Fideiussione del socio-amministratore e qualifica di consumatore

La Cassazione chiarisce i confini della tutela nella composizione della crisi La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29746/2025 pubblicata l’11 novembre 2025, ha fornito importanti precisazioni sulla qualifica di consumatore nel contesto degli accordi di ristrutturazione del debito regolati dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. La decisione affronta una questione di rilevante impatto pratico: quando il fideiussore che garantisce i debiti di una società può accedere alle procedure di composizione della crisi riservate ai consumatori? La vicenda processuale e la questione sottoposta alla Corte La controversia trae origine dal ricorso per la ristrutturazione dei debiti del consumatore presentato da una debitrice ai sensi dell’articolo 67 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. Il Tribunale di Cremona aveva inizialmente omologato il piano proposto dalla ricorrente, ma la Corte d’Appello di Brescia, accogliendo il reclamo presentato da uno dei creditori, ha revocato l’omologazione negando alla debitrice la qualifica di consumatore. Gli elementi fattuali rilevanti emersi nel corso del giudizio dimostravano che la ricorrente era stata socia di maggioranza (circa l’ottanta per cento in una società e il sessanta per cento nell’altra) e amministratrice di due società commerciali. Le fideiussioni che costituivano la parte preponderante del suo debito erano state rilasciate poco dopo la cessazione delle cariche amministrative, quando però la debitrice deteneva ancora significative partecipazioni azionarie nelle compagini societarie garantite. Il quadro normativo di riferimento: la definizione di consumatore nel Codice della Crisi L’articolo 2, comma 1, lettera e) del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza definisce consumatore “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta, anche se socia di una delle società appartenenti ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile”. La Cassazione evidenzia come questa definizione, pur introducendo una specificazione relativa ai soci rispetto alla precedente disciplina contenuta nella legge n. 3 del 2012, sostanzialmente ricalchi la nozione già presente nel Codice del consumo approvato con decreto legislativo n. 206 del 2005. La scelta del legislatore di riprendere la definizione consumeristica tradizionale rappresenta, come sottolineato nella relazione al Codice della Crisi, una opzione consapevole volta a garantire continuità interpretativa. L’evoluzione della giurisprudenza europea e nazionale La Suprema Corte ricostruisce puntualmente l’evoluzione dell’orientamento giurisprudenziale sulla qualificazione del fideiussore come consumatore. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha superato l’automatismo che legava la qualifica del garante a quella del debitore principale, affermando con le sentenze Tarcau (causa C-74/15 del 9 novembre 2015) e Dumitras (causa C-534/15 del 14 settembre 2016) che spetta al giudice nazionale determinare se la persona fisica abbia agito nell’ambito della sua attività professionale sulla base dei collegamenti funzionali che la legano alla società garantita. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno recepito questo indirizzo con l’ordinanza n. 5868 del 27 febbraio 2023, chiarendo che il fideiussore persona fisica non è automaticamente qualificabile come professionista solo perché lo sia il debitore garantito. Tuttavia, questa apertura non comporta una tutela indiscriminata del garante, dovendosi valutare caso per caso la sussistenza di un collegamento funzionale tra la fideiussione e l’attività imprenditoriale. I criteri per escludere la qualifica di consumatore: il collegamento funzionale La sentenza n. 29746/2025 individua con precisione i presupposti che devono essere oggetto di valutazione per stabilire se il fideiussore socio possa essere considerato consumatore. La Corte richiama sul punto la giurisprudenza consolidata secondo cui occorre verificare l’eventuale qualità di amministratore della società garantita assunta dal fideiussore e la detenzione di una partecipazione non trascurabile al capitale sociale. La pronuncia ribadisce che la qualifica di consumatore spetta solo al fideiussore persona fisica che stipuli il contratto di garanzia per finalità estranee alla propria attività professionale. La prestazione della fideiussione non deve costituire atto espressivo di tale attività né essere strettamente funzionale al suo svolgimento. Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità citata nella sentenza (Cass. n. 8419 del 2019), il consumatore è colui che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta. La Cassazione chiarisce che quando la prestazione di garanzia rafforza l’attività d’impresa altrui e intercetta un interesse diverso da un mero sostegno esterno, rientra nella nozione europea di “collegamento funzionale”. Questa valutazione deve considerare non solo la sussistenza formale di cariche o partecipazioni, ma anche la sostanziale strumentalità della garanzia rispetto all’attività societaria. L’applicazione dei principi al caso concreto Nel caso esaminato, la Corte territoriale aveva svolto un accertamento in fatto puntuale e argomentato, rilevando che la ricorrente aveva sottoscritto le fideiussioni per scopi chiaramente estranei alla sua sfera privata e contratte invece nell’interesse di due società commerciali di cui era stata per lungo tempo socia di maggioranza e amministratrice. Le garanzie erano state rilasciate pochissimi giorni dopo la cessazione delle cariche amministrative, elemento che non era sufficiente a escludere il collegamento funzionale con l’attività imprenditoriale. La Suprema Corte conferma quindi la valutazione del giudice di merito secondo cui emergeva in modo inequivoco la sussistenza dello strettissimo collegamento delle garanzie all’attività societaria, dovendosi escludere che si fosse trattato di contratti a fini privati conclusi dalla debitrice come consumatore. Le fideiussioni si presentavano come strettamente funzionali alle società garantite, configurando quello che la giurisprudenza nazionale e comunitaria definisce collegamento di natura funzionale. I precedenti giurisprudenziali confermati dalla decisione La sentenza si inserisce in un orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione che ha già escluso la qualità di consumatore in diverse fattispecie analoghe. La giurisprudenza di legittimità ha infatti negato la tutela consumeristica al fideiussore che cumuli le qualità di socio e amministratore della società garantita (Cass. n. 17638 del 2025), al congiunto che garantisca l’impresa di famiglia stante l’interessamento all’attività sociale in ragione del rapporto familiare (Cass. n. 23533 del 2024), al socio detentore del settanta per cento del patrimonio sociale anche se non amministratore (Cass. n. 32225 del 2018). Questo indirizzo giurisprudenziale riflette l’esigenza di bilanciare la tutela del consumatore con la necessità di evitare abusi dello strumento della composizione della crisi da parte di soggetti che hanno assunto obbligazioni nell’interesse della propria attività imprenditoriale o

Mutuo con tasso variabile indeterminato: la Cassazione chiarisce i criteri per il tasso sostitutivo

Quando il contratto non specifica correttamente il parametro di riferimento, interviene la legge con criteri precisi. Analisi dell’ordinanza n. 26532/2025 La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26532 depositata il 1° ottobre 2025, è tornata a pronunciarsi su una questione di fondamentale importanza per migliaia di mutuatari italiani: cosa accade quando un contratto di mutuo bancario prevede un tasso di interesse variabile indeterminato o indeterminabile? La risposta della Suprema Corte fornisce un quadro chiaro dei criteri da applicare e chiarisce alcuni dubbi interpretativi ricorrenti. La vicenda giudiziaria La controversia trae origine da un contratto di mutuo ipotecario stipulato nel 1995 tra una mutuataria e un istituto di credito. La cliente, dopo aver cessato i pagamenti nel 2003, aveva proposto un’azione giudiziaria per ottenere la rideterminazione del saldo dovuto, contestando l’applicazione di interessi usurari e la validità stessa del contratto. Il Tribunale di Grosseto aveva condannato la mutuataria al pagamento di oltre 84.000 euro, eliminando dal computo solo gli interessi usurari. La Corte d’Appello di Firenze aveva poi riformato parzialmente la sentenza, riducendo il saldo a circa 29.800 euro, riconoscendo che il tasso di interesse originario era effettivamente indeterminato e indeterminabile, quindi nullo. Il nodo della determinazione del tasso di interesse Il cuore della questione riguarda l’articolo 117, comma 7, lettera a) del Testo Unico Bancario nella formulazione vigente tra il 1995 e il 2005. Questa norma stabilisce che, quando il contratto di mutuo non prevede un tasso di interesse determinato o determinabile, si applica un tasso sostitutivo pari al tasso nominale minimo dei Buoni Ordinari del Tesoro emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto. Si tratta di una disposizione fondamentale che tutela sia il mutuatario sia la banca, sostituendo un elemento contrattuale nullo con un parametro oggettivo e verificabile. La ricorrente aveva sostenuto che, trattandosi di un mutuo a tasso variabile, il concetto di “conclusione del contratto” dovesse essere interpretato in modo estensivo, facendo riferimento non alla data di stipulazione ma alla scadenza di ciascuna rata o, in alternativa, alla scadenza finale del mutuo. Secondo questa tesi, il contratto di mutuo a tasso variabile sarebbe un contratto a “formazione progressiva”, che si perfeziona gradualmente nel tempo. La Cassazione ha respinto nettamente questa interpretazione, affermando che l’espressione legislativa “conclusione del contratto” è inequivoca e si riferisce univocamente al momento della stipulazione dell’accordo tra le parti. La questione della nullità del contratto per mancata erogazione Un altro profilo interessante della decisione riguarda la dedotta nullità del contratto per mancata effettiva erogazione della somma mutuata. La mutuataria aveva sostenuto che il denaro non le fosse mai stato realmente consegnato, ma che fosse stato immediatamente costituito in pegno a favore della banca per garantire un precedente debito. La Corte territoriale aveva respinto questa tesi sia nel merito sia per ragioni processuali, ritenendo che la pretesa nullità dovesse emergere da fatti e documenti già allegati entro i termini delle preclusioni assertive e probatorie. La Cassazione ha confermato questo orientamento, precisando che, se è vero che l’eccezione di nullità non soffre i limiti temporali delle preclusioni assertive e istruttorie e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, è altrettanto vero che la nullità deve emergere dagli atti e dai documenti già presenti nel fascicolo processuale. Una volta scaduti i termini per le allegazioni e le richieste istruttorie, deve ritenersi definito una volta per tutte il perimetro della controversia. In questo caso, la Corte ha ritenuto che la clausola contrattuale che prevedeva il pegno sulla somma erogata regolasse semplicemente il periodo transitorio tra l’erogazione e l’iscrizione dell’ipoteca, senza che ciò implicasse una mancata effettiva consegna del denaro. Gli interessi di mora e la mora automatica La sentenza affronta anche la delicata questione degli interessi moratori. Il contratto prevedeva interessi di mora allo stesso tasso di quelli convenzionali. La Corte d’Appello aveva ritenuto che il vizio di indeterminatezza degli interessi convenzionali si estendesse anche agli interessi moratori. Tuttavia, aveva escluso l’applicazione del tasso sostitutivo previsto dall’articolo 117, comma 7, del TUB ai ritardi nell’esecuzione del contratto, applicando invece gli interessi legali a partire dalla scadenza dell’ultima rata prevista dal piano di ammortamento. Questo ragionamento si fonda sull’articolo 1219, comma 2, numero 3, del codice civile, che prevede la cosiddetta “mora automatica” o “mora ex re”. Secondo questa disposizione, il debitore è costituito automaticamente in mora quando non esegue una prestazione che doveva essere effettuata al domicilio del creditore. La Cassazione ha confermato l’applicabilità di questa forma di mora automatica alla fattispecie, respingendo le obiezioni della ricorrente secondo cui la prestazione non sarebbe stata certa, liquida ed esigibile. I giudici di legittimità hanno ribadito il principio consolidato per cui, agli effetti della mora automatica, la liquidità dell’obbligazione ricorre non solo quando il titolo ne determina l’ammontare, ma anche quando indica i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di valutazione discrezionale. La legittimità della segnalazione alla Centrale Rischi L’ultima questione affrontata dalla Cassazione riguarda la segnalazione della mutuataria inadempiente alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia. La ricorrente aveva sostenuto che la segnalazione fosse illegittima perché il mancato pagamento delle rate era frutto della contestazione della loro debenza, e che l’intermediario avrebbe dovuto effettuare una valutazione complessiva della situazione finanziaria del cliente prima di procedere alla segnalazione. La Corte ha respinto anche questa censura, ritenendo che sussistesse una conclamata situazione di inadempimento. La cliente aveva infatti cessato ogni pagamento dal settembre 2003, e persisteva un debito consistente anche nell’ipotesi ricostruttiva più favorevole alla mutuataria. La Suprema Corte ha chiarito che la mera contestazione della debenza non è sufficiente a impedire la segnalazione quando l’inadempimento è oggettivo e non è in discussione l’andamento di altri rapporti obbligatori. Si tratta di un principio importante che bilancia il diritto alla protezione dei dati personali con le esigenze di trasparenza del sistema creditizio. Le implicazioni pratiche per i mutuatari Questa pronuncia della Cassazione offre importanti indicazioni pratiche per chiunque abbia stipulato o stia per stipulare un contratto di mutuo. Innanzitutto, conferma che i contratti bancari devono contenere elementi chiari e determinabili, in particolare per quanto riguarda il tasso di interesse. Quando

Il Proprietario Può Entrare nella Stanza che Hai Affittato? La Legge è Chiara

Quando l’ingresso del locatore nella camera in locazione configura violazione di domicilio e quali rimedi hai a disposizione Sei uno studente fuorisede che affitta una stanza e un giorno scopri che il proprietario è entrato nel tuo spazio senza il tuo permesso, magari per mostrare la camera a un futuro inquilino. Ti chiedi: può farlo? La risposta della legge è netta e potrebbe sorprenderti. Quella singola camera che hai affittato è il tuo domicilio e nessuno, nemmeno il proprietario che paga le bollette e possiede l’immobile, può entrare senza il tuo consenso. Vediamo insieme perché l’accesso non autorizzato costituisce un reato penale e quali sono i tuoi diritti come conduttore. La Tua Stanza È il Tuo Domicilio Partiamo da un principio fondamentale: anche se stai affittando soltanto una singola stanza in un appartamento condiviso con altri studenti, quella camera rappresenta il tuo domicilio ai sensi dell’articolo 614 del Codice Penale. Il concetto di domicilio, nella legge italiana, non coincide necessariamente con la proprietà dell’immobile, ma identifica qualsiasi luogo di privata dimora dove una persona svolge atti della propria vita privata. La giurisprudenza ha chiarito in modo inequivocabile che il conduttore della singola stanza è titolare del cosiddetto “ius excludendi”, cioè del diritto di escludere chiunque dal proprio spazio privato, anche se condivide cucina e bagno con altri coinquilini. In altri termini, quella camera è il tuo rifugio personale e nessuno può violarlo senza il tuo permesso. Quando l’Ingresso del Proprietario Diventa Reato L’articolo 614 del Codice Penale punisce chiunque si introduce nell’abitazione altrui contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo. La norma prevede la reclusione da uno a quattro anni per chi entra in un luogo di privata dimora senza consenso. Questa protezione vale anche contro il proprietario dell’immobile. Per configurare il reato di violazione di domicilio servono due elementi. Il primo è l’elemento oggettivo, ossia l’ingresso materiale nella stanza senza il consenso del conduttore. Non importa che il locatore abbia ancora le chiavi o che pensi di avere buone ragioni per entrare: se non c’è il tuo permesso esplicito, l’accesso è illegale. Il secondo elemento è quello soggettivo, che consiste nella consapevolezza di violare il diritto altrui all’inviolabilità del domicilio. La motivazione dell’ingresso è del tutto irrilevante: anche se il proprietario voleva solo mostrare la stanza a un futuro inquilino per non perdere tempo nelle ricerche, questo non giustifica la violazione. La legge è talmente chiara su questo punto che la giurisprudenza della Cassazione ha affermato che il locatore può entrare nell’abitazione data in locazione solo con il consenso dell’inquilino, salvo casi di immediata e non rimandabile urgenza, come un allagamento o un incendio. Il fatto che l’agente sia il proprietario dell’immobile è completamente irrilevante ai fini della configurabilità del reato. Quando il Comportamento Diventa Ancora Più Grave Se il locatore, oltre a entrare nella tua stanza, dovesse modificare la situazione di fatto, ad esempio cambiando la serratura o rimuovendo i tuoi oggetti personali, potrebbe configurarsi anche il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto dagli articoli 392 e 393 del Codice Penale. Questo reato si verifica quando qualcuno, pur potendo rivolgersi al giudice per far valere un diritto, decide di farsi giustizia da solo con violenza sulle cose o alle persone. È il caso, ad esempio, del proprietario che, convinto che tu non stia pagando l’affitto, cambia la serratura e ti impedisce di rientrare senza passare attraverso le vie legali. I Tuoi Diritti Civili: Non Solo Penale Oltre alla responsabilità penale, l’ingresso non autorizzato del locatore costituisce anche un grave inadempimento contrattuale. L’articolo 1575 del Codice Civile, al numero 3, stabilisce che il locatore ha l’obbligo di garantire il pacifico godimento dell’immobile durante tutta la durata della locazione. Questo significa che deve astenersi da qualsiasi condotta che possa turbare o limitare il tuo diritto di utilizzare serenamente la stanza che hai affittato. La giurisprudenza ha chiarito che l’accesso non consensuale rappresenta una forma di molestia diretta che viola gravemente questo obbligo fondamentale del contratto di locazione. Quando un locatore viola i suoi obblighi contrattuali, scatta la responsabilità prevista dall’articolo 1218 del Codice Civile, che ti permette di chiedere il risarcimento dei danni. Un aspetto importante da comprendere riguarda il regime probatorio in questi casi. Trattandosi di responsabilità contrattuale, tu devi provare soltanto due cose: che esiste un contratto di locazione valido e che il locatore è entrato senza il tuo consenso. A quel punto, sarà il locatore a dover dimostrare che non poteva fare diversamente, ad esempio perché c’era un’urgenza improrogabile. Questo ribaltamento dell’onere della prova ti favorisce notevolmente. La Violazione della Privacy e del Domicilio L’ingresso non autorizzato non lede solo i tuoi diritti contrattuali, ma viola anche diritti costituzionalmente garantiti. L’articolo 14 della Costituzione italiana tutela l’inviolabilità del domicilio, mentre l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo protegge il diritto alla vita privata e familiare. Queste norme fondamentali riconoscono che il domicilio è lo spazio dove puoi svolgere liberamente la tua vita privata, senza interferenze esterne. Quando questi diritti vengono violati, puoi chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale. Secondo i principi affermati dalle Sezioni Unite della Cassazione, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti è risarcibile quando la lesione è grave e il danno serio. Nel caso della violazione del domicilio, la lesione assume particolare gravità perché incide su molteplici dimensioni della tua vita: il diritto all’intimità domestica e alla riservatezza, il diritto al pacifico godimento della tua abitazione e la libertà di svolgere atti della vita privata senza interferenze. La giurisprudenza ha riconosciuto che la lesione del diritto al normale svolgimento della vita all’interno della propria casa e del diritto alla libera esplicazione delle proprie abitudini quotidiane sono pregiudizi apprezzabili come danno non patrimoniale. Il danno può essere liquidato in via equitativa dal giudice ai sensi dell’articolo 1226 del Codice Civile, considerando diversi fattori come la durata dell’invasione, la gravità della condotta del locatore e il turbamento psicologico che hai effettivamente subito. Cosa Puoi Fare Concretamente Se ti trovi in questa situazione, hai a

“Visto e piaciuto” non salva il venditore in mala fede: la Cassazione tutela chi acquista veicoli usati

La Suprema Corte conferma che la clausola contrattuale non esonera dalla garanzia quando i difetti sono stati occultati dolosamente dal venditore Un acquirente compra un autocarro usato, lo esamina prima della vendita e firma il contratto con la classica clausola “visto e piaciuto”. Durante il viaggio di ritorno, però, il veicolo manifesta gravi problemi di marcia. Le verifiche successive rivelano che la struttura portante presentava danni significativi, abilmente nascosti da una riverniciatura. A questo punto sorge la domanda: la clausola “visto e piaciuto” protegge il venditore anche quando ha deliberatamente occultato i difetti? La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27968/2025 pubblicata il 21 ottobre 2025, ha fornito una risposta chiara: no, il venditore in mala fede non può invocare questa clausola per sottrarsi alle proprie responsabilità. La clausola “visto e piaciuto”: cos’è e come funziona La clausola “visto e piaciuto” è una delle più diffuse nei contratti di compravendita, specialmente quando si tratta di beni usati come automobili, macchinari o immobili. Con questa espressione, l’acquirente dichiara di aver esaminato personalmente il bene e di accettarlo nelle condizioni in cui si trova al momento della vendita. L’articolo 1490, secondo comma, del Codice civile stabilisce che il venditore può essere esonerato dalla garanzia per i vizi della cosa venduta mediante un’apposita pattuizione. La clausola “visto e piaciuto” rappresenta proprio una di queste pattuizioni: in sostanza, l’acquirente rinuncia preventivamente a contestare eventuali difetti che avrebbe potuto riscontrare con un’ispezione accurata. Questo meccanismo ha una sua logica: quando si acquista un bene usato a un prezzo ribassato proprio in considerazione del suo stato, è ragionevole che l’acquirente si assuma il rischio di alcuni difetti. Il venditore, dal canto suo, può vendere “come visto” senza doversi preoccupare di ogni minimo problema. Il limite della mala fede: quando la clausola non protegge più La Cassazione ha però ribadito un principio fondamentale: la clausola “visto e piaciuto” perde ogni efficacia quando il venditore ha taciuto in mala fede i vizi del bene, soprattutto se questi sono stati deliberatamente occultati e vengono scoperti solo dopo l’utilizzo della cosa. Nel caso esaminato dalla Seconda Sezione Civile, il venditore aveva fatto riverniciare la carrozzeria dell’autocarro proprio per mascherare i danni strutturali. Questa condotta è stata ritenuta dalla Corte di merito un vero e proprio occultamento doloso dei difetti. La riverniciatura non era un normale intervento di manutenzione estetica, ma uno stratagemma per nascondere problemi gravi che avrebbero dovuto essere dichiarati all’acquirente. La Suprema Corte ha confermato questo ragionamento, richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui la buona fede contrattuale impone al venditore di non ingannare l’acquirente. Se i vizi sono stati intenzionalmente celati, la clausola “visto e piaciuto” diventa inapplicabile e il venditore resta pienamente responsabile, potendo l’acquirente ottenere la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo pagato. Il certificato di revisione non è una garanzia assoluta Un aspetto interessante della sentenza riguarda il valore probatorio del certificato di revisione. Il venditore aveva sostenuto che il veicolo aveva superato la revisione il giorno prima della vendita, e quindi non poteva presentare i difetti lamentati dall’acquirente. La Cassazione ha chiarito che il certificato di revisione fa piena prova, fino a querela di falso, soltanto di quanto è stato direttamente verificato durante il controllo tecnico. In altri termini, il certificato attesta che il veicolo è conforme alle prescrizioni di legge in materia di sicurezza stradale, ma non esclude la presenza di altri vizi che possono emergere successivamente o che non rientrano nell’ambito specifico della revisione. Nel caso concreto, i danni alla struttura portante erano stati occultati dalla riverniciatura e non erano emersi durante la revisione, che ha uno scopo diverso rispetto a una perizia approfondita sullo stato complessivo del veicolo. Pertanto, il superamento della revisione non poteva smentire le prove raccolte in giudizio circa l’esistenza dei vizi. Cosa significa questa sentenza per chi compra e chi vende Questa pronuncia ha implicazioni pratiche rilevanti per chiunque sia coinvolto nella compravendita di beni usati, in particolare veicoli. Per gli acquirenti, la sentenza rappresenta una tutela importante: anche se si firma un contratto con clausola “visto e piaciuto”, si può comunque ottenere la risoluzione del contratto e il rimborso del prezzo se si dimostra che il venditore ha occultato in mala fede i difetti. Naturalmente, sarà necessario provare che i vizi esistevano al momento della vendita e che il venditore ne era consapevole, il che può richiedere perizie tecniche e testimonianze. Per i venditori, la lezione è altrettanto chiara: la clausola “visto e piaciuto” offre una protezione limitata e non autorizza a nascondere difetti noti. Chi vende un bene usato con problemi deve comportarsi in buona fede, dichiarando apertamente le condizioni del bene o quantomeno astenendosi da condotte ingannevoli come riparazioni cosmetiche che mascherano guasti strutturali. In caso contrario, si rischia non solo di dover restituire il prezzo, ma anche di essere condannati al risarcimento dei danni e alle spese legali. Dal punto di vista pratico, è sempre consigliabile far verificare il veicolo da un meccanico di fiducia prima dell’acquisto, anche in presenza della clausola “visto e piaciuto”. Per il venditore, la trasparenza sulle condizioni del bene è la migliore strategia per evitare contenziosi futuri. In conclusione La Cassazione conferma che il diritto contrattuale italiano si fonda sul principio di buona fede e correttezza. Le clausole contrattuali, per quanto legittime, non possono essere utilizzate per coprire comportamenti sleali o fraudolenti. La clausola “visto e piaciuto” resta uno strumento valido per bilanciare i rischi nella vendita di beni usati, ma il suo utilizzo deve avvenire nel rispetto della trasparenza e dell’onestà commerciale. Hai acquistato un veicolo usato e hai scoperto difetti nascosti? Oppure devi vendere un bene e vuoi sapere come tutelarti correttamente? Contattaci per una consulenza personalizzata: il nostro studio è specializzato in diritto contrattuale e tutela del consumatore, e possiamo aiutarti a far valere i tuoi diritti.

Compensi professionali dell’avvocato: la Cassazione chiarisce i criteri di liquidazione tra attività stragiudiziale e giudiziale

La Suprema Corte definisce i confini applicativi del rito sommario per i compensi forensi e ribadisce i principi di interpretazione contrattuale nella determinazione degli onorari Una recente pronuncia della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, affrontando questioni cruciali che riguardano tanto i professionisti legali quanto i loro assistiti. La decisione interviene su temi di grande rilevanza pratica, quali l’ambito di applicazione del procedimento sommario previsto per le controversie sui compensi, i criteri di interpretazione degli accordi tra avvocato e cliente, e le regole per la determinazione delle maggiorazioni tariffarie in presenza di pluralità di controparti. La vicenda processuale trae origine da una richiesta di pagamento di compensi professionali avanzata da un avvocato nei confronti del proprio assistito, un ingegnere, per l’attività svolta sia in fase stragiudiziale sia nel corso di un complesso giudizio civile relativo a una successione ereditaria. L’importo richiesto ammontava complessivamente a circa duecentodiciassettemila euro, di cui circa novantacinquemila per l’attività stragiudiziale e circa cinquantaquattromila per quella giudiziale. Il professionista aveva assistito il cliente inizialmente in una fase negoziale e successivamente in un procedimento giudiziario conclusosi con una transazione dopo un tentativo di mediazione. Le parti avevano stipulato un primo accordo nel novembre duemilanove, prevedendo che il compenso sarebbe stato determinato secondo le tariffe forensi vigenti all’epoca. Con una successiva scrittura del maggio duemiladodici, avevano precisato che gli onorari sarebbero stati applicati nella misura massima prevista dal decreto ministeriale. Tuttavia, il cliente aveva corrisposto al professionista soltanto un acconto di diecimila euro, senza poi saldare il residuo nonostante le reiterate richieste. Il Tribunale di Milano, investito della controversia attraverso un procedimento per decreto ingiuntivo, aveva accolto solo parzialmente le richieste del professionista, riconoscendo compensi per circa ventottomila euro relativi esclusivamente all’attività giudiziale, rigettando invece integralmente la domanda concernente l’attività stragiudiziale. Questa decisione aveva spinto l’avvocato a proporre ricorso per cassazione, articolato su quattro distinti motivi di censura. Il procedimento sommario e i compensi stragiudiziali Il primo nucleo tematico affrontato dalla Suprema Corte riguarda l’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione previsto dall’articolo quattordici del decreto legislativo centocinquanta del duemilaundici per le controversie relative ai compensi professionali forensi. Il ricorrente sosteneva che anche le prestazioni stragiudiziali potessero essere richieste mediante tale rito speciale, in quanto strettamente connesse all’attività giudiziaria successivamente svolta per il medesimo cliente e con finalità unitarie. La Corte ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il procedimento sommario contemplato dalla norma si applica esclusivamente ai giudizi concernenti la liquidazione di compensi per prestazioni giudiziali rese in materia civile, potendosi estendere alle attività stragiudiziali soltanto quando queste risultino strettamente correlate alle prime. Il discrimine fondamentale risiede nel carattere di autonomia o di complementarietà dell’attività stragiudiziale rispetto a quella propriamente processuale. Nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che il Tribunale milanese avesse correttamente accertato il carattere autonomo delle prestazioni stragiudiziali rispetto all’attività giudiziaria successiva. Tale valutazione, fondata sull’esame delle concrete modalità di svolgimento del mandato professionale, appartiene al merito della controversia e non può essere rimessa in discussione in sede di legittimità se adeguatamente motivata. Il giudice di merito aveva infatti rilevato che le attività stragiudiziali svolte tra il duemilanove e il duemiladodici presentavano una propria fisionomia distinta, non configurandosi come mera preparazione o complemento necessario dell’azione giudiziaria intrapresa successivamente. Questo principio assume particolare rilievo pratico per i professionisti legali, poiché impone una valutazione attenta della natura delle prestazioni rese prima di scegliere lo strumento processuale attraverso cui far valere le proprie ragioni creditorie. L’utilizzo improprio del rito sommario per prestazioni stragiudiziali autonome può infatti esporre al rischio di un rigetto in rito della domanda, con conseguente necessità di instaurare un nuovo giudizio secondo le forme ordinarie. L’interpretazione degli accordi sul compenso professionale Il secondo aspetto di grande interesse riguarda l’applicazione dei principi di interpretazione contrattuale agli accordi intercorsi tra avvocato e cliente in ordine alla determinazione del compenso. Il caso presentava la peculiarità che le parti avevano formalizzato la propria intesa attraverso due distinti documenti scritti, redatti a distanza di tempo l’uno dall’altro. La Cassazione ha accolto la censura del ricorrente su questo punto, richiamando il fondamentale principio stabilito dall’articolo milletrecentosessantatré del codice civile. Tale norma impone al giudice, quando una medesima vicenda negoziale e i relativi effetti abbiano formato oggetto di più atti scritti, di esaminarli tutti congiuntamente per stabilire il rapporto intercorrente tra le varie clausole e documenti. Occorre cioè verificare se le pattuizioni successive costituiscano un chiarimento, un’integrazione, una modificazione, una trasformazione oppure un annullamento delle precedenti convenzioni. Il Tribunale di primo grado aveva invece compiuto un errore metodologico, concentrando la propria analisi esclusivamente sulla scrittura del maggio duemiladodici e deducendone che il professionista non avesse diritto ad alcun compenso oltre ai soli onorari. Tale approccio risultava viziato perché non prendeva in considerazione l’originario accordo del novembre duemilanove, che aveva costituito la base iniziale del rapporto professionale e nel quale erano stati definiti i criteri generali di determinazione del compenso. La corretta metodologia interpretativa avrebbe richiesto un esame sistematico di entrambi i documenti, per verificare se la seconda scrittura intendesse effettivamente escludere i diritti precedentemente riconosciuti oppure se si limitasse a specificare la misura degli onorari senza incidere sulle altre componenti del compenso previste dalla tariffa professionale vigente. In particolare, il ricorrente sosteneva che la precisazione relativa all’applicazione degli onorari nella misura massima non implicasse necessariamente la rinuncia ai cosiddetti diritti, che costituivano una voce distinta e autonoma della parcella professionale, caratterizzata da importi fissi e inderogabili secondo la disciplina tariffaria dell’epoca. Questo aspetto della pronuncia riveste notevole importanza pratica perché evidenzia come la formazione progressiva degli accordi professionali richieda particolare attenzione nella redazione dei documenti successivi, che devono chiarire in modo inequivocabile se intendano sostituire integralmente le precedenti pattuizioni oppure semplicemente integrarle o specificarle. Per il professionista, ciò comporta la necessità di prestare massima cura nella formulazione delle scritture integrative, evitando ambiguità che possano successivamente essere interpretate in senso sfavorevole. Per il cliente, emerge l’importanza di verificare che ogni modifica degli accordi originari venga espressa in termini chiari e

Compensi avvocati: la Cassazione chiarisce quando spetta il compenso per la fase istruttoria

La Suprema Corte stabilisce che basta la semplice trattazione della causa per maturare il diritto al compenso, anche senza attività probatoria La Cassazione Civile, Seconda Sezione, con ordinanza n. 25711/2025 (R.G. 16546/2023), ha fornito un importante chiarimento in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, specificando quando matura il diritto al compenso per la cosiddetta “fase istruttoria” del processo civile. I fatti del caso La vicenda origina da una richiesta di liquidazione del compenso professionale presentata da un legale ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 per l’attività difensiva svolta in un processo civile. Il Tribunale di primo grado aveva accolto solo parzialmente la richiesta, liquidando euro 5.534,00 ma escludendo dalle voci degli onorari quella relativa alla fase istruttoria, motivando tale esclusione con il fatto che detta fase “non si era svolta”. Il professionista ha quindi presentato ricorso per Cassazione, lamentando che in realtà aveva regolarmente partecipato a numerose udienze di trattazione ed aveva esaminato diversi documenti prodotti dalla controparte, svolgendo quindi concretamente attività riconducibile alla fase istruttoria. Il principio di diritto stabilito dalla Cassazione La Suprema Corte ha accolto il ricorso, stabilendo un principio di diritto di fondamentale importanza per la professione forense. Secondo i giudici di legittimità, l’art. 4, comma 5, del d.m. n. 55 del 2014 prevede che la liquidazione del compenso per l’attività difensiva nel processo civile debba considerare diverse fasi: studio della controversia, introduzione del giudizio, fase istruttoria e fase decisionale. Il punto cruciale dell’argomentazione riguarda l’interpretazione del concetto di “fase istruttoria”. La Cassazione chiarisce che la fase istruttoria comprende tutte le attività di trattazione della causa che si svolgono tra la fase introduttiva e quella decisionale, che inizia con la precisazione delle conclusioni. Tale interpretazione trova conferma nelle tabelle allegate al decreto ministeriale, che denominano questa fase come “Fase istruttoria e/o di trattazione”. L’elemento innovativo della decisione L’aspetto più significativo della pronuncia risiede nella considerazione che il compenso professionale per la fase istruttoria spetta anche prescindendo dall’effettivo svolgimento di attività a contenuto strettamente probatorio. È sufficiente la semplice trattazione della causa, intesa come partecipazione del difensore a una o più udienze davanti al giudice oppure il deposito di memorie illustrative, modificative o integrative delle domande e difese proposte. Questo orientamento, già consolidato dalla giurisprudenza di legittimità (come testimoniano le precedenti Cass. n. 28627 del 2023, Cass. n. 8561 del 2023, Cass. n. 20993 del 2020 e Cass. n. 4698 del 2019), viene ora ribadito con particolare chiarezza, fornendo agli operatori del diritto un punto di riferimento sicuro. Le implicazioni pratiche per la professione forense Questa decisione ha rilevanti conseguenze pratiche per tutti gli avvocati che si trovano a richiedere la liquidazione del compenso professionale. In particolare, la pronuncia chiarisce che nei giudizi di cognizione, almeno in primo grado, la trattazione della causa costituisce sempre un’attività necessaria, indipendentemente dal fatto che vengano assunte prove testimoniali, disposte consulenze tecniche d’ufficio o compiute altre attività strettamente istruttorie. Ne consegue che ogni volta che l’avvocato partecipa a udienze di trattazione o deposita atti difensivi successivi alla citazione e precedenti alla precisazione delle conclusioni, matura automaticamente il diritto al compenso per la fase istruttoria, secondo i parametri previsti dalle tabelle ministeriali. Un orientamento che tutela la professionalità La decisione della Cassazione rappresenta un importante riconoscimento del valore dell’attività professionale dell’avvocato anche nelle sue manifestazioni apparentemente più semplici. La partecipazione alle udienze e la predisposizione di atti difensivi richiedono sempre studio, preparazione e competenza tecnica, elementi che meritano adeguato riconoscimento economico. Inoltre, questa interpretazione garantisce maggiore certezza nella determinazione dei compensi, evitando dispute fondate su valutazioni soggettive circa l’effettivo svolgimento di attività istruttorie in senso tecnico. Conclusioni e prospettive L’ordinanza in esame consolida definitivamente un orientamento giurisprudenziale favorevole alla professione forense, chiarendo che la denominazione “fase istruttoria e/o di trattazione” presente nelle tabelle ministeriali non è casuale, ma riflette la volontà del legislatore di ricomprendere in questa voce tutte le attività processuali intermedie. Per gli avvocati che si trovano a gestire procedure di liquidazione del compenso, questa pronuncia offre un solido argomento giuridico per sostenere le proprie ragioni, mentre per i Tribunali costituisce un chiaro indirizzo interpretativo da seguire nell’applicazione della normativa sui compensi professionali.

Il Creditore Può Sempre Cumulare le Azioni Esecutive: La Cassazione Chiarisce i Limiti dell’Art. 483 c.p.c.

Una recente ordinanza della Suprema Corte ribadisce il diritto del creditore di attivare contemporaneamente più procedure esecutive, stabilendo criteri rigorosi per valutare l’abusività del cumulo La Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con ordinanza n. 30011/2024 del 15 ottobre scorso, ha fornito un importante chiarimento sui limiti del cumulo dei mezzi di espropriazione, ribaltando una decisione del Tribunale di Ancona che aveva dichiarato abusiva la condotta di un istituto di credito. La vicenda trae origine da una situazione tutt’altro che infrequente nella prassi: un creditore, dopo aver ottenuto l’assegnazione del quinto dello stipendio della debitrice attraverso una prima procedura esecutiva che aveva fruttato circa 20.000 euro su un credito totale di 38.000 euro, aveva successivamente avviato una procedura di espropriazione immobiliare per soddisfare la parte residua del proprio credito. La Posizione dei Giudici di Merito: Un’Interpretazione Troppo Restrittiva Il giudice dell’esecuzione prima, e il Tribunale di Ancona poi, avevano ritenuto che questa condotta costituisse un abuso del cumulo dei mezzi espropriativi ai sensi dell’art. 483 c.p.c., motivando tale conclusione con argomentazioni che la Cassazione ha definito “manifestamente in contrasto con la ratio e con la lettera” della norma. I giudici di merito avevano fondato la loro decisione su tre elementi: il decorso di quattro anni tra le due procedure, l’incertezza sull’esito della procedura immobiliare, e l’aumento delle spese processuali a carico della debitrice. La Suprema Corte ha demolito sistematicamente ciascuno di questi argomenti, chiarendo come nessuno di essi possa giustificare una limitazione del diritto del creditore. I Principi Affermati dalla Cassazione La decisione della Cassazione si fonda su un principio cardine: il cumulo dei mezzi espropriativi è uno strumento consentito dall’ordinamento, la cui limitazione ha carattere eccezionale. Come chiarisce la Corte, l’abuso può essere ravvisato esclusivamente “quando il sacrificio del debitore, coinvolto in plurime procedure esecutive, non sia giustificato da un ragionevole interesse del creditore”. Particolarmente significativo è il passaggio in cui i giudici di legittimità sottolineano che l’espropriazione di una pluralità di beni del debitore rende “certamente più probabile e più rapida l’integrale soddisfazione del creditore” e costituisce sempre legittimo interesse di quest’ultimo ottenere tale risultato. La Corte ha inoltre precisato che sono inevitabilmente correlati al legittimo cumulo sia l’alea relativa all’esito di ogni procedimento esecutivo, sia le conseguenze in tema di spese processuali per il debitore. Questi elementi, lungi dal costituire indici di abusività, rappresentano le normali conseguenze di una scelta processuale lecita. L’Inversione dell’Onere della Prova Un aspetto cruciale della pronuncia riguarda la distribuzione dell’onere probatorio. La Cassazione ha chiarito che spetta al debitore dimostrare l’esistenza di elementi concreti che inducano, con certezza, ad escludere la possibilità di conseguire una più rapida o probabile soddisfazione mediante il cumulo. Nel caso esaminato, né il giudice dell’esecuzione né il Tribunale avevano richiesto o valutato tali prove specifiche, limitandosi a rilevare genericamente che non vi era certezza sui risultati delle procedure esecutive. Come osserva la Corte, questo approccio “ha sovvertito l’oggetto ed il corretto assetto degli oneri probatori”. Le Implicazioni Pratiche per Creditori e Debitori Questa pronuncia ha importanti ricadute pratiche. Per i creditori, rappresenta una conferma della possibilità di pianificare strategie esecutive articolate, senza il timore che la legittima ricerca di una maggiore efficacia nell’azione di recupero possa essere censurata come abusiva. Per i debitori, il messaggio è altrettanto chiaro: l’opposizione al cumulo delle procedure esecutive richiede la dimostrazione di circostanze specifiche ed eccezionali, non essendo sufficiente invocare genericamente l’aumento dei costi o l’incertezza degli esiti. La decisione assume particolare rilevanza considerando che l’assegnazione di crediti futuri e periodici, come nel caso del quinto dello stipendio, non determina l’immediata ed integrale soddisfazione del creditore, che si realizza esclusivamente a seguito del pagamento effettivo del terzo e nei limiti in cui esso effettivamente avvenga. Un Equilibrio tra Diritti del Creditore e Tutela del Debitore La Suprema Corte ha trovato un equilibrio tra la necessità di garantire al creditore strumenti efficaci per il recupero del proprio credito e l’esigenza di tutelare il debitore da condotte effettivamente vessatorie. Il principio emerso dalla pronuncia è che la mera possibilità di un aggravio per il debitore non può limitare il legittimo diritto del creditore di scegliere le strategie esecutive più adatte al caso concreto. Significativa è anche la considerazione della Corte secondo cui il debitore può “evitare l’aggravio semplicemente estinguendo il proprio debito”, ricordando come la situazione di soggezione alle procedure esecutive derivi dall’inadempimento dell’obbligazione originaria. Conclusioni e Prospettive L’ordinanza in commento rappresenta un importante contributo alla chiarificazione dei rapporti tra creditore e debitore nelle procedure esecutive. La Cassazione ha ribadito che il favor creditoris non è un principio superato, purché si mantenga entro i limiti della ragionevolezza e non sconfini nell’abuso. La pronuncia offre agli operatori del diritto criteri chiari per valutare la legittimità del cumulo dei mezzi espropriativi, fornendo certezza in un ambito spesso caratterizzato da interpretazioni divergenti. Per i tribunali di merito, rappresenta una guida autorevole per evitare valutazioni eccessivamente restrittive che possano compromettere l’efficacia della tutela esecutiva. Hai dubbi sui tuoi diritti come creditore o ti trovi in una situazione di plurime procedure esecutive? Il nostro studio legale può offrirti la consulenza specializzata di cui hai bisogno. Contattaci per una valutazione personalizzata del tuo caso.

L’Emergenza Frodi Digitali: Analisi Giuridica di un Fenomeno in Crescita Esponenziale

Oltre mezzo miliardo sottratto in tre anni: quando la tecnologia diventa complice del crimine e quali strumenti giuridici abbiamo per difenderci L’evoluzione digitale della nostra società ha portato indubbi vantaggi, ma ha anche spalancato le porte a nuove forme di criminalità che stanno assumendo dimensioni allarmanti. I dati emersi da recenti studi della Federazione autonoma bancari italiani dipingono un quadro preoccupante: nel triennio 2022-2024, le frodi digitali hanno sottratto agli italiani la cifra record di 559,4 milioni di euro, con un’accelerazione impressionante che ha visto i danni crescere del 30% solo nell’ultimo anno. Questa escalation non rappresenta semplicemente un problema di sicurezza informatica, ma configura una vera e propria emergenza giuridica che richiede un approccio integrato tra prevenzione, repressione penale e tutela civilistica delle vittime. Il Fenomeno dal Punto di Vista Normativo Dal punto di vista penalistico, le condotte fraudolente digitali trovano la loro collocazione principalmente negli articoli 640 e 640-bis del Codice Penale, che disciplinano rispettivamente la truffa e la frode informatica. L’art. 640-bis c.p. si applica specificamente quando il raggiro avviene attraverso l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico, circostanza che caratterizza la maggior parte delle truffe online contemporanee. La giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione (si vedano, tra le altre, Cass. pen. Sez. II, n. 15234/2023 e Cass. pen. Sez. V, n. 28761/2022) ha chiarito che per la configurabilità del reato di frode informatica è sufficiente che l’intervento dell’autore del reato sul sistema informatico sia strumentale all’ottenimento del profitto, anche quando questo avviene attraverso l’induzione in errore dell’utente finale. Sul versante civilistico, le vittime di frodi digitali possono invocare l’art. 2043 del Codice Civile per ottenere il risarcimento del danno subito, purché sia dimostrabile il nesso di causalità tra la condotta illecita e il pregiudizio economico patito. Tuttavia, la prassi giudiziaria mostra come spesso il recupero delle somme sottratte si riveli problematico, soprattutto quando i proventi del reato vengano rapidamente trasferiti all’estero o convertiti in criptovalute. Le Principali Tipologie di Frode e i Relativi Profili Giuridici Le tecniche fraudolente si sono evolute raggiungendo livelli di sofisticazione che sfruttano sia le vulnerabilità tecnologiche sia quelle psicologiche delle potenziali vittime. Il SIM swapping, ad esempio, rappresenta una delle modalità più insidiose: attraverso l’inganno degli operatori telefonici, i malintenzionati riescono ad assumere il controllo del numero di telefono della vittima, bypassando così i sistemi di autenticazione a due fattori basati su SMS. Questa pratica configura non solo il reato di frode informatica, ma spesso anche quello di sostituzione di persona (art. 494 c.p.) e, nei casi più gravi, di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.). La complessità di queste condotte rende evidente come il diritto penale tradizionale debba continuamente adattarsi per fornire strumenti di tutela adeguati. Il phishing e lo smishing rappresentano invece le evoluzioni digitali della truffa classica, dove l’inganno viene perpetrato attraverso comunicazioni elettroniche che simulano l’identità di soggetti istituzionali affidabili. La giurisprudenza di merito ha precisato che la mera creazione di un sito web contraffatto può già integrare gli estremi del tentativo di frode, anche in assenza di vittime effettive. Le Responsabilità degli Intermediari Finanziari Un aspetto particolarmente delicato riguarda la posizione degli istituti di credito e degli altri prestatori di servizi di pagamento. La Direttiva europea PSD2, recepita in Italia con il D.lgs. 15/2017, ha introdotto il principio della Strong Customer Authentication, imponendo agli intermediari l’adozione di sistemi di autenticazione rafforzata per le operazioni di pagamento. Tuttavia, quando una frode riesce a bypassare questi sistemi, si pone il delicato problema della ripartizione delle responsabilità tra istituto di credito e cliente. La Cassazione civile (Cass. civ. Sez. I, n. 9097/2023) ha stabilito che l’onere della prova relativo alla sicurezza dei sistemi informatici grava sull’intermediario, mentre al cliente spetta dimostrare di aver adottato le dovute cautele nella custodia delle proprie credenziali. Le prossime normative europee PSD3 e PSR, approvate dal Parlamento Europeo nell’aprile 2024, introdurranno ulteriori obblighi per gli istituti finanziari, tra cui la verifica della corrispondenza tra IBAN e intestatario del conto beneficiario e la possibilità di condividere informazioni sulle frodi tra diversi prestatori di servizi. Strumenti di Tutela e Prevenzione per i Cittadini La prevenzione rimane l’arma più efficace contro le frodi digitali. Dal punto di vista giuridico, è fondamentale che i cittadini comprendano come la negligenza nella custodia delle proprie credenziali possa comportare l’esclusione o la riduzione del diritto al rimborso da parte dell’intermediario finanziario. L’art. 1218 del Codice Civile prevede infatti che il debitore (in questo caso, la banca) non risponde per inadempimento dovuto a causa a lui non imputabile, principio che può trovare applicazione quando il cliente abbia violato gravemente i doveri di diligenza nella custodia dei propri strumenti di pagamento. Per questo motivo, assume rilevanza cruciale l’adozione di comportamenti prudenziali: utilizzo di password complesse e regolarmente aggiornate, attivazione dell’autenticazione a due fattori con metodi diversi dagli SMS, verifica costante dei movimenti sui propri conti correnti e immediata segnalazione di operazioni sospette. Le Prospettive di Evoluzione Normativa Il legislatore italiano ed europeo stanno lavorando per adeguare l’arsenale normativo alle nuove sfide poste dalla criminalità digitale. Il D.lgs. 231/2007 in materia di antiriciclaggio è stato recentemente modificato per estendere gli obblighi di identificazione e verifica anche alle operazioni effettuate tramite wallet digitali e criptovalute. Sul fronte penale, si registra un progressivo inasprimento delle sanzioni per i reati informatici, mentre dal punto di vista civilistico cresce l’attenzione verso forme di tutela collettiva delle vittime di frodi seriali, attraverso strumenti come l’azione di classe disciplinata dalla Legge 12 aprile 2019, n. 31. Conclusioni e Raccomandazioni Operative L’emergenza frodi digitali richiede una risposta coordinata che veda coinvolti cittadini, istituzioni finanziarie e autorità di controllo. Dal punto di vista legale, è essenziale che le potenziali vittime comprendano i propri diritti e doveri, mentre gli operatori del settore devono investire costantemente nell’aggiornamento dei propri sistemi di sicurezza. La consapevolezza giuridica rappresenta la prima linea di difesa: conoscere i meccanismi attraverso cui si configurano le responsabilità, i termini per l’esercizio dei diritti di rimborso e le procedure per la denuncia delle frodi può fare la

Cessione di crediti in blocco: quando il cessionario deve provare la propria legittimazione

La Cassazione chiarisce gli oneri probatori nelle cessioni bancarie e di cartolarizzazione Le recenti pronunce della Cassazione Civile, Prima Sezione (ordinanze nn. 23834, 23849 e 23852 del 2025) hanno affrontato una questione di crescente rilevanza nella prassi bancaria e finanziaria: quale sia l’onere probatorio che grava sul cessionario di crediti ceduti in blocco quando deve dimostrare la propria legittimazione ad agire per il recupero. La problematica emerge frequentemente nelle procedure giudiziali, dove società specializzate nella gestione di crediti deteriorati si trovano a dover provare di essere effettivamente titolari dei diritti che intendono far valere contro i debitori. I principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità La Suprema Corte ha ribadito un principio fondamentale: la parte che agisce affermandosi successore a titolo particolare della parte creditrice originaria in virtù di un’operazione di cessione in blocco ex art. 58 d.lgs. n. 385 del 1993 ha l’onere di dimostrare l’inclusione del credito oggetto di causa nell’operazione di cessione, fornendo così la prova documentale della propria legittimazione sostanziale. Questo principio si applica tanto alle cessioni disciplinate dal Testo Unico Bancario quanto a quelle regolate dalla legge sulla cartolarizzazione dei crediti (l. 130/1999), strumenti normativi che consentono il trasferimento “in blocco” di interi portafogli creditizi. La giurisprudenza consolidata ha chiarito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie. Quando la cessione in blocco non basta Un aspetto particolarmente delicato emerge quando la cessione non riguarda l’intero patrimonio creditizio del cedente, ma solo categorie specifiche di crediti. In questi casi, come evidenziato dalla Cass. civ. Sez. I, n. 23852/2025, la semplice cessione in blocco di crediti aventi una certa connotazione non esonera il cessionario dalla prova che la singola posizione creditoria sia oggetto dell’atto dispositivo, non essendo sufficiente la sola esistenza di un contratto di cessione in blocco. La Corte ha precisato che è applicato correttamente il principio della ripartizione dell’onere probatorio quando si impone al cessionario di dimostrare non solo che le posizioni creditorie siano ricomprese nel perimetro dei crediti ceduti, ma anche che le stesse non fossero incluse tra quelle espressamente escluse dal provvedimento di cessione. L’insufficienza della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale Particolare attenzione merita la questione relativa alla pubblicazione dell’avviso di cessione sulla Gazzetta Ufficiale. La Cassazione ha stabilito che in tema di cessione di crediti in blocco ex art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, la notificazione della cessione mediante avviso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale non è sufficiente per provare l’esistenza dei contratti ceduti, dovendo il giudice procedere ad un accertamento complessivo delle risultanze di fatto. L’avviso di pubblicazione può rivestire un valore meramente indiziario, specialmente quando avvenuto su iniziativa della parte cedente, ma non costituisce prova definitiva dell’inclusione del singolo credito nel perimetro della cessione. Le implicazioni pratiche per operatori e debitori Queste pronunce hanno rilevanti implicazioni operative per tutti i soggetti coinvolti nelle operazioni di cessione. Le società cessionarie devono predisporre una documentazione probatoria rigorosa che dimostri chiaramente l’inclusione di ogni singolo credito nell’operazione di trasferimento, non potendo fare affidamento sulla sola esistenza del contratto quadro di cessione. Dal lato dei debitori, emerge la possibilità di contestare efficacemente la legittimazione del cessionario quando questo non riesca a fornire prova specifica dell’avvenuto trasferimento. Il mero possesso da parte del cessionario della documentazione relativa al credito non equivale a dimostrare l’effettiva titolarità del diritto. La giurisprudenza ha inoltre chiarito che chi subisce l’azione di adempimento di un’obbligazione non è tenuto ad individuare il proprio creditore, ribaltando alcune tesi che volevano attribuire al debitore l’onere di verificare la legittimazione del soggetto agente. Conclusioni operative Le recenti decisioni della Cassazione rappresentano un importante chiarimento sulla ripartizione degli oneri probatori nelle cessioni di crediti in blocco, settore in costante espansione nel panorama finanziario italiano. La Corte ha confermato l’applicazione rigorosa dei principi generali in materia di prova, ribadendo che spetta sempre a chi agisce in giudizio fornire la dimostrazione della propria legittimazione sostanziale. Per le aziende che operano nel settore del credit management, queste pronunce impongono una maggiore attenzione nella gestione della documentazione probatoria e nella verifica della completezza degli atti di cessione ricevuti dai cedenti. Se la tua azienda opera nel settore del recupero crediti o hai ricevuto richieste di pagamento da società diverse dalla banca originaria, contattaci per una consulenza specializzata. Il nostro studio ti aiuterà a verificare la legittimazione del creditore e a tutelare i tuoi diritti.

Assegni in Bianco come Garanzia: La Cassazione Ribadisce l’Invalidità del Patto ma Conferma l’Efficacia del Titolo

Nuova pronuncia della Suprema Corte chiarisce gli effetti giuridici degli assegni postdatati o in bianco consegnati a garanzia di debiti altrui La Corte di Cassazione, con ordinanza della Prima Sezione Civile n. 25599 del 25 settembre 2024, è tornata a pronunciarsi su una pratica molto diffusa nel mondo degli affari: la consegna di assegni bancari in bianco o postdatati per garantire obbligazioni proprie o altrui. La decisione conferma un orientamento consolidato che, pur dichiarando nullo il patto di garanzia sottostante, riconosce all’assegno piena efficacia come strumento di pagamento. La Vicenda Processuale e la Questione Giuridica Il caso traeva origine da un’opposizione a decreto ingiuntivo emesso per Euro 30.987,41 sulla base di un assegno bancario. Il debitore sosteneva di aver emesso il titolo non per un debito personale, ma come garanzia per crediti che terzi vantavano verso una società di cui era socio. Secondo questa ricostruzione, l’assegno doveva essere restituito una volta estinto il debito garantito. La peculiarità della fattispecie risiede nella funzione attribuita all’assegno: non strumento di pagamento immediato, ma titolo da conservare presso il creditore e da utilizzare solo in caso di inadempimento del debitore principale. Una prassi che, seppur diffusa nella pratica commerciale, solleva rilevanti questioni di diritto. I Principi Giuridici Affermati dalla Cassazione La Suprema Corte ha ribadito un orientamento ormai consolidato, già espresso nella sentenza n. 10710/2016, secondo cui l’emissione di un assegno in bianco o postdatato a garanzia di un debito contrasta con le norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del R.D. n. 1736 del 1933. Questo contrasto determina un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio di conformità a norme imperative, ordine pubblico e buon costume enunciato dall’art. 1343 c.c. La ratio di questo orientamento risiede nella necessità di preservare la funzione propria dell’assegno bancario quale strumento di pagamento a vista, impedendo utilizzi che ne snaturino la natura giuridica. Il legislatore del 1933 ha infatti disciplinato l’assegno come titolo di credito destinato a circolare e a essere presentato per il pagamento entro termini prestabiliti. Gli Effetti Giuridici della Nullità del Patto Nonostante la nullità del patto di garanzia, la Cassazione chiarisce che l’assegno conserva la sua efficacia quale titolo di credito. Quando l’assegno perde la propria forza cartolare per decorso dei termini di presentazione, esso mantiene valore come promessa di pagamento ex art. 1988 c.c. Questa qualificazione comporta importanti conseguenze processuali: il creditore che agisce in giudizio sulla base dell’assegno è dispensato dall’onere di provare il rapporto causale sottostante, potendo fare affidamento sulla presunzione di esistenza del debito derivante dalla sottoscrizione del titolo. Le Implicazioni Pratiche per Imprese e Professionisti La pronuncia della Cassazione ha rilevanti implicazioni operative per il mondo imprenditoriale. Chi accetta un assegno come garanzia deve essere consapevole che l’eventuale accordo di restituzione in caso di adempimento del debitore principale sarà privo di efficacia giuridica. Al contrario, chi emette l’assegno non potrà sottrarsi al pagamento invocando la funzione meramente cautelativa del titolo. Per le imprese che ricorrono abitualmente a questa forma di garanzia, la decisione suggerisce l’opportunità di ricorrere a strumenti alternativi conformi alla legge, come la fideiussione tradizionale o altre forme di garanzia personale o reale espressamente previste dall’ordinamento. Orientamenti Giurisprudenziali e Prospettive L’orientamento espresso nella pronuncia in commento si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato che ha trovato conferma in numerose decisioni della Suprema Corte. La giurisprudenza di legittimità appare infatti uniforme nel ritenere che la natura imperativa delle norme sul titolo assegno non consenta deroghe pattizie, anche quando finalizzate a realizzare interessi economici legittimi. Questa linea interpretativa riflette una concezione rigorosa della tipicità dei titoli di credito, che non ammette utilizzi difformi rispetto alla disciplina legislativa, anche quando sorrerti da concrete esigenze di mercato. Considerazioni Conclusive La decisione della Cassazione conferma la necessità di un approccio prudente nell’utilizzo degli assegni bancari per finalità diverse dal pagamento immediato. Pur riconoscendo l’esigenza pratica di disporre di strumenti di garanzia agili ed efficaci, il diritto positivo impone il rispetto delle forme tipiche previste dall’ordinamento. Gli operatori economici sono pertanto chiamati a valutare attentamente le implicazioni giuridiche delle proprie scelte contrattuali, privilegiando strumenti di garanzia conformi alla legge e in grado di assicurare certezza nei rapporti commerciali. Hai dubbi sull’utilizzo di assegni come garanzia o necessiti di consulenza su strumenti alternativi di tutela del credito? Contatta il nostro studio per una valutazione personalizzata della tua situazione.