinari il potere di applicare sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione commessa, valutando il comportamento complessivo dell’incolpato. La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo e alla sua intensità, nonché al comportamento dell’incolpato precedente e successivo al fatto, tenuto conto delle circostanze soggettive e oggettive nelle quali è avvenuta la violazione.
Il principio affermato dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite hanno respinto il ricorso, affermando un principio di grande rilevanza pratica: affinché sia integrato l’illecito disciplinare di cui all’articolo 64 del Codice Deontologico Forense, non è necessario che l’avvocato abbia la coscienza dell’antigiuridicità della propria condotta. È sufficiente che il comportamento sia volontariamente posto in essere.
In altri termini, l’elemento soggettivo richiesto per configurare l’illecito si concretizza nella coscienza e volontarietà dell’azione o dell’omissione, ma non richiede anche la consapevolezza che tale comportamento integri una violazione deontologica sanzionabile. L’avvocato che non paga un debito, dunque, non può difendersi sostenendo di non sapere che tale inadempimento potesse costituire un illecito disciplinare: è sufficiente che abbia volontariamente scelto di non adempiere.
La Suprema Corte ha tuttavia precisato che può venire in rilievo un’assoluta impossibilità della prestazione derivante da causa obiettiva estranea alla volontà dell’avvocato, quale il caso fortuito o la forza maggiore. In presenza di tali circostanze eccezionali, l’elemento soggettivo dell’illecito potrebbe essere escluso o attenuato. Tuttavia, nel caso di specie, il Consiglio Nazionale Forense aveva accertato che l’obbligazione era stata contratta quando i problemi di salute dell’avvocato erano già parzialmente presenti, che aveva avuto ad oggetto spese per un bene voluttuario e che non emergeva alcuna causa di forza maggiore idonea a escludere o attenuare l’elemento soggettivo dell’illecito.
I limiti del sindacato di legittimità
Le Sezioni Unite hanno ribadito l’orientamento consolidato in materia di ricorsi per cassazione avverso le decisioni del Consiglio Nazionale Forense. Tali decisioni sono impugnabili soltanto per incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge o per difetto del “minimo costituzionale” di motivazione. Ne consegue che l’accertamento del fatto e la valutazione della sua rilevanza ai fini della individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, nonché la determinazione dell’adeguatezza della sanzione, non possono essere oggetto del controllo di legittimità se non nei limiti di una verifica di ragionevolezza.
Il ricorrente, nel caso esaminato, aveva sostanzialmente richiesto un riesame della fattispecie di merito, lamentando l’ingiustizia della decisione e invocando un nuovo apprezzamento delle circostanze del caso concreto. Tuttavia, le Sezioni Unite hanno rilevato che il motivo di ricorso si sostanziava in una diffusa critica della decisione impugnata senza sussumere le ragioni di censura nelle tassative categorie logiche contemplate dall’articolo 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012, che disciplina il ricorso per cassazione in materia disciplinare forense.
Le censure non allegavano l’omesso esame di fatti storici oggetto di discussione tra le parti e aventi carattere decisivo, ma sollecitavano un diverso esame, più favorevole al ricorrente, di fatti tutti comunque presi in considerazione dal Consiglio Nazionale Forense. Tale richiesta eccede i limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, come risultanti dall’interpretazione costante dell’articolo 360, comma 1, numero 5, e dell’articolo 132, comma 2, numero 4, del codice di procedura civile.
Implicazioni pratiche per gli avvocati
Questa pronuncia delle Sezioni Unite riveste un’importanza fondamentale per la categoria forense, in quanto chiarisce i confini entro i quali anche i comportamenti privati dell’avvocato possono assumere rilevanza disciplinare. Il principio affermato impone agli avvocati una particolare attenzione nell’adempimento di tutte le obbligazioni assunte, anche quelle estranee all’esercizio della professione, quando queste possano compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi.
Non è sufficiente, per escludere la responsabilità disciplinare, invocare generiche difficoltà economiche o problemi di salute sopravvenuti dopo l’assunzione dell’obbligazione. L’avvocato deve dimostrare l’esistenza di una vera e propria impossibilità assoluta della prestazione, derivante da causa obiettiva estranea alla sua volontà, quale il caso fortuito o la forza maggiore. Le semplici difficoltà economiche, anche se serie, non integrano una causa di forza maggiore idonea a escludere l’elemento soggettivo dell’illecito.
Dal punto di vista pratico, quando un avvocato si trova in temporanea difficoltà economica che gli impedisce di adempiere puntualmente a un’obbligazione assunta, è fondamentale che non rimanga inerte ma che adotti comportamenti attivi per gestire la situazione. L’avvocato dovrebbe tempestivamente contattare il creditore, spiegare le proprie difficoltà e proporre soluzioni transattive, come la rateizzazione del debito o la dilazione del pagamento. Un comportamento collaborativo e trasparente può non solo prevenire l’instaurazione di un contenzioso giudiziario, ma anche attenuare la gravità dell’eventuale condotta disciplinare agli occhi degli organi competenti.
La sentenza evidenzia inoltre che la natura voluttuaria o meno della spesa contratta non è determinante ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare. Anche l’inadempimento di obbligazioni relative a beni non essenziali può integrare una violazione deontologica se, per modalità e gravità, risulta idoneo a compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi. Ciò significa che l’avvocato non può giustificare l’inadempimento adducendo che il bene o servizio acquistato era necessario: una volta assunta l’obbligazione, l’avvocato è tenuto ad adempierla indipendentemente dalla natura del bene o servizio oggetto del contratto.
Un altro aspetto di particolare rilevanza riguarda la proporzionalità della sanzione. Nel caso esaminato, il Consiglio Nazionale Forense aveva ridotto la sanzione da quattro a due mesi di sospensione, considerando l’assenza di precedenti disciplinari in oltre quaranta anni di professione. Questo dato evidenzia come gli organi disciplinari, nel determinare la sanzione, tengano conto non solo della gravità del fatto contestato, ma anche del comportamento complessivo del professionista nel corso della sua carriera. Un curriculum professionale immacolato e una lunga esperienza possono costituire circostanze attenuanti nella determinazione della sanzione, pur non escludendo la responsabilità disciplinare.
Riflessioni conclusive
L’ordinanza delle Sezioni Unite n. 30771/2025 rappresenta un importante punto di riferimento nella materia della responsabilità disciplinare degli avvocati per inadempimenti verso terzi. La pronuncia ribadisce che l’avvocato è chiamato a essere un modello di correttezza non solo nell’esercizio della professione, ma anche nei rapporti privati, quando questi possano riflettersi negativamente sull’immagine dell’intera categoria.
Il messaggio che emerge chiaramente dalla sentenza è che la dignità della professione forense si costruisce anche attraverso il rispetto degli impegni assunti nella vita quotidiana. Il mancato pagamento di un debito, anche se relativo a una spesa non voluttuaria e anche se determinato da difficoltà sopravvenute, può integrare un illecito disciplinare quando il creditore è costretto a ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere quanto dovuto.
Per gli avvocati, questa pronuncia rappresenta un monito a prestare la massima attenzione non solo alla correttezza dei propri comportamenti professionali, ma anche alla gestione dei propri rapporti privati. In caso di difficoltà economiche, è essenziale adottare un atteggiamento proattivo e trasparente nei confronti dei creditori, evitando di assumere obbligazioni che potrebbero non essere in grado di onorare e, qualora sopravvengano impedimenti all’adempimento, cercando soluzioni concordate che evitino il ricorso alla tutela giurisdizionale.
La sentenza conferma inoltre i limiti del sindacato di legittimità sulle decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare. L’accertamento dei fatti e la valutazione della loro rilevanza disciplinare rientrano nel merito della decisione e sono sindacabili in sede di legittimità solo nei limiti di una verifica di ragionevolezza. Ciò significa che il ricorso per cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito della vicenda disciplinare, ma deve limitarsi alle tassative categorie di vizi previste dalla legge.
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