Bancarotta fraudolenta: quando la mancata tenuta della contabilità diventa reato

La Cassazione chiarisce i confini tra bancarotta documentale e fraudolenta impropria: responsabilità dell’amministratore e conseguenze penali per omissioni contabili e versamenti fiscali Con la sentenza n. 1503 del 9 ottobre 2025, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un amministratore e liquidatore di società per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta fraudolenta impropria. La pronuncia offre importanti chiarimenti sulla distinzione tra le diverse forme di bancarotta e sulle responsabilità penali degli amministratori in caso di fallimento societario, fornendo indicazioni precise sui comportamenti che integrano reato e sulle conseguenze per chi gestisce un’impresa in crisi. Il caso esaminato dalla Cassazione La vicenda trae origine dal fallimento di una società a responsabilità limitata, dichiarato nel febbraio 2020. L’amministratore unico e successivamente liquidatore della società era stato condannato dal Tribunale per bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta fraudolenta impropria. La Corte d’Appello di Roma aveva confermato la sentenza di primo grado, e l’imputato aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando sia la sussistenza del dolo specifico nella condotta contestata, sia l’applicazione delle circostanze aggravanti. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la correttezza della ricostruzione operata dai giudici di merito e fornendo importanti precisazioni in materia di reati fallimentari. La bancarotta fraudolenta documentale: le due anime del reato L’articolo 216, comma 1, numero 2, del Regio Decreto 267 del 1942 (legge fallimentare) prevede il reato di bancarotta fraudolenta documentale in due forme alternative: la prima riguarda la sottrazione o la distruzione dei libri e delle altre scritture contabili; la seconda concerne la tenuta della contabilità in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della società fallita. Questa duplice configurazione risponde a una logica precisa: il legislatore intende punire sia i comportamenti attivi di occultamento della documentazione contabile, sia le condotte omissive che, pur non consistendo nella materiale distruzione dei documenti, impediscono comunque agli organi della procedura fallimentare di ricostruire l’effettivo andamento dell’impresa e di individuare le responsabilità nella crisi societaria. La Cassazione ha chiarito che anche l’ipotesi della completa “omessa tenuta” dei libri contabili può essere ricondotta alla prima fattispecie, quella della sottrazione o distruzione. Questa interpretazione risponde a una logica sostanzialistica: ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato non è tanto la modalità con cui si realizza l’impossibilità di ricostruire il patrimonio e l’andamento della società, quanto il risultato di impedire agli organi fallimentari di svolgere le proprie funzioni. Nel caso esaminato, la Corte territoriale aveva accertato che l’imputato, negli anni 2017 e 2018, aveva mantenuto un’esposizione costante nei confronti dell’erario superiore a 880.000 euro, senza assumere alcuna iniziativa di risanamento o di riduzione parziale del debito, né effettuare alcun pagamento parziale o dilazionato. Inoltre, non aveva mai compiuto atti necessari per l’esercizio delle attività liquidatorie e non aveva depositato alcun bilancio né alcuna dichiarazione tributaria, predisponendo un bilancio finale di liquidazione con l’iscrizione di poste fittizie. Il dolo specifico nella bancarotta documentale Un aspetto centrale della controversia riguardava la sussistenza del dolo specifico richiesto per la configurazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale. Il ricorrente aveva sostenuto che la condanna si fondasse su un ragionamento meramente tautologico, basato sulla mancata consegna delle scritture contabili al curatore fallimentare, senza una dimostrazione dell’effettivo dolo diretto alla causazione del fallimento. La Cassazione ha rigettato questa tesi, evidenziando che la Corte territoriale aveva fatto buon governo delle direttrici interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, i giudici di merito avevano individuato nella deliberata e costante omissione dei versamenti erari un obiettivo di “autofinanziamento” dell’imprenditore, che aveva utilizzato le risorse destinate all’adempimento dei debiti tributari e previdenziali per finalità diverse, cagionando anche l’ingravescente dimensione del dissesto. La condotta, pertanto, non si limitava alla mera omissione contabile, ma rivelava un preciso disegno di sottrazione delle risorse aziendali agli obblighi di legge, con pregiudizio per i creditori e per la massa fallimentare. La bancarotta fraudolenta impropria: operazioni dolose e depauperamento patrimoniale Oltre alla bancarotta documentale, l’imputato era stato condannato anche per bancarotta fraudolenta impropria, prevista dall’articolo 223, comma 2, della legge fallimentare. Questa fattispecie punisce l’amministratore o il liquidatore che, prima della dichiarazione di fallimento, compie operazioni dolose che cagionano o aggravano il dissesto della società. La giurisprudenza consolidata della Cassazione ha chiarito che le operazioni dolose di cui all’articolo 223, comma 2, possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di pervicacia e stabilità. Non si tratta di singoli episodi isolati, ma di condotte sistematiche e protratte nel tempo che rivelano un abuso di gestione o un’infedeltà nei doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo. Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva sottolineato che l’ingente debito verso l’erario era maturato negli anni 2016-2020, a causa del sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, da attribuirsi all’inerzia dell’amministratore e, poi, del liquidatore. La sentenza aveva inoltre precisato che anche nella fase liquidatoria l’imputato non si era adoperato per il pagamento dei debiti sociali e il soddisfacimento dei creditori, limitandosi a gestire una società già appesantita dall’accumulo dei debiti di impresa pregressi. Operazioni dolose: quando rileva il dolo generico Un elemento particolarmente importante riguarda la natura del dolo richiesto per la bancarotta fraudolenta impropria derivante da operazioni dolose. La Cassazione ha confermato che in questi casi non è necessario dimostrare il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, essendo sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa. Ciò che rileva, ai fini della bancarotta fraudolenta impropria, non è dunque l’immediato depauperamento della società attraverso la creazione o l’aggravamento del dissesto, bensì la prevedibilità che dalla condotta derivi il fallimento della società. Nel caso specifico, la Corte territoriale aveva individuato nella sistematica e protratta inerzia nel soddisfare le obbligazioni fiscali e previdenziali la causa della formazione di un ingente passivo fallimentare, correlando questa inadempienza sotto il profilo della significatività e dei lineamenti del dolo preteso dalla norma incriminatrice. Le aggravanti: il danno di rilevante gravità e la mancata presentazione dei bilanci Un ulteriore aspetto controverso riguardava
Violenza sessuale: il “no” iniziale vale, anche se potrebbe arrivare un “sì” dopo

La Cassazione ribadisce che il consenso deve essere presente al momento dell’atto: la possibilità di un consenso futuro non esclude il reato La libertà sessuale è un diritto che si esercita momento per momento, attimo per attimo. Non esiste un consenso “anticipato” o “posticipato” che possa legittimare un atto sessuale compiuto contro la volontà espressa dalla persona in quel preciso istante. È questo il principio cardine ribadito dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, con la sentenza n. 1003 depositata l’8 luglio 2025 (R.G.N. 10678/2025), che merita un’attenta riflessione per comprendere la portata della tutela accordata dall’ordinamento alla sfera più intima della persona. La pronuncia affronta un tema di drammatica attualità: cosa accade quando una persona manifesta il proprio rifiuto a un rapporto sessuale, ma l’altra parte sostiene che quel rifiuto sarebbe stato solo temporaneo e che il consenso sarebbe arrivato comunque, magari poco dopo? La risposta della Suprema Corte è netta e inequivocabile: il consenso deve esistere nel momento esatto in cui l’atto viene compiuto, e nessuna aspettativa, nessuna previsione di un consenso futuro può giustificare la violazione della volontà espressa dalla persona in quel momento. La vicenda che ha portato alla pronuncia Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità riguardava un imputato condannato per i reati di cui agli artt. 56, 609-bis e 582 del codice penale. Il Tribunale di Aosta, con sentenza del 15 maggio 2024, aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato, condannandolo alla pena di un anno e un mese di reclusione, condizionalmente sospesa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 25 novembre 2024, aveva confermato integralmente la decisione di primo grado. Nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito emergeva un elemento centrale: la persona offesa aveva manifestato il proprio rifiuto a consumare un rapporto sessuale in quel momento, comunicando all’imputato di essere occupata in cucina e chiedendogli di aspettare. Nonostante questo chiaro diniego, l’imputato aveva proceduto ugualmente, costringendo fisicamente la vittima e procurandole lesioni in varie parti del corpo. Nel ricorso per cassazione, la difesa dell’imputato aveva cercato di contestare l’affermazione di responsabilità sostenendo che la persona offesa non aveva opposto un rifiuto assoluto al rapporto sessuale, ma gli aveva solo detto di aspettare perché era occupata in cucina, lasciando intendere che avrebbe comunque consentito ad avere il rapporto sessuale in un momento successivo. Secondo questa tesi difensiva, quindi, mancherebbe la prova dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dal momento che l’imputato poteva ragionevolmente ritenere che il consenso sarebbe arrivato poco dopo. Il principio affermato dalla Cassazione: il consenso deve essere attuale La Corte di Cassazione ha respinto integralmente questa tesi difensiva, richiamando un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità: in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso. Lo ha affermato chiaramente la Terza Sezione Penale con la sentenza n. 7873 del 19 gennaio 2022 (Rv. 282834-01), e lo ha ribadito ora nella pronuncia in commento. Questo principio significa che ciò che conta, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609-bis c.p., è esclusivamente la volontà espressa dalla persona al momento in cui l’atto viene compiuto. Non rileva minimamente che quella persona avrebbe potuto, forse, probabilmente, dare il proprio consenso in un momento successivo. Non conta che il rifiuto possa essere interpretato come “temporaneo” o “condizionato” a circostanze esterne (nel caso di specie, il fatto di essere occupata in cucina). Non ha rilevanza giuridica la circostanza che l’imputato potesse nutrire l’aspettativa di ottenere il consenso poco dopo. L’unica cosa che conta è il qui ed ora: se nel momento in cui l’atto viene compiuto la persona ha espresso il proprio rifiuto, qualsiasi condotta volta a superare tale rifiuto attraverso violenza, minaccia o costrizione fisica integra il reato di violenza sessuale. Perché il consenso deve essere attuale: il fondamento costituzionale della libertà sessuale Per comprendere appieno la portata di questo principio, occorre riflettere sulla natura del bene giuridico tutelato dall’art. 609-bis c.p. La Cassazione lo ha chiarito in moltissime pronunce: il bene protetto è la libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali, una libertà che deve essere considerata assoluta e incondizionata. Si tratta, in altre parole, di un diritto fondamentale della persona, che affonda le proprie radici negli artt. 2, 3 e 13 della Costituzione, i quali garantiscono l’inviolabilità della libertà personale e il pieno sviluppo della personalità individuale. La libertà sessuale non è un diritto che si esercita in astratto, come una sorta di autorizzazione generale che, una volta concessa, vale per sempre o per un periodo di tempo indefinito. È invece un diritto che si manifesta e si esprime continuamente, momento per momento, attraverso scelte libere e consapevoli. Ogni singolo atto sessuale richiede un consenso specifico, attuale, presente. Il fatto che una persona abbia acconsentito in passato a rapporti sessuali con la stessa persona non implica minimamente che acconsenta ad atti futuri. Analogamente, e qui sta il cuore della questione affrontata dalla sentenza in commento, il fatto che una persona potrebbe acconsentire in futuro non legittima minimamente un atto compiuto quando quel consenso non c’è ancora. Si potrebbe utilizzare un’analogia per rendere più comprensibile il concetto: immaginiamo una persona che invita un amico a pranzo dicendogli “vieni pure, ma tra un’ora perché ora sto cucinando”. Se l’amico decidesse di entrare in casa immediatamente, forzando la porta, non potrebbe certo difendersi sostenendo che tanto sarebbe stato autorizzato a entrare un’ora dopo. Il consenso a entrare in casa valeva per un momento successivo, non per il momento presente. Allo stesso modo, nel diritto penale, la libertà sessuale viene violata quando si compie un atto senza il consenso presente e attuale della persona, indipendentemente da eventuali consensi passati o futuri. La corretta ricostruzione operata dalla Corte territoriale Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Torino aveva operato una ricostruzione puntuale e corretta della fattispecie, evidenziando come la condotta dell’imputato fosse stata inequivocabilmente violenta. I giudici territoriali avevano
Pene sostitutive e riforma Cartabia: quando il carcere non è l’unica risposta

La Cassazione richiama i giudici a valutare concretamente le potenzialità rieducative delle pene alternative, soprattutto quando la condanna è minima Con sentenza n. 34243 depositata il 20 ottobre 2025, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione interviene su una questione di fondamentale importanza per l’attuazione della riforma Cartabia: l’applicazione delle pene sostitutive previste dall’art. 20-bis del codice penale. La pronuncia segna un punto di svolta nell’interpretazione del nuovo assetto normativo introdotto dal D.Lgs. n. 150/2022, affermando che il giudice non può limitarsi a considerare i precedenti penali per negare una pena alternativa al carcere, ma deve compiere una valutazione prognostica complessa e motivata che tenga conto delle specifiche potenzialità rieducative della sanzione richiesta. La vicenda trae origine da un episodio di cronaca giudiziaria apparentemente minore: il tentativo di sottrarre generi alimentari del valore di 62 euro da un supermercato. La donna protagonista della vicenda veniva condannata dal Tribunale di Vercelli a due mesi di reclusione per tentato furto aggravato dall’esposizione alla pubblica fede, sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Torino. La difesa impugnava in cassazione su tre profili: la configurabilità dell’aggravante, la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e, soprattutto, il diniego della pena sostitutiva richiesta. La videosorveglianza non esclude l’aggravante del furto Sul primo profilo la Cassazione ha confermato l’orientamento consolidato in materia di furto aggravato dall’esposizione alla pubblica fede. La difesa aveva sostenuto che la presenza di controllo da parte del direttore del supermercato – controllo che aveva portato all’interruzione del reato e quindi alla sua qualificazione come tentato anziché consumato – avrebbe dovuto escludere l’aggravante prevista dall’art. 625, primo comma, n. 7 del codice penale. La Suprema Corte ha respinto questa censura richiamando un principio ormai consolidato: sussiste l’aggravante qualora il furto della cosa esposta alla pubblica fede sia commesso in un luogo dotato di sistema di videosorveglianza che, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrate, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo, né garantisce in maniera continuativa la custodia del bene da parte del proprietario o di altra persona addetta alla sorveglianza. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva escluso del tutto la sussistenza di un sistema di sorveglianza con operatore addetto e pronto a impedire la commissione del furto, rilevando come l’azione criminosa fosse stata arrestata in modo accidentale. La ricorrente non aveva dedotto alcun travisamento della prova su questo punto, limitandosi a proporre una alternativa ricostruzione dei fatti senza confrontarsi specificamente con le argomentazioni decisive della sentenza impugnata. Il motivo di ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile per genericità. L’abitualità del reato esclude la non punibilità per tenuità del fatto Il secondo motivo di ricorso lamentava la mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis del codice penale per particolare tenuità del fatto. La difesa sosteneva che la Corte territoriale non si fosse confrontata né con il tempo trascorso tra i reati precedenti e quello oggetto di giudizio, né con le circostanze della pregressa esecuzione di alcune pene, né con il comportamento susseguente al reato. Anche questo motivo è stato respinto come aspecifico. La sentenza impugnata aveva richiamato i precedenti penali dell’imputata, non solo risalenti ma anche relativi a tempi recenti, ai fini della prova dell’abitualità del reato. In particolare, tra le condanne subite emergeva anche una sentenza del 5 gennaio 2023 della Corte d’Appello di Torino che confermava la condanna per un furto commesso il 14 gennaio 2021, quindi successivo a quello per cui si procedeva. La Cassazione ha richiamato il principio espresso dalle Sezioni Unite secondo cui, ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis, il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti oltre quello preso in esame. Nel caso concreto l’abitualità era attestata dai reati precedenti come anche da quello successivo, rendendo ogni ulteriore doglianza assorbita dalla preliminare valutazione di sussistenza dell’abitualità, che costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’esimente anche in presenza di un fatto di lieve entità. Le pene sostitutive come autentiche pene: la svolta della riforma Cartabia Il terzo motivo di ricorso – l’unico accolto dalla Suprema Corte – attiene al diniego della pena sostitutiva prevista dall’art. 20-bis del codice penale. La difesa aveva richiesto la sostituzione della pena detentiva con quella dei lavori di pubblica utilità, lamentando che la motivazione della Corte d’Appello si fosse limitata alla valutazione dei precedenti penali senza tenere in conto la misura della pena detentiva applicata, pari a soli due mesi di reclusione, e lo spirito della riforma Cartabia. La Corte territoriale aveva rilevato che le pene sostitutive non sarebbero state idonee alla rieducazione e, soprattutto, non avrebbero assicurato la prevenzione del pericolo di commissione di reati, tenuti in conto i numerosi e specifici precedenti che non risultavano aver costituito una remora per l’imputata. La Cassazione ha ritenuto questa motivazione contraddittoria e insufficiente, accogliendo il ricorso e annullando la sentenza con rinvio limitatamente al profilo delle pene sostitutive. La pronuncia si fonda su una ricostruzione sistematica della disciplina introdotta dalla riforma Cartabia, che ha profondamente modificato la natura e la funzione delle pene sostitutive nel sistema sanzionatorio italiano. Come evidenziato dalla Suprema Corte, la riforma ha inteso configurare le pene sostitutive come autentiche pene, destinate ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione per realizzare le funzioni proprie della sanzione penale. Ciò si desume dall’introduzione nel Libro I del codice penale del nuovo art. 20-bis, che espressamente le elenca, completando il novero delle pene principali e accessorie. La Cassazione richiama espressamente la relazione illustrativa del D.Lgs. n. 150/2022, che chiarisce come le pene sostitutive debbano intendersi come vere e proprie pene diverse da quelle edittali, irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato nonché a obiettivi di prevenzione generale e speciale. Questo nuovo assetto normativo si pone in coerenza con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che ragiona di “pene” al plurale, stimolando
Amministratore di fatto e dichiarazione infedele: quando il prestanome risponde penalmente

La Cassazione chiarisce i confini della responsabilità penale tributaria dell’amministratore formale e l’applicabilità del dolo eventuale nei reati di dichiarazione infedele Con sentenza n. 34191 depositata il 22 settembre 2025, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione si pronuncia su una questione di particolare rilevanza per il diritto penale tributario: la configurabilità della responsabilità penale dell’amministratore formale di una società che si difende sostenendo di essere un mero prestanome inconsapevole delle condotte illecite poste in essere dal vero dominus dell’impresa. La vicenda trae origine dalla condanna pronunciata dal Tribunale di Milano e confermata dalla Corte d’Appello nei confronti di un soggetto per il reato di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, commesso nella sua qualità di amministratore unico di una società a responsabilità limitata. L’imputato aveva impugnato la sentenza di appello articolando il ricorso in tre motivi, lamentando vizi di motivazione e violazioni di legge sia sul piano processuale che sostanziale. La questione della documentazione digitale: il sistema TIAP nel processo penale Il primo motivo di ricorso solleva una questione processuale di crescente attualità nell’era della digitalizzazione della giustizia: la valenza probatoria degli atti processuali conservati in formato digitale attraverso il sistema TIAP (Trattamento Informatico degli Atti Processuali). La difesa lamentava che la deposizione del teste dell’accusa si era fondata su documenti mai prodotti materialmente nel fascicolo del Pubblico Ministero, denunciando una lesione dei diritti di difesa e del contraddittorio. La Corte di Cassazione ha respinto questa censura come infondata, richiamando il proprio insegnamento consolidato in materia di amministrazione digitale degli atti processuali. I giudici di legittimità hanno evidenziato che, secondo quanto previsto dall’art. 22 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), le copie digitali di atti rilasciate dai depositari pubblici autorizzati o dai pubblici ufficiali, prodotte mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico, assumono la stessa efficacia dell’atto cartaceo. Tale principio è stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 27910/2019 e Sez. 3, n. 5018/2024). Nel caso concreto, la Corte ha rilevato che la difesa non aveva contestato la precisazione effettuata in udienza dal Pubblico Ministero secondo cui gli atti erano stati “tiapizzati”, né aveva dedotto la sussistenza di condizioni ostative all’utilizzo degli atti medesimi. In tale contesto, la difesa avrebbe dovuto chiedere l’accesso al sistema TIAP per esaminare ed estrarre copia degli atti, operazione che possono compiere tutti i soggetti che sostengono l’ipotesi di accusa. La Suprema Corte ha quindi chiarito che il mancato accoglimento di tale richiesta avrebbe certamente dato luogo alla lesione dei diritti di difesa denunciata, ma nel caso di specie il difensore avrebbe dovuto sollecitare la controparte alla produzione degli atti prima della conclusione dell’istruttoria, oppure chiedere un termine per poter controesaminare il teste di accusa alla luce degli atti evocati nel corso della deposizione. Non risultando che la difesa avesse intrapreso alcuna iniziativa in tal senso, la stessa aveva accettato la situazione per poi proporre la questione in appello in modo tardivo. Prestanome o amministratore consapevole? La valutazione del dolo nel reato tributario Il secondo motivo di ricorso – il più rilevante sul piano sostanziale – attiene alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato. L’imputato si difendeva sostenendo di aver accettato di rivestire, per amicizia, la carica di amministratore della società e di aver sottoscritto le dichiarazioni fiscali per l’anno 2015 senza operare alcun controllo, configurandosi quindi come mero prestanome inconsapevole del vero dominus della società. I giudici di merito avevano invece concordemente ritenuto che, pur essendo emersa la figura di altro soggetto come dominus effettivo della società, l’imputato non poteva essere considerato un semplice inconsapevole prestanome. Tale valutazione si fondava su una serie di elementi convergenti accuratamente valorizzati nelle sentenze di merito. In particolare, era emerso che l’imputato aveva lavorato per circa un decennio nelle aziende del gruppo facente capo al vero dominus. Il Tribunale di primo grado aveva richiamato alcune significative dichiarazioni dello stesso ricorrente, dalle quali emergeva che questi era impegnato sia quale docente nei corsi di formazione tenuti dalla società, sia nel coordinamento delle unità operative, fungendo da riferimento tecnico per gli altri docenti. Aveva inoltre accettato la carica di amministratore delegato della società senza ricevere compensi correlati alla carica stessa e senza conoscere le ragioni che avevano indotto il dominus a nominarlo, pur avendo quest’ultimo comunicato di non poter comparire come amministratore per ragioni legate evidentemente ad aspetti di rischio. Su tali basi, e alla luce delle condizioni personali dell’imputato – soggetto non esperto di contabilità ma culturalmente attrezzato, oltre che a conoscenza dei meccanismi di funzionamento della realtà imprenditoriale in cui si trovava ad operare – il Tribunale aveva ritenuto che il ricorrente fosse pienamente consapevole degli obblighi inerenti la carica rivestita e responsabile delle condotte penalmente rilevanti. La Corte d’Appello aveva confermato tale valutazione, ritenendo configurabile il dolo specifico del reato di dichiarazione infedele nella forma del dolo eventuale, non solo alla luce di quanto evidenziato dal primo giudice, ma anche sottolineando che l’imputato era tenuto a verificare che la società da lui rappresentata fosse in regola con la normativa fiscale. Il dolo eventuale nei reati tributari: l’orientamento giurisprudenziale La Cassazione ha confermato l’impostazione dei giudici di merito, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di dolo nei reati tributari. La giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (Sez. 3, n. 52411/2018 e Sez. 3, n. 12680/2020). Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto applicabile tale indirizzo interpretativo sulla scorta di plurime convergenti indicazioni: il risalente rapporto fiduciario che legava il ricorrente al vero dominus; l’accettazione della carica amministrativa nella piena consapevolezza che quest’ultimo corresse “rischi” nel comparire ufficialmente come amministratore; l’accettazione per il dominus di essere esautorato
Violenza domestica e maltrattamenti: la Cassazione chiarisce i principi sulla valutazione della prova e sulla prescrizione

La Terza Sezione Penale ribadisce i criteri di attendibilità delle dichiarazioni delle vittime e precisa la disciplina temporale del reato di maltrattamenti dopo la riforma del 2012 Una recente pronuncia della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione affronta questioni di cruciale importanza nel contrasto alla violenza domestica e di genere, fornendo chiarimenti significativi sui criteri di valutazione della prova nei reati contro la persona e sulla disciplina della prescrizione per i maltrattamenti in famiglia. La decisione si inserisce nel solco consolidato della giurisprudenza di legittimità che negli ultimi anni ha progressivamente affinato gli strumenti interpretativi per garantire una tutela più efficace alle vittime di violenza, bilanciando al contempo le esigenze di garanzia processuale per gli imputati. La vicenda processuale trae origine da una complessa fattispecie di violenza domestica caratterizzata da episodi di violenza sessuale e maltrattamenti perpetrati nell’ambito di una relazione familiare. Il Tribunale di primo grado aveva condannato l’imputato a quattro anni e otto mesi di reclusione per una serie di condotte violente realizzate nel corso del tempo ai danni della compagna e di altri familiari. La Corte d’Appello aveva successivamente riformato parzialmente la sentenza, assolvendo l’imputato da alcune imputazioni per intervenuta prescrizione ma confermando la responsabilità per i maltrattamenti e riducendo la pena a quattro anni e due mesi di reclusione. L’imputato aveva quindi proposto ricorso per cassazione articolato su sette distinti motivi, tutti respinti dalla Suprema Corte che ha confermato sostanzialmente l’impostazione dei giudici d’appello, pur annullando senza rinvio limitatamente a uno specifico capo d’imputazione per sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione. La decisione offre spunti di notevole interesse tanto sul piano sostanziale quanto su quello processuale, contribuendo a precisare i confini applicativi di principi consolidati ma in continua evoluzione. La valutazione della prova nei reati di violenza domestica Il primo nucleo tematico affrontato dalla Cassazione riguarda i criteri di valutazione della prova testimoniale nei procedimenti per violenza domestica, tema di straordinaria delicatezza che richiede un equilibrio attento tra tutela delle vittime e garanzie processuali per l’imputato. La Corte ha respinto le censure del ricorrente che lamentavano vizi nella ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, ribadendo il principio fondamentale secondo cui la valutazione dell’attendibilità dei testimoni e la ricostruzione della dinamica degli eventi appartengono al merito della controversia e non possono essere rimesse in discussione in sede di legittimità se supportate da motivazione logica e coerente. Il ricorrente aveva in particolare contestato la credibilità accordata alle dichiarazioni delle persone offese, sostenendo che le loro versioni presentassero incongruenze e contraddizioni tali da minarne l’affidabilità. La Suprema Corte ha tuttavia chiarito che la valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni testimoniali costituisce una prerogativa esclusiva del giudice di merito, il quale deve operare una sintesi valutativa complessiva di tutti gli elementi acquisiti, compresi gli eventuali aspetti contraddittori o lacunosi delle deposizioni. Particolare rilevanza assume in questo contesto la specificità dei reati di violenza domestica, caratterizzati spesso dalla mancanza di testimoni diretti e dalla necessità di ricostruire dinamiche complesse che si sviluppano nell’ambito delle relazioni familiari. La giurisprudenza ha progressivamente elaborato criteri interpretativi che tengano conto di tale peculiarità, riconoscendo che le dichiarazioni delle vittime possano costituire prova decisiva purché risultino attendibili nel loro complesso e trovino riscontro in elementi oggettivi o di contesto. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva ritenuto credibili le testimonianze delle persone offese sulla base di una valutazione complessiva che aveva considerato non solo il contenuto specifico delle singole dichiarazioni, ma anche il contesto generale della relazione, la coerenza temporale degli episodi riferiti e la presenza di elementi di riscontro esterno. Tale metodologia valutativa è stata confermata dalla Cassazione, che ha respinto come meramente rivolta a ottenere una rivalutazione delle prove la censura del ricorrente sulla presunta inattendibilità delle testimonianze. La pronuncia contribuisce così a consolidare un orientamento giurisprudenziale che, pur mantenendo fermi i principi generali sulla valutazione della prova, riconosce la necessità di adattare i criteri applicativi alle specificità dei reati contro la persona, dove spesso la prova si forma attraverso dichiarazioni di soggetti che hanno vissuto direttamente situazioni di violenza e possono quindi presentare comprensibili difficoltà nella ricostruzione precisa di eventi traumatici. I limiti del sindacato di legittimità nelle questioni di fatto Un secondo profilo di grande interesse riguarda la delimitazione dei confini del sindacato di legittimità rispetto alle valutazioni di fatto operate dai giudici di merito. La Cassazione ha respinto come inammissibili diverse censure del ricorrente, rilevando che esse erano in realtà volte a ottenere una rivalutazione degli elementi probatori acquisiti piuttosto che a denunciare specifici vizi logici o giuridici della motivazione. La Corte ha in particolare sottolineato come il ricorrente si limitasse a proporre una ricostruzione alternativa dei fatti senza indicare specifici errori nella motivazione dei giudici d’appello, configurando quindi una critica generica e inammissibile in sede di legittimità. Tale rilievo assume portata generale e richiama l’attenzione sulla necessità di articolare con precisione le censure in cassazione, evitando formulazioni generiche che si risolvano in una mera richiesta di riesame del merito. Il principio trova particolare applicazione nei procedimenti per reati contro la persona, dove la complessità della ricostruzione fattuale e la delicatezza delle valutazioni richieste possono indurre a contestazioni che, pur comprensibili sul piano umano, non raggiungono la soglia di specificità richiesta per il sindacato di legittimità. La Suprema Corte ha quindi ribadito che la motivazione della sentenza d’appello deve essere censurata per aspetti specifici e puntuali, non potendosi limitare il ricorrente a esprimere un dissenso generico sulla ricostruzione operata dai giudici di merito. Questo orientamento contribuisce a chiarire il ruolo della Cassazione penale nel sistema processuale, confermando che il sindacato di legittimità non può estendersi a una rivalutazione complessiva delle prove ma deve limitarsi alla verifica della correttezza logica e giuridica dell’iter motivazionale seguito dai giudici del merito. Tale delimitazione assume particolare importanza nei procedimenti per violenza domestica, dove la complessità delle dinamiche relazionali e la delicatezza delle valutazioni richieste potrebbero altrimenti dar luogo a un numero eccessivo di ricorsi fondati su mere diversità di apprezzamento degli elementi probatori. La disciplina della prescrizione per i maltrattamenti
Reddito di cittadinanza: la Cassazione conferma che omettere la propria attività imprenditoriale è reato

La Terza Sezione Penale chiarisce i confini del dolo nelle false dichiarazioni per ottenere prestazioni assistenziali La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 498 del 14 maggio 2025, ha fornito un importante contributo interpretativo in materia di false dichiarazioni per l’ottenimento del reddito di cittadinanza. La decisione, emanata dalla Terza Sezione Penale, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro una condanna per violazione dell’articolo 7, comma 1, del decreto legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni nella legge n. 26 del 2019. La vicenda trae origine da una condanna inflitta dal Tribunale di Livorno nel novembre 2022 e successivamente confermata dalla Corte d’appello di Firenze nel dicembre 2024. Il caso riguardava un soggetto che, nel presentare la domanda per ottenere il reddito di cittadinanza, aveva omesso di comunicare informazioni essenziali relative alla propria situazione lavorativa e patrimoniale. In particolare, l’interessato aveva taciuto di essere titolare di un’impresa di compravendita di autoveicoli con un inventario di ben trentadue veicoli, oltre a non aver indicato correttamente la propria residenza familiare effettiva. La normativa sul reddito di cittadinanza impone ai richiedenti obblighi dichiarativi particolarmente stringenti, proprio perché il beneficio è destinato esclusivamente a chi si trova in condizioni di effettivo bisogno economico. La legge richiede che le informazioni fornite siano non solo veritiere, ma anche complete, per consentire all’amministrazione di valutare correttamente la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge. Il ricorso presentato davanti alla Cassazione si fondava essenzialmente su due argomenti. Il primo contestava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sostenendo che le omissioni informative fossero frutto di semplice negligenza e non di un intento doloso. Il secondo motivo lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’inadeguatezza della pena irrogata rispetto alla gravità del fatto. La Suprema Corte ha respinto entrambe le censure con argomentazioni che meritano particolare attenzione. Quanto al primo profilo, i giudici di legittimità hanno chiarito che per integrare il reato previsto dall’articolo 7 del decreto legge n. 4 del 2019 è sufficiente il dolo generico. Questo significa che non occorre dimostrare una particolare intenzione fraudolenta o un piano premeditato di inganno, ma è sufficiente che il soggetto sia consapevole dell’obbligo di fornire informazioni complete e veritiere e che, ciononostante, ometta volontariamente di comunicare dati rilevanti. La Corte ha sottolineato come l’incompletezza delle dichiarazioni non possa essere considerata una semplice svista quando riguarda elementi così significativi come la titolarità di un’attività imprenditoriale con un consistente parco veicoli. In questi casi, l’omissione non può essere attribuita a ignoranza o a una comprensione errata dei propri doveri dichiarativi, poiché si tratta di informazioni che il richiedente conosce perfettamente e che riguardano la sua stessa situazione personale ed economica. Particolarmente significativo è il passaggio in cui la sentenza evidenzia che l’interessato non poteva non essere consapevole dell’obbligo di dichiarare la propria posizione lavorativa effettiva. La consapevolezza dell’esistenza di un dovere di completezza informativa, unita alla volontaria omissione di dati essenziali, configura quella rappresentazione della doverosità delle informazioni che integra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Sul secondo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la Cassazione ha ritenuto che la decisione della Corte territoriale fosse adeguatamente motivata e conforme ai principi giurisprudenziali consolidati. La presenza di precedenti penali a carico del condannato, unitamente alla gravità del comportamento tenuto, giustificava l’esclusione del beneficio delle circostanze attenuanti. Inoltre, la pena applicata risultava contenuta nel minimo edittale previsto, con un aumento per effetto della recidiva reiterata che la Corte ha ritenuto proporzionato alla situazione concreta. Questa pronuncia si inserisce in un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, che ha più volte ribadito la necessità di un rigoroso rispetto degli obblighi dichiarativi in materia di prestazioni assistenziali. Il reddito di cittadinanza, essendo una misura di sostegno economico finanziata dalla collettività, deve essere effettivamente destinato a chi ne ha diritto secondo i criteri stabiliti dal legislatore. La falsità o l’incompletezza delle dichiarazioni non solo lede il corretto funzionamento del sistema di welfare, ma sottrae risorse che potrebbero essere destinate a chi versa in condizioni di effettivo bisogno. Le implicazioni pratiche di questa sentenza sono rilevanti per chiunque presenti o abbia presentato domanda per il reddito di cittadinanza o altre prestazioni assistenziali. La decisione conferma che non è sufficiente limitarsi a compilare i moduli richiesti in modo superficiale o incompleto, sperando che eventuali omissioni possano essere giustificate come errori in buona fede. Al contrario, chi omette di dichiarare elementi sostanziali della propria situazione economica o lavorativa si espone a conseguenze penali che possono comportare la reclusione, oltre all’obbligo di restituire le somme indebitamente percepite. La sentenza evidenzia inoltre come il sistema di controlli sulle dichiarazioni sostitutive sia ormai sufficientemente articolato da permettere l’emersione delle situazioni fraudolente. Le verifiche incrociate tra diverse banche dati pubbliche consentono di individuare discrepanze e omissioni che, quando riguardano elementi essenziali come la titolarità di attività d’impresa, difficilmente possono sfuggire agli accertamenti dell’autorità competente. Un altro aspetto degno di nota è il rilievo che la Corte attribuisce alla completezza informativa. Non basta che le informazioni fornite siano tecnicamente veritiere: esse devono anche essere complete, nel senso che non possono essere omessi dati rilevanti per la valutazione dei requisiti di accesso al beneficio. Questa interpretazione estensiva dell’obbligo dichiarativo risponde all’esigenza di garantire che l’amministrazione disponga di tutti gli elementi necessari per una corretta istruttoria della pratica. La condanna alle spese processuali e al pagamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dall’articolo 616 del codice di procedura penale, completa il quadro sanzionatorio. Questa misura accessoria, che si aggiunge alla pena detentiva, sottolinea ulteriormente la gravità con cui l’ordinamento considera le violazioni degli obblighi dichiarativi in materia assistenziale. Per i cittadini che si trovano in difficoltà economiche e intendono accedere a forme di sostegno pubblico, questa sentenza rappresenta un monito chiaro: è fondamentale fornire informazioni complete e veritiere fin dalla presentazione della domanda. Qualsiasi dubbio sulla necessità di dichiarare determinati elementi dovrebbe essere risolto optando per la massima trasparenza, eventualmente avvalendosi di una consulenza professionale qualificata. Per le imprese e i professionisti,
Coltivazione domestica di cannabis: quando scatta il reato?

La Quarta Sezione Penale ribadisce che anche poche piantine possono integrare il reato di coltivazione: conta l’idoneità della sostanza, non la quantità La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 655 del 24 giugno 2025, torna a occuparsi di un tema controverso e di grande attualità: quando la coltivazione domestica di piante di cannabis assume rilevanza penale? La questione divide da anni giuristi, operatori del diritto e cittadini, e questa pronuncia offre l’occasione per fare chiarezza sui principi consolidati e sulle sfumature interpretative che caratterizzano questa delicata materia. La vicenda esaminata dalla Corte Il caso trae origine dalla condanna di un soggetto per il reato previsto dall’articolo 73, commi 4 e 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo Unico Stupefacenti). L’imputato era stato sorpreso mentre coltivava alcune piantine di canapa indica, di altezza variabile tra i sette e i trentacinque centimetri. La Corte d’Appello di Salerno aveva confermato la sentenza di primo grado, ritenendo che quella coltivazione, pur svolta in forma domestica, presentasse le caratteristiche della coltivazione penalmente rilevante. A nulla era valso l’argomento difensivo secondo cui il numero esiguo di piante e la loro distribuzione in diversi ambienti dell’abitazione avrebbero dovuto far escludere la sussistenza del reato. Il quadro normativo e costituzionale di riferimento Per comprendere la decisione della Cassazione occorre partire dai principi tracciati dalla Corte Costituzionale. Con la storica sentenza n. 360 del 1995, il giudice delle leggi ha riconosciuto la legittimità costituzionale della previsione di illiceità penale persistente per la coltivazione di stupefacenti, anche quando questa sia univocamente destinata all’uso personale e indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto. La condotta resiste alla verifica costituzionale in quanto, pur potendo essere valutata come pericolosa, rimane comunque idonea ad attentare al bene della salute dei singoli, per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio. Questa impostazione non ha significato, tuttavia, che ogni forma di coltivazione debba essere automaticamente punita. La Corte Costituzionale ha precisato che rimane affidata al giudice ordinario l’identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide sulla linea di confine del penalmente illecito. Si tratta di una questione meramente interpretativa, rimessa alla valutazione caso per caso della magistratura. Il principio delle Sezioni Unite: quando la coltivazione è reato Gli anni successivi hanno visto un acceso dibattito giurisprudenziale sulla necessità che il giudice valutasse in concreto l’offensività di una condotta di coltivazione domestica. I contrasti interpretativi sono stati definitivamente composti dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 12348 del 19 dicembre 2019 (deposito 2020, Caruso). Secondo tale pronuncia, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Questa sentenza ha ritenuto, tuttavia, che debbano ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile e la mancanza di ulteriori indici di inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore. In sostanza, il Supremo Collegio ha tracciato una graduazione della risposta punitiva rispetto all’attività di coltivazione di piante stupefacenti nelle sue diverse accezioni, articolando una soluzione basata sull’affermazione della mancanza di tipicità quando ricorrano tutte le condizioni sopra specificate per la coltivazione domestica destinata all’autoconsumo. L’applicazione dei principi al caso concreto Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, la Corte d’Appello aveva valorizzato diversi elementi per giungere alla conclusione che quella coltivazione non potesse essere considerata penalmente neutra. Tra i parametri utilizzabili, la Corte territoriale aveva preso in considerazione il numero delle piante messe a dimora, la maggior parte delle quali collocate in un vano sottotetto, e la presenza di un bilancino elettronico di precisione. Ne aveva tratto la conclusione che quella coltivazione non potesse essere considerata di dimensioni minime e neppure di ridottissima produttività potenziale, anche se giustificata dalla necessità di evitare la recessività di altri indici valutabili. La Cassazione ha condiviso pienamente questa valutazione. Nel solco della giurisprudenza di legittimità, la Corte ha ritenuto l’offensività della condotta non solo in virtù della conformità delle piante al tipo botanico previsto, ma anche per l’attitudine delle stesse a giungere a maturazione. Per coltivazione deve intendersi l’attività svolta dall’agente in ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto. È stato così ritenuto che la messa a coltura di quindici piantine di marijuana non potesse essere considerata coltivazione di minime dimensioni né di ridottissima produttività potenziale. I giudici di merito, inoltre, non avevano mancato di sottolineare che la destinazione all’uso personale non era in alcun modo giustificata dalla documentazione prodotta dalla difesa, attestante che l’imputato era in carico presso un servizio per le dipendenze con diagnosi da oppiacei. Questo elemento ha contribuito a rafforzare il convincimento che la coltivazione non fosse riconducibile al paradigma dell’autoconsumo penalmente irrilevante. Le circostanze attenuanti generiche e la sostituzione della pena La sentenza affronta anche due ulteriori questioni processuali. Il ricorrente lamentava, con il secondo motivo, la violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche alla luce del fatto che era stato considerato di lieve entità. La Corte ha ribadito un principio consolidato: quando decide in ordine all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto degli elementi previsti dall’articolo 133 del codice penale, considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione. Anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole, all’entità del reato o alle modalità di esecuzione può risultare sufficiente per giustificare il diniego delle attenuanti generiche. La motivazione resa dalla Corte d’Appello, che faceva riferimento ai numerosi precedenti penali anche specifici annoverati dall’imputato, rappresentava una
Dichiarazione infedele e metodi di accertamento: i limiti dello spesometro secondo la Cassazione

La Suprema Corte chiarisce quando il giudice può utilizzare l’accertamento induttivo e quando occorre un fondamento documentale preciso per condannare per dichiarazione infedele La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32593 del 21 maggio 2025, offre un importante contributo interpretativo in materia di reati tributari dichiarativi, chiarendo i confini tra i diversi metodi di accertamento utilizzabili dal giudice penale per valutare la sussistenza del reato di dichiarazione infedele. La decisione interviene su una questione tecnica ma dalle rilevanti implicazioni pratiche: quando è possibile fondare una condanna penale tributaria esclusivamente sui dati dello spesometro e quando invece è necessario un accertamento più articolato basato sulla documentazione contabile. La vicenda processuale trae origine dalla condanna in primo e secondo grado di una contribuente accusata di avere indicato nelle dichiarazioni fiscali relative agli anni 2015 e 2016 elementi passivi fittizi, conseguendo un profitto determinato complessivamente in circa sedicimila euro tra le due annualità. Il Tribunale di Milano aveva dichiarato la responsabilità penale per il reato previsto dall’articolo 4 del decreto legislativo 74 del 2000, che punisce la dichiarazione infedele quando l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, supera determinate soglie di rilevanza penale. La Corte d’Appello di Milano aveva confermato integralmente la sentenza di primo grado, respingendo le censure difensive articolate dall’imputata. Il ricorso per cassazione si sviluppava attraverso quattro distinti motivi, ciascuno dei quali merita un’analisi specifica perché consente di chiarire aspetti rilevanti della disciplina penale tributaria che interessano tanto i professionisti quanto i contribuenti. Il primo motivo, quello più significativo dal punto di vista tecnico-giuridico, lamentava una violazione di legge relativa ai criteri di accertamento della violazione tributaria. La difesa sosteneva che i giudici di merito avessero erroneamente ritenuto sufficiente lo strumento dello spesometro per accertare l’evasione, laddove tale strumento avrebbe carattere meramente presuntivo e non potrebbe sostituire un vero e proprio accertamento contabile accompagnato dalla verifica dell’effettiva realizzazione delle operazioni. Secondo la ricorrente, i precedenti giurisprudenziali richiamati nelle sentenze di merito riguardavano in realtà l’omessa dichiarazione fiscale e non la dichiarazione infedele, trattandosi di fattispecie diverse che richiedono metodi probatori differenti. La Cassazione accoglie parzialmente le premesse teoriche di questa censura ma ne respinge le conclusioni concrete, offrendo così un importante chiarimento di principio. La Suprema Corte conferma che effettivamente lo strumento dello spesometro, inteso come sistema di controllo delle operazioni rilevanti ai fini IVA attraverso l’incrocio dei dati comunicati dai diversi operatori economici, non può costituire da solo il fondamento di una condanna per dichiarazione infedele. Questo strumento trova invece applicazione tipica nella fattispecie dell’omessa dichiarazione, prevista dall’articolo 5 del medesimo decreto legislativo, dove il contribuente non abbia presentato la dichiarazione pur essendo obbligato a farlo e le scritture contabili siano irregolarmente tenute. La distinzione appare sottile ma è in realtà fondamentale. Nel caso dell’omessa dichiarazione, il contribuente non ha adempiuto affatto all’obbligo dichiarativo e generalmente tiene una contabilità irregolare, sicché il fisco deve ricostruire la base imponibile utilizzando metodi presuntivi o indiretti, tra cui appunto lo spesometro. Nel caso della dichiarazione infedele, invece, il contribuente ha presentato la dichiarazione ma ha indicato dati falsi, e la falsità deve essere provata confrontando quanto dichiarato con la reale situazione contabile e documentale. In questo secondo caso, quindi, non è sufficiente un accertamento presuntivo basato su dati indiretti, ma occorre un riscontro documentale specifico che dimostri l’infedeltà della dichiarazione. Tuttavia, precisa la Cassazione richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, anche in tema di dichiarazione infedele il giudice può legittimamente fare ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, e può anche utilizzare il metodo induttivo di accertamento quando le scritture contabili siano state irregolarmente tenute. La sentenza richiama espressamente una pronuncia del 2008 secondo cui lo strumento dello spesometro consente la determinazione del reddito imponibile di un soggetto che debba regolarmente provvedere alla tenuta di scritture e documenti contabili comprovanti i suoi flussi, attivi e passivi, di reddito, sulla base della documentazione emessa o a lui indirizzata e conservata dai soggetti che con codesto soggetto siano venuti in affari. La Corte chiarisce quindi che nel caso concreto non si è trattato di un vero e proprio accertamento induttivo basato su presunzioni semplici, bensì di un accertamento documentale fondato su specifici dati contabili risultanti dai sistemi di controllo fiscale. La differenza è sostanziale: l’accertamento induttivo ricostruisce la base imponibile attraverso elementi indiziari e presunzioni quando manchi una documentazione attendibile, mentre l’accertamento documentale si fonda su documenti contabili specifici la cui concludenza e veridicità è compito del contribuente contestare. Nel caso esaminato, dunque, la condanna non si fondava su mere presunzioni ricavate dallo spesometro, ma su specifici riscontri documentali che dimostravano l’indicazione di elementi passivi inesistenti. Questa precisazione consente alla Cassazione di respingere anche il secondo e il terzo motivo di ricorso, che lamentavano rispettivamente la violazione delle norme sui requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per le presunzioni semplici e la contraddittorietà della motivazione in punto di legittimità del ricorso al metodo induttivo. Poiché, come chiarito, non si è trattato di accertamento induttivo in senso proprio ma di accertamento documentale, le doglianze relative ai requisiti delle presunzioni semplici risultano ultronee. Il carattere non meramente presuntivo dell’accertamento operato, fondato invece su precisi dati contabili estratti dai sistemi di controllo fiscale, rende irrilevanti le censure sulla necessità di un ragionamento inferenziale particolarmente rigoroso. La Corte sottolinea che l’accertamento è stato di natura documentale perché fondato su specifici dati contabili risultanti dalla documentazione fiscale e non su una ricostruzione presuntiva del reddito. Nel caso specifico, quindi, le doglianze difensive si rivelavano infondate perché fondate su un equivoco di fondo circa la natura dell’accertamento effettivamente posto a base della condanna. I giudici di merito non avevano utilizzato lo spesometro come strumento presuntivo isolato, ma lo avevano impiegato come fonte di dati documentali che, incrociati con la documentazione contabile dell’imputata, dimostravano oggettivamente l’indicazione di costi inesistenti. Il quarto motivo di ricorso riguardava il diniego delle circostanze attenuanti generiche previste dall’articolo 62-bis del codice penale. Anche questa censura viene respinta dalla Cassazione con
Fatture false e responsabilità del legale rappresentante: quando la dichiarazione fraudolenta si perfeziona anche senza evasione effettiva

La Cassazione chiarisce i confini del reato tributario più grave e conferma: chi firma la dichiarazione risponde sempre, anche affidandosi al commercialista La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32586 del 3 ottobre 2025, torna a pronunciarsi su uno dei reati tributari più insidiosi per imprenditori e amministratori di società: la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. La decisione offre importanti chiarimenti sulla natura del reato, sull’elemento psicologico necessario per la sua configurazione e sulla responsabilità personale di chi sottoscrive le dichiarazioni fiscali. La vicenda processuale alla base della pronuncia riguarda la legale rappresentante di una società edile che aveva utilizzato nella dichiarazione annuale trentasette fatture relative a prestazioni mai effettivamente rese dalla società emittente indicata nei documenti. L’importo complessivo delle operazioni fittizie ammontava a oltre centosettantamila euro, con un’IVA indicata per circa trentasettemila euro. Le indagini avevano rivelato che la società emittente era in realtà una struttura completamente fittizia: risultava sconosciuta all’anagrafe tributaria, il legale rappresentante formale era deceduto senza essere sostituito, non esisteva alcuna struttura aziendale né utenze intestate, né soggetti di riferimento da contattare. In sostanza, si trattava di una scatola vuota utilizzata per mascherare l’utilizzo di manodopera irregolare, consentendo alla società utilizzatrice di dedurre illegittimamente i costi corrispondenti ai compensi effettivamente corrisposti ai lavoratori in nero. Dopo la condanna in primo grado da parte del Tribunale e la conferma in appello, l’imputata ha proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi che la Suprema Corte ha ritenuto tutti inammissibili. L’analisi delle ragioni di questa decisione consente di mettere a fuoco alcuni aspetti fondamentali della disciplina penale tributaria che ogni imprenditore e professionista dovrebbe conoscere. Il primo aspetto riguarda la natura stessa del reato previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 74 del 2000. La Cassazione ribadisce con fermezza che si tratta di un reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona nel momento stesso in cui la dichiarazione fiscale contenente le false indicazioni viene presentata agli uffici finanziari. Questo significa che la configurazione del reato non richiede affatto che si verifichi un danno concreto per l’Erario, né che l’evasione fiscale si realizzi effettivamente. È sufficiente che vengano indicati nella dichiarazione elementi passivi fittizi supportati da fatture false. La ratio di questa scelta normativa risiede nell’intento del legislatore di colpire con particolare severità le condotte fraudolente che, attraverso un apparato documentale costruito ad arte, rendono più difficile e ostacolano l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria. La sentenza chiarisce inoltre con precisione cosa si intenda per operazioni soggettivamente inesistenti, distinguendole da quelle oggettivamente inesistenti. Nel primo caso, che ricorre nella fattispecie esaminata, le prestazioni possono anche essere state effettivamente rese, ma il soggetto che le ha eseguite non è quello indicato nelle fatture. Si tratta di una situazione molto frequente nei casi di interposizione fittizia o di società cartiere. Nel caso specifico, i lavori edili erano probabilmente stati eseguiti, ma non dalla società fantasma indicata in fattura, bensì da lavoratori irregolari di cui la società committente si avvaleva direttamente. Questa distinzione è fondamentale perché comporta che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa nel ricorso, non era affatto necessario accertare se le opere fossero state materialmente realizzate: ciò che rileva è unicamente la riconducibilità delle operazioni al soggetto emittente, che nel caso di specie era stata esclusa in modo motivato e ragionevole dai giudici di merito. Un secondo profilo di particolare rilevanza attiene all’elemento psicologico del reato. La Corte precisa che la dichiarazione fraudolenta richiede un duplice elemento soggettivo: da un lato il dolo generico, consistente nella consapevole indicazione nella dichiarazione fiscale di elementi passivi della cui fittizietà il soggetto sia certo o comunque accetti l’eventualità; dall’altro il dolo specifico di evasione, che rappresenta la finalità che deve animare la condotta dell’agente. È importante sottolineare che, come già ricordato, il concreto conseguimento dell’evasione non è necessario per il perfezionamento del reato. Deve però sussistere la finalità evasiva al momento della presentazione della dichiarazione. Nel caso esaminato, i giudici hanno ritenuto dimostrata la sussistenza del dolo specifico proprio attraverso l’analisi del meccanismo fraudolento posto in essere: l’utilizzo di una società fittizia per mascherare l’impiego di manodopera irregolare aveva la chiara finalità di ottenere un credito IVA non dovuto e di dedurre costi fittizi, come emergeva anche dal numero e dagli importi delle fatture utilizzate. Il ricorso al sistema delle società cartiere per l’intermediazione di manodopera irregolare costituisce infatti uno degli schemi fraudolenti più diffusi e rappresenta una modalità paradigmatica di realizzazione del dolo specifico di evasione. Un terzo aspetto particolarmente significativo per la pratica professionale riguarda la questione della responsabilità penale di chi affida a un commercialista o a un consulente fiscale l’incarico di compilare la dichiarazione dei redditi. La difesa aveva sostenuto che l’imputata, avendo delegato a terzi la redazione della dichiarazione, non potesse essere ritenuta responsabile se non fosse dimostrata la sua piena consapevolezza della falsità dei dati dichiarati. La Cassazione respinge con nettezza questa tesi, richiamando un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità: la legge tributaria considera personale per il contribuente il dovere di presentare la dichiarazione fiscale e il fatto di aver affidato a un professionista l’incarico di compilarla non può in alcun modo esonerare il contribuente dalla responsabilità penale per i reati dichiarativi. Questa affermazione ha implicazioni molto concrete per imprenditori e amministratori di società. Chi sottoscrive una dichiarazione fiscale se ne assume in pieno la responsabilità, anche sul piano penale, indipendentemente dal fatto che la dichiarazione sia stata materialmente predisposta da un consulente esterno. Non è sufficiente delegare formalmente l’adempimento dichiarativo a un professionista per escludere la propria responsabilità: occorre verificare attentamente i dati dichiarati e assicurarsi della loro correttezza. Naturalmente, la delega a un professionista qualificato può avere rilevanza sul piano dell’elemento soggettivo del reato, ma solo se si dimostri che il contribuente è stato tratto in inganno dal consulente e non era in condizione di rendersi conto della falsità dei dati. Nel caso concreto, tuttavia, l’entità e la sistematicità delle operazioni fittizie rendevano evidente la consapevolezza dell’imputata circa il meccanismo fraudolento. L’ultimo motivo di ricorso riguardava il diniego
Minori che commettono reati contro altri minori: il nuovo scenario giuridico italiano

Tra Decreto Caivano e responsabilità genitoriale, il diritto penale minorile affronta sfide inedite La giustizia minorile italiana attraversa una fase di profonda trasformazione. L’incremento del 10% dei reati contro minori nel primo semestre 2024 e l’esplosione del cyberbullismo – che colpisce oltre 1 milione di studenti come vittime e 800.000 come autori Dirittoscolastico +2 – hanno spinto il legislatore a intervenire con strumenti sempre più severi. Avvocatipersonefamiglie Questo cambiamento di paradigma, cristallizzato nel controverso “Decreto Caivano” e nelle recenti pronunce della Corte Costituzionale, ridisegna completamente il rapporto tra finalità educative e istanze punitive quando un minore commette reati contro coetanei. Il nuovo approccio normativo privilegia la deterrenza immediata rispetto alla tradizionale vocazione rieducativa, generando tensioni costituzionali che la Corte Costituzionale ha iniziato ad affrontare nel 2025. Per le famiglie italiane, questo significa non solo maggiori rischi penali per i figli, ma anche una responsabilità civile genitoriale rafforzata dalla giurisprudenza più recente, con risarcimenti che possono raggiungere i 50.000 euro nei casi più gravi. Livia Passalacqua Il Decreto Caivano sotto la lente costituzionale La riforma più controversa degli ultimi anni ha trovato i primi ostacoli giudiziari proprio dove meno ci si aspettava. Il Tribunale per i minorenni di Trento, con ordinanza del 6 marzo 2024, ha sollevato la prima questione di legittimità costituzionale contro l’articolo 27-bis del DPR 448/1988, denunciando come il nuovo “percorso di rieducazione del minore” nasconda “una meccanica trattamentale fortemente improntata sul paradigma punitivo”. Giurisprudenza penaleDirittodidifesa La Corte Costituzionale ha risposto con la sentenza n. 23 del 6 marzo 2025, accogliendo parzialmente i dubbi dei giudici tridentini. Misterlex I principi affermati dalla Consulta rimangono però ancorati al favor minoris: la messa alla prova conserva il suo “scopo primario di favorire l’uscita del minore dal circuito penale tramite riflessione critica”, mentre la “composizione pedagogicamente qualificata” del collegio giudicante rimane “funzionale all’obiettivo rieducativo”. Diverso destino ha avuto la questione sollevata dal Tribunale per i minorenni di Bari sull’articolo 28, comma 5-bis, che preclude automaticamente la messa alla prova per reati di violenza sessuale di gruppo. Sistema Penale La Corte Costituzionale, con sentenza n. 8 del 4 febbraio 2025, ha dichiarato la questione inammissibile, stabilendo però un principio fondamentale: la messa alla prova ha “dimensione sostanziale” ed è quindi soggetta al principio di irretroattività. L’evoluzione giurisprudenziale su bullismo e cyberbullismo La giurisprudenza di legittimità ha consolidato nel 2024 orientamenti definitivi sui confini penali del bullismo digitale. La Cassazione penale, con la sentenza della Sezione V n. 40756 del 6 novembre 2024, ha stabilito che “le condotte diffamatorie reiterate sui social network possono configurare stalking se idonee a creare ansia e turbamento nella vittima”, Catania superando definitivamente la necessità del contatto diretto tra molestatore e vittima. Livia Passalacqua L’innovazione più significativa riguarda l’autonomia delle fattispecie criminose. Cass. Pen., Sez. V, n. 43089/2024 ha chiarito che il delitto di atti persecutori può concorrere con la diffamazione aggravata senza sovrapposizione tra le fattispecie, distinguendo nettamente l’effetto psicologico del 612-bis c.p. dall’offesa alla reputazione dell’articolo 595 c.p. Avvocato del Giudice La Suprema Corte ha inoltre precisato (Cass. Pen., Sez. V, n. 33986 del 6 settembre 2024) che per integrare lo stalking digitale è “sufficiente la consapevolezza dell’agente che i propri messaggi molesti siano conoscibili dalla vittima tramite terzi”, Catania ampliando significativamente l’area di rilevanza penale delle condotte online. Avvocatipersonefamiglie La responsabilità civile dei genitori nella nuova era digitale Il 2024 ha segnato una svolta decisiva nella responsabilità genitoriale. La Cassazione civile, con ordinanza n. 27061 del 18 ottobre 2024, ha definitivamente chiarito la natura dell’articolo 2048 del Codice civile: non si tratta più di una semplice presunzione di colpa, ma di “responsabilità diretta dei genitori che concorre con quella del minore per non aver impedito il fatto dannoso con idoneo comportamento educativo e di sorveglianza”. avvocatocivilista +2 Questa evoluzione giurisprudenziale rende la prova liberatoria “decisamente ardua”, richiedendo ai genitori di dimostrare positivamente di aver impartito “educazione adeguata e vigilanza appropriata”. diritto Il principio consolidato (Cass. Civ., n. 4303/2023) stabilisce che non è sufficiente dimostrare di “non aver potuto impedire il fatto”, ma occorre provare l’adempimento positivo dei doveri educativi ex articolo 147 c.c. Livia Passalacqua Per il cyberbullismo, la giurisprudenza di merito ha innalzato ulteriormente gli standard. diritto Il Tribunale di Brescia, con sentenza n. 879/2024, ha stabilito che i genitori hanno “l’obbligo di controllare i profili social dei figli minorenni, compresi quelli falsi”, condannando una famiglia a 15.000 euro di risarcimento per non aver impedito episodi di cyberbullismo commessi dal figlio. Orizzonte Scuola Le nuove frontiere della quantificazione del danno Le tabelle milanesi 2024, rivalutate del 16,22%, hanno aggiornato i parametri di liquidazione del danno biologico portando il punto base a €3.365. Studiolegalerisarcimentodanni Nei casi di bullismo tra minori, i tribunali riconoscono autonomamente tre tipologie di danno: biologico (invalidità psico-fisica permanente), morale (sofferenza interiore) ed esistenziale (alterazione della qualità della vita). Prontoprofessionista Il Tribunale di Potenza, con sentenza n. 380/2021, ha stabilito criteri che la giurisprudenza successiva ha consolidato: il danno da bullismo richiede una valutazione “dinamico-relazionale complessa” che può portare a liquidazioni significativamente superiori quando vengono accertati “disturbi post-traumatici da stress cronico”. Prontoprofessionista La responsabilità si estende solidalmente alle istituzioni scolastiche. Il principio affermato dal Tribunale di Roma (Sez. XIII, n. 6919/2018) impone agli istituti non solo la vigilanza comportamentale, ma l’adozione di “misure disciplinari e organizzative idonee” alla prevenzione primaria. diritto +2 La Legge 17 maggio 2024, n. 70 ha rafforzato questi obblighi introducendo codici interni obbligatori e referenti specializzati per ogni istituto. Italian Parliament +4 La rivoluzione silenziosa delle statistiche I numeri del 2024 rivelano un fenomeno in costante espansione: 1 milione di studenti tra 15 e 19 anni sono vittime di cyberbullismo, mentre 800.000 ne sono autori, con 600.000 giovani che ricoprono il doppio ruolo di vittime e carnefici. MinoriConsiglio Nazionale delle Ricerche Il dato più allarmante emerge dallo studio ESPAD Italia 2024 del CNR: per la prima volta nella storia delle rilevazioni, la percentuale di autori di cyberbullismo (32%) ha raggiunto un record negativo storico. Consiglio Nazionale delle Ricerche La detenzione minorile ha registrato un incremento del 25%