DISTACCO DALL’IMPIANTO CONDOMINIALE E RELATIVE SPESE

Tempo di lettura: 3 minuti In condominio accade di frequente che un comproprietario intenda distaccarsi da un servizio centralizzato – spesso quelli di riscaldamento o di antenna televisiva – per ottenere una maggiore comodità da un impianto singolo, o per realizzare una migliore economia di gestione. Per anni la giurisprudenza si è confrontata sull’esistenza del diritto al distacco in capo ad ogni condomino, e sulle conseguenze di tale distacco relativamente alle spese di gestione e manutenzione dell’impianto centralizzato. Ci si è chiesto per anni se il distacco del singolo condomino dovesse essere necessariamente autorizzato dagli altri condomini, e se, soprattutto, il condomino, una volta sganciatosi dall’impianto, fosse tenuto o meno a contribuire, ed in che misura, alle spese del servizio. Dopo alcune oscillazioni interpretative, si è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui il distacco corrisponde ad un diritto soggettivo del singolo condomino, sottoposto non già all’assenso degli altri condomini, ma alla sola condizione che da esso non derivi un significativo ostacolo alla fruizione del servizio da parte degli altri comproprietari. Per tale ragione, in un primo momento è stato ritenuto che tale diritto del singolo doveva essere subordinato alla condizione che egli provasse che il distacco non avrebbe determinato aggravi di spese per coloro che avrebbero continuato ad utilizzare l’impianto, né disservizi nella erogazione del servizio (Cass. n. 5974/2004; Cass. n. 6923/2001). In applicazione di tale orientamento, i giudici di legittimità hanno così sostenuto che il distacco esenterebbe il condomino dalle spese correnti di gestione, ma non già da quelle di manutenzione necessarie per tenere in efficienza il servizio comune (Cass. n. 10214/1996; Cass. n. 11152/1997), né dalle maggiori spese di gestione determinate, proprio dal distacco, a carico degli altri condomini (Cass. n. 11152/1997; Cass. n. 1775/1998). In ogni caso è stata ritenuta valida e legittima la clausola del regolamento condominiale che ponga comunque, a carico del condomino rinunciante o distaccato, l’obbligo di contribuzione sia alle spese per la conservazione del servizio condominiale che a quelle per la sua gestione ordinaria, attesa la disponibilità del diritto (Cass. n. 12580/2017) e tenuto quindi conto che il criterio legale di ripartizione delle spese di gestione di cui all’art. 1123 c.c. è derogabile per volontà delle parti (Cass. n. 32441/2019). D’altra parte con la legge n. 102/2014 è stata imposta la contabilizzazione dei consumi di ogni unità immobiliare, in modo da procedere alla attribuzione delle spese sulla base dei consumi reali, sicché è intenzione del legislatore – in mancanza di accordi di diverso tenore tra le parti – affermare il principio secondo cui il pagamento delle spese del servizio di riscaldamento deve essere ripartito secondo l’effettivo consumo di ogni unità immobiliare. In definitiva, se è vero che il distacco dal servizio comune corrisponde sempre ad un diritto del condomino ogni qualvolta tale separazione non infici o aggravi sensibilmente il godimento degli altri condomini, resta intatto l’obbligo del distaccante di contribuire alle spese di conservazione del servizio e della sua funzionalità, restando sempre in sua facoltà di richiedere il riallaccio – a propria cura e spese – qualora egli lo ritenesse.
CONDOMINO MOROSO ? POSSONO ESSERE STACCATI I SERVIZI ESSENZIALI

Tempo di lettura: 2 minuti Capita spesso che qualche proprietario ometta di versare le quote mensili, provocando così le ire degli altri condomini che, oltre a sostenere economicamente la gestione del condominio, subiscono la inevitabile riduzione dei servizi per la ridotta disponibilità di cassa. Proprio per prevenire la ampia diffusione del problema, la riforma del condominio in vigore dal giugno 2012 ha stabilito che, anche se il regolamento condominiale nulla prevede al riguardo, l’amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato, nel caso che la morosità nel pagamento dei contributi si sia protratta per un semestre. Ma un condominio può gestire svariati servizi comuni, come un impianto di riscaldamento centralizzato, una zona parcheggio chiusa da un cancello elettrico, o una piscina ad uso interno.Da allora si è registrato perciò un ampio dibattito in giurisprudenza sulla individuazione dei servizi comuni passibili di distacco: per alcuni giudici i servizi distaccabili si potrebbero interrompere tutti quelli gestiti dal condominio, mentre per altri potrebbero essere distaccati solo quelli definiti come non essenziali. Le conseguenze delle due diverse interpretazioni della norma sono di notevole impatto.Infatti, se si ritiene che i servizi essenziali, come il riscaldamento, l’erogazione dell’acqua o dell’energia elettrica, non possono essere mai interrotti, si finirebbe per limitare l’applicazione della nuova disciplina ai soli casi di servizi comuni probabilmente marginali e non particolarmente rilevanti. Per questo motivo, dopo alcuni ondeggiamenti, è divenuto prevalente l’orientamento secondo cui possono essere distaccati al condomino moroso tutti i servizi condominiali, nessuno escluso. L’argomentazione della giurisprudenza più recente considera che la morosità di un proprietario determina una compressione dei diritti di quelli che, viceversa, adempiono diligentemente alle proprie obbligazioni, e che, paradossalmente, potrebbero dover subire a loro volta l’interruzione del servizio somministrato a causa del comportamento del condomino moroso. Una tale interpretazione della legge pone però in capo all’amministratore, già tenuto alla verifica delle morosità dei condomini, l’obbligo di procedere al distacco di tutti i servizi erogati dal condominio, quando tecnicamente possibile, una volta maturati i sei mesi di mora.
VERANDA ED INFISSI POSSONO DANNEGGIARE L’ESTETICA DEL CONDOMINIO ?

Tempo di lettura: 3 minuti Un condomino realizza, nella parte posteriore del fabbricato, una veranda chiusa in alluminio preverniciato bianco con pannelli in laminato plastico e vetri, per rendere il vano abitabile, sostituendo poi gli infissi originariamente in Douglas con infissi in alluminio bianco. Il condominio lo cita in giudizio chiedendo la rimozione delle opere, sul presupposto che quegli interventi non erano stati autorizzati dal condominio, ed avevano arrecato un danno estetico per l’utilizzo di materiali diversi da quelli costruttivi, oltre ad aver ampliato le superfici. Il condomino si difende opponendo che sugli infissi in alluminio anodizzato erano state applicate delle strisce adesive riproducenti il colore del legno, che le finestre non erano visibili dalla strada, e che altri condomini avevano già effettuato, negli anni, interventi del tutto analoghi, e che quindi non sussisteva alcuna lesione del decoro architettonico, essendo già stata alterata l’estetica del fabbricato. Il tema oggetto del giudizio è di notevole interesse, perché una delle questioni più dibattute nella materia condominiale è proprio la individuazione della definizione e della rilevanza del decoro architettonico di un fabbricato comune al fine di porre un limite ai poteri di intervento dei singoli condomini sulla loro proprietà esclusive. In un complesso costituito da più unità immobiliari sono individuabili parti degli immobili che ricadono nella proprietà individuale dei condomini ed altre che, per la loro funzione, sono al servizio di tutti i proprietari per garantire loro il miglior utilizzo delle parti esclusive. E’ agevole ritenere zone di proprietà singolare le superfici degli appartamenti e delle loro pertinenze, compresi i balconi aggettanti, e zone condominiali i beni di uso comune come le scale di accesso, gli impianti ed il tetto di copertura. Quando si passa però a considerare l’aspetto esteriore e complessivo del fabbricato comune può diventare più difficoltoso tracciare la demarcazione tra il diritto dei singoli e quello della collettività dei condomini. Per legge è fatto divieto di apportare modificazioni delle destinazioni d’uso delle parti comuni che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che, quanto al caso di specie, ne alterano il decoro architettonico (art. 1117 ter cod. civ.). La giurisprudenza ha poi ribadito negli anni l’importanza dell’estetica del complesso immobiliare in cui coesistono più proprietà esclusive, confermando la sua natura di bene comune – ancorché immateriale – e come tale sottratto alla disponibilità dei singoli condomini. Resta da definire quale sia il decoro architettonico degno di tutela: se esso presupponga un particolare pregio artistico complessivo dell’immobile, o se si riferisca semplicemente alla integrità della sagoma progettata originariamente dal costruttore. Per tale ragione, sulla incertezza del canone estetico da assumere come riferimento, si sono consumati decenni di contenziosi giudiziari. Da alcuni anni la giurisprudenza di legittimità ha tuttavia assunto una linea interpretativa sufficientemente chiara, che è stata raccolta e ribadita anche dall’ordinanza decisoria emessa nella vicenda in esame, depositata dalla Corte di Cassazione il 1.12.2021 (n. 37732). Secondo i giudici di legittimità, è vietato ogni intervento che si rifletta negativamente sull’aspetto armonico del bene comune, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio, a nulla rilevando il grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, e nemmeno la presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate. Per la Corte di Cassazione, ai fini della tutela del decoro architettonico dell’edificio condominiale, non occorre che il fabbricato abbia un particolare pregio artistico, né rileva che tale fisionomia sia stata già gravemente ed evidentemente compromessa da precedenti interventi sull’immobile. Su tali presupposti, la Corte ha confermato perciò la condanna alla rimozione delle opere resa in appello, rigettando il ricorso del condomino e condannandolo al pagamento delle spese di causa.
IL FONDO PATRIMONIALE TUTELA DAI CREDITI FUTURI ?

Tempo di lettura: 3 minuti In tantissimi scelgono di porre al riparo i propri beni ricorrendo alla costituzione di un fondo patrimoniale, mediante un atto pubblico notarile, ma la decisione non si rivela sempre efficace. Nell’immaginario collettivo questo istituto garantirebbe dal rischio di pignoramento degli immobili o dei veicoli, mentre le pronunce giudiziarie spesso giungono a conclusioni ben diverse da quelle sperate. Secondo l’articolo 167 del codice civile, “Ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia”. L’effetto più noto – ed evidentemente più ricercato – della costituzione dei beni familiare in un fondo patrimoniale è che ai creditori è impedito di aggredirli esecutivamente, se non per i debiti contratti per le esigenze familiari. In generale la costituzione del fondo può essere impugnata, con l’azione revocatoria, dai creditori che vantavano già in precedenza un diritto nei confronti del proprietario dei beni conferiti, i quali possono dolersi della sottrazione alla esecuzione forzata del patrimonio destinato alle esigenze familiari. Molto più interessante è però il caso in cui decida di agire in giudizio un creditore il cui diritto sia sorto solo successivamente alla costituzione del fondo patrimoniale. Lo spunto è fornito da una recente decisione della Corte di Cassazione, alla cui attenzione era sottoposto un caso in cui il fondo patrimoniale era stato costituito ben due anni prima della contrazione del debito. A ricorrere ai giudici di legittimità era stato proprio il debitore, che ritenendo di aver posto al riparo i propri beni molto prima dell’insorgenza dell’obbligazione, aveva lamentato una violazione di legge, da parte della Corte di Appello di Catania, che aveva riformato la sentenza resa in precedenza dal Tribunale etneo, accogliendo l’azione revocatoria proposta dai creditori insoddisfatti contro la costituzione del fondo patrimoniale. Secondo il ricorrente, il fatto che il fondo era stato costituito molto tempo prima dell’insorgenza del debito avrebbe dovuto escludere che l’atto di destinazione dei beni fosse preordinato alla elusione degli impegni nei confronti di quei creditori che non erano ancora da qualificarsi come tali. Di diverso avviso si è mostrata invece la Corte di Cassazione, che con l‘ordinanza n. 11485 dell’8 aprile 2022 ha respinto le doglianze del debitore ricorrente, rilevando che l’intento fraudolento del debitore, rispetto alle obbligazioni che possono essere assunte in futuro, può desumersi anche dal fatto che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, per le circostanze di fatto in cui esso è stato convenuto, non risulti giustificato – come nel caso di specie – dalla effettiva necessità di soddisfare i bisogni della famiglia. La inesistenza di una esigenza sostanziale di destinare i beni alle necessità familiari può essere ricavata dal contesto di fatto, anche grazie al ricorso alle presunzioni, con un apprezzamento, riservato al giudice del merito, che è poi incensurabile in sede di legittimità, se viene motivato adeguatamente. La decisione ribadisce un orientamento che i giudici di legittimità esprimono in maniera conforme da molti anni, sicché prudenza consiglia di formalizzare la costituzione di un fondo patrimoniale solo in presenza di circostanze oggettive e dimostrabili che possano giustificare, ex post, la effettiva esigenza di destinare i beni alla soddisfazione delle esigenze familiari.
LAVORI CON BONUS FISCALI: IL CONDOMINO PUO’ OPPORSI AL PONTEGGIO?

Tempo di lettura: 4 minuti Il condominio aveva appaltato ad un’impresa edile l’esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione per il rifacimento delle facciate, dei balconi, dei lastrici e del vano scala, convenendo la cessione dei bonus fiscali “ecobonus 110 %” e “bonus facciate 90 %. Nel contratto di appalto era stato stabilito che il prezzo sarebbe stato pagato all’appaltatrice mediante la cessione del credito d’imposta e che, in caso di mancato riconoscimento delle detrazioni fiscali, il committente avrebbe dovuto provvedere al pagamento della somma che avrebbe dovuto essere corrisposta sotto forma di cessione del credito. All’atto dell’installazione dei ponteggi sulla facciata laterale, uno dei condomini aveva però richiesto all’impresa di rimuoverli immediatamente, poiché essi avevano occupato parzialmente il transito su di un terreno di sua proprietà esclusiva, impedendogli così di utilizzare il passaggio carrabile esistente per raggiungere il locale in cui esercitava la propria attività artigianale. Il condominio agiva perciò in giudizio con ricorso d’urgenza, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., chiedendo al Tribunale di Firenze di ordinare al condomino di consentire l’installazione dei ponteggi nella zona di terreno di sua proprietà, anche perché il danno conseguente all’eventuale non esecuzione dei lavori nei tempi stabiliti sarebbe risultato di notevole gravità. Nel ricorso veniva evidenziato che il proprietario del fondo confinante doveva consentire la installazione del ponteggio ai sensi dell’art. 843 c.c., che prevede l’obbligo del proprietario di permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo al fine di costruire o riparare il fabbricato del vicino. Il condominio riteneva inoltre che il proprietario del fondo, nella sua veste di condomino, non aveva proposto opposizione alla delibera assembleare con cui era stata approvata l’esecuzione dei lavori per i quali era necessario il ponteggio in questione. L’altra parte, dal canto suo, sosteneva la legittimità della sua opposizione all’installazione del ponteggio, dal momento che nel contratto di appalto era stato previsto che si sarebbe dovuto assicurare l’agibilità del passo carrabile sul suo fondo esclusivo, con la installazione degli impalcati all’altezza del primo piano fuori terra del fabbricato. Il resistente lamentava che, per svolgere la propria attività artigianale, egli utilizzava come mezzo di trasporto del materiale un furgone che avrebbe avuto grandissima difficoltà a percorrere la rampa carrabile con i ponteggi montati. Valutate le prospettazioni contrastanti, il Tribunale di Firenze, con ordinanza del 15 settembre 2022, ha accolto il ricorso d’urgenza, ed ha ordinato al condomino resistente di consentire immediatamente il montaggio dei ponteggi nella zona di terreno di sua proprietà, per il tempo strettamente necessario all’esecuzione dei lavori alla facciata laterale, ed in maniera tale da consentire il passaggio con l’automezzo utilizzato per l’attività artigianale. Il tribunale ha ritenuto sussistenti, nel caso in esame, i presupposti richiesti dall’art. 700 c.p.c. per l’accoglimento del ricorso: il “fumus bonis iuris”, ossia la verosimile esistenza del diritto vantato, il “periculum in mora”, ossia il pregiudizio imminente e irreparabile conseguente al trascorrere del tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, e l’inesistenza di un altro provvedimento cautelare tipico utilizzabile per tutelare la situazione giuridica soggettiva vantata. Nell’ordinanza è chiarito che, per quanto riguarda il requisito del “fumus”, l’art. 843 c.c. impone al proprietario di permettere l’accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino, oppure comune. La norma doveva essere applicata anche al caso di specie, perché non era stata provata – da parte del resistente – l’esistenza di una soluzione alternativa per l’esecuzione dei lavori di rifacimento delle facciate laterali, sicché i ponteggi andavano installati obbligatoriamente a ridosso delle stesse e dunque nel fondo di proprietà esclusiva del condomino. In aggiunta a tale considerazione, il tribunale ha fatto poi richiamo esplicito agli articoli 1136 e 1137, I comma, c.c. secondo i quali le delibere assembleari, approvate a maggioranza degli intervenuti (i quali devono rappresentare in millesimi almeno la metà del valore dell’edificio), sono obbligatorie per tutti i condomini e dunque anche per il condomino resistente, il quale, infatti, non aveva impugnato la delibera incriminata. Quanto al pericolo derivante dal ritardo (“periculum in mora”), il magistrato toscano ha evidenziato che i lavori di manutenzione straordinaria approvati dall’assemblea condominiale dovevano essere eseguiti beneficiando dei bonus fiscali (con cessione del credito) approntati dal Governo italiano, per usufruire dei quali è necessario rispettare precise scadenze temporali. In particolare, i lavori soggetti a superbonus 110 % avrebbero dovuto essere ultimati entro il 31/12/2023, mentre quelli soggetti al bonus facciate 90 % entro il 31/12/2022, e quindi il trascorrere del tempo necessario per agire in via ordinaria avrebbe potuto comportare la perdita, per il condominio, della possibilità di avvalersi dei suddetti benefici fiscali, con conseguente grave danno per le casse dello stesso e di tutti i condomini.