Bollo auto: prescrizione decorsi tre ann

Tempo di lettura: < 1 minuti La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con la sentenza n. 625 del 2021 ha ribadito il più recente principio giurisprudenziale che fissa in tre anni il termine di prescrizione della tassa di circolazione degli autoveicolo. Già la Corte di Cassazione, con la sentenza a sezione unite n. 23397 del 2016, aveva fissato il diverso principio, ora confermato anche dal giudice tributario di appello. La decisione si inserisce quindi nel solco di un filone giurisprudenziale divenuto ormai costante, e fuga definitivamente le contrastanti, ma più datate, interpretazioni che fissavano il termine di prescrizione nel più lungo termine decennale.
In monopattino senza casco: per il TAR si può

Tempo di lettura: < 1 minuti Il Tribunale Amministrativo della Regione Toscana, con sentenza dell’8 febbraio 2021, ha annullato l’ordinanza con cui il Sindaco di Firenze aveva imposto l’obbligo di indossare il casco protettivo, sul territorio comunale, anche per i conducenti maggiorenni. La decisione del T.A.R. è stata motivata da un vizio dell’atto amministrativo, poiché la competenza ad emettere una tale ordinanza, secondo il Tribunale, sarebbe stata del dirigente del settore, e non del sindaco. Secondo quanto spiegato nella sentenza, i provvedimenti che disciplinano la circolazione sulla viabilità comunale, assunti secondo il disposto degli articoli 6 e 7 del Codice della Strada, hanno natura gestoria ed esecutiva, e ricadono quindi sotto la competenza dei dirigenti dell’ente. Il T.A.R. ha escluso che per la materia oggetto del provvedimento impugnato potesse essere adottato un ordinanza contingibile ed urgente da parte del sindaco, in assenza della oggettiva necessità di un intervento indifferibile.
CADUTA DA INCIAMPO IN UN TOMBINO: SI PUO’ ESSERE RISARCITI?

Tempo di lettura: 3 minuti Capita di inciampare in una sconnessione del marciapiede e di finire a terra. La caduta può essere priva di conseguenze fisiche, ma può provocare lesioni anche di una certa gravità. La differenza è sensibile, perché una semplice scivolata genera di regola il solo disappunto, mentre una caduta rovinosa, e soprattutto le eventuali lesioni fisiche, possono determinare l’infortunato a chiedere il risarcimento dei danni causati dall’evento dannoso. In linea generale, la responsabilità per la corretta manutenzione delle strade e dei marciapiedi incombe in capo all’ente che ne è proprietario, e quindi al comune, piuttosto che alla provincia o allo stato. E’ l’art. 2051 del codice civile a stabilire che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Nell’applicazione pratica del principio si pone però il problema di individuare quando si concretizza il caso fortuito capace di escludere la responsabilità del proprietario per le lesioni subite dalla vittima delle sconnessioni del fondo stradale. Sul punto, la Corte di Cassazione ha preso in esame, di recente, il caso di un pedone che, nel percorrere un ampio marciapiede, era inciampato nel dislivello di un tombino, riportando lesioni personali per le quali aveva chiesto un cospicuo risarcimento. Il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda del pedone, condannando il Comune al pagamento della somma di circa euro 48.000,00. La Corte di Appello aveva invece ribaltato la decisione, respingendo la richiesta risarcitoria, motivo per cui il pedone aveva proposto ricorso innanzi la Corte di Cassazione. Con la interessante ordinanza n. 11794 del 12 aprile 2022, la Corte ha posto in evidenza come il caso fortuito possa sostanziarsi anche nella mancanza di attenzione da parte dell’infortunato, il quale, pur in presenza di un ostacolo sul proprio cammino, ha pur sempre il dovere di osservare un adeguato livello di cautela per scongiurare ogni possibile pericolo evitando l’ingombro. Nel caso specie, le risultanze istruttorie avevano chiarito che l’infortunato era inciampato nel leggero dislivello di un tombino che insisteva su un ampio marciapiedi, ben visibile, ben illuminato dalla luce del mattino ed in assenza di condizioni atmosferiche particolari che potessero renderlo scivoloso. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso dell’infortunato, ha perciò affermato che la condotta del danneggiato aveva escluso ogni legame causale tra il fatto e l’evento dannoso, ed ha assolto la condotta dell’ente proprietario del manto stradale da qualsiasi addebito. I giudici di legittimità hanno chiarito che, secondo quanto dispone l’art. 1227 del codice civile, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.In definitiva la Corte ha chiarito che il collegamento causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso può essere interrotto ogni qual volta il pericolo possa essere avvertito e previsto con l’adozione delle normali cautele, in ossequio al dovere di autoresponsabilità che incombe su ogni cittadino. Pertanto, ogni qualvolta l’infortunato abbia omesso ogni cautela richiesta dalle circostanze di tempo e di luogo, inciampando a causa esclusivamente della propria disattenzione, si verifica la rottura del nesso eziologico di cui all’art. 2051 codice civile, e conseguentemente non è dovuto alcun risarcimento.
EMAIL PUBBLICITARIE NON AUTORIZZATE: E’ DOVUTO UN RISARCIMENTO?

Tempo di lettura: 4 minuti Capita agli utilizzatori dei servizi di posta elettronica di ricevere messaggi di contenuto pubblicitario, senza aver richiesto tali comunicazioni o aver mai fornito espressa autorizzazione al loro invio.La liceità o meno di una tale pratica commerciale è oggetto da anni di valutazioni contrastanti da parte della magistratura italiana, che da un lato riconosce come abusivo l’invio massivo ed indiscriminato di comunicazioni pubblicitarie, tanto da configurare un danno da spam, e dall’altro mostra resistenza ad accordare il risarcimento alle vittime se non nei casi più gravi. Per la giurisdizione domestica, la questione principale sembra essere quella dell’entità del danno che l’invio di email non desiderate arreca concretamente al destinatario, piuttosto che la sostanziale ed oggettiva scorrettezza di una pratica commerciale abusiva. Negli scorsi anni, all’atteggiamento possibilista di alcune corti di merito, che in materia di spamming hanno accordato un risarcimento come diretta conseguenza della sola ricezione di mail indesiderate (Giudice di Pace di Napoli 26.6.2004 e 29.09.2005; Tribunale di Terracina, sentenza n. 252 del 2006), ha fatto eco un orientamento più rigoroso, per il quale, ferma restando la illiceità della condotta commerciale, spetta al destinatario di provare il pregiudizio subito in concreto (Tribunale di Perugia, sentenza 24.2.2015). La pronuncia più rilevante nel panorama giudiziario italiano resta quella resa l’8.2.2017 (n. 3311) dalla Corte di Cassazione, a definizione di un giudizio avviato da un avvocato che protestava di aver ricevuto una decina di email indesiderate da una società di formazione.I giudici di legittimità avevano rigettato il ricorso del legale, condannandolo al pagamento delle spese di lite, sul presupposto che il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 15 del codice della privacy, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato). Secondo la Suprema Corte, anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., ragion per cui determina una lesione ingiustificabile del diritto non la sola violazione delle prescrizioni dell’art. 11 del medesimo codice, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.Per quel che appare più emblematico dell’approccio dei giudici italiani, in quell’occasione la Corte di Cassazione aveva finanche condannato l’avvocato ricorrente alla pena pecuniaria da responsabilità aggravata, a norma dell’art. 96 c.p.c., comma 3, “avendo il ricorrente abusato dello strumento processuale e dovendo per questo essere sanzionato. Egli ha percorso tutti i gradi di giudizio per un danno, indicato in Euro 360,00, ipotetico e futile, consistente al più in un modesto disagio o fastidio, senz’altro tollerabile, collegato al fatto, connesso ad un uso ordinario del computer, di avere ricevuto dieci email indesiderate, di contenuto pubblicitario, nell’arco di tre anni”. Sorprende però quanto l’approccio dei giudici di altri paesi europei sia radicalmente opposto e distante rispetto a quello dei loro colleghi italiani. In particolare merita di essere segnalata una recentissima sentenza resa il 16.3.2022 dal Tribunale di Heidelberg, che ha adottato un approccio radicalmente diverso, e soprattutto applica correttamente della normativa europea n. 679/2016, contenente il Regolamento Generale sulla Regolamentazione dei Dati (GDPR).La rilevanza della pronuncia è ancor maggiore, se si tiene conto del fatto che, per una singolare coincidenza, essa è stata resa sul ricorso di un professionista che aveva ricevuto due sole email pubblicitarie non autorizzate, relative – come nel caso italiano appena citato – ad un corso di formazione. A differenza di quanto accaduto nel nostro paese, a definizione del secondo grado di giudizio, il Tribunale Regionale tedesco ha condannato il mittente delle email indesiderate al pagamento, in favore dell’attore, di 25,00 euro, oltre interessi e spese legali. La somma di condanna è stata quantificata come congruo risarcimento del dolore e della sofferenza, determinato secondo il prudente apprezzamento del giudice, non essendo necessaria ulteriore prova, ed in mancanza della dimostrazione di un danno maggiore.I giudici tedeschi hanno evidenziato la violazione, da parte del convenuto, dell’art. 6 GDPR attraverso il trattamento inammissibile dei dati personali dell’attore, motivando la condanna con il richiamo alla disciplina dell’art. 82 del GDPR, secondo cui ha “diritto al risarcimento” chiunque abbia subito “danni materiali o immateriali” in conseguenza di una violazione della presente disciplina. Per il Tribunale regionale di Heidelberg, l’attore ha subito un danno perché ha dovuto occuparsi delle e-mail pubblicitarie indesiderate del convenuto, determinarne l’origine, chiedere informazioni al convenuto per mezzo di una lettera e cancellare le e-mail indesiderate, circostanze che non era necessario provare, essendo di comune esperienza. Di converso l’attore non aveva dato prova di un qualche effetto esterno della violazione a suo carico, comportante un rischio di danno all’immagine o alla professione o di effetto discriminatorio nei confronti dei terzi.
INCIDENTE CON UN CINGHIALE: CHI PAGA I DANNI ?

Tempo di lettura: 2 minuti Il continuo e massiccio incremento della popolazione dei cinghiali ha determinato il corrispondente aumento dei casi di incidenti stradali causati proprio dalla irruzione degli animali selvatici sulla sede stradale. L’aumentata incidenza dei sinistri ha prodotto, a sua volta, la crescita esponenziale del numero dei contenziosi giudiziari promossi dai proprietari dei veicoli danneggiati nello scontro per ottenere il conseguente risarcimento. Una delle questioni processuali più rilevanti, in questi contenziosi, per la corretta proposizione delle azioni giudiziarie, è quella della individuazione del soggetto tenuto al pagamento dei danni, posto che il pregiudizio patrimoniale causato da un animale selvatico deve essere pur sempre correlato ad un obbligo – non adempiuto – di custodia di questi. Gli enti pubblici coinvolti nella individuazione dell’ente responsabile dei danni sono le province e le regioni, e con la recente ordinanza n. 12912 del 13 aprile 2022 (pubblicata il 22 aprile 2022) la Corte di Cassazione ha avuto modo di fare chiarezza sulla questione. La decisione è stata provocata dal ricorso 6in sede di legittimità della Regione Abruzzo, condannata in entrambi i gradi di merito al risarcimento dei danni subiti da un’automobilista nello scontro della sua vettura con un cinghiale selvatico. La regione aveva impugnato la sentenza di appello, deducendo che la funzione del controllo della fauna selvatica era stata affidata con legge regionale alla provincia, nei cui soli confronti la danneggiata avrebbe dovuto rivolgere la domanda risarcitoria. Di differente avviso si è mostrata però la Suprema Corte, la quale ha invece precisato che, in linea con il suo indirizzo più recente, nell’azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell’art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti. Per i giudici di legittimità la Regione può però rivalersi sempre (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concretospettata, nell’esercizio di funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno.
VENDITA DI APPARTAMENTO NON ABITABILE: E’ RESPONSABILE IL NOTAIO?

Tempo di lettura: 2 minuti Dopo aver acquistato un appartamento con atto pubblico, aveva scoperto che l’immobile era difforme rispetto all’autorizzazione amministrativa, avendo un sottotetto che non era stato qualificato abitabile perché di altezza inferiore a quella minima. Aveva protestato perciò anche con il notaio, il quale aveva declinato ogni sua responsabilità, sostenendo che non sarebbe stato compito suo quello di verificare la abitabilità o meno dell’immobile. La questione era finita avanti al Tribunale civile di Nola, a cui era ricorso l’acquirente per chiedere la condanna della società venditrice a risarcirlo per il vizio del bene, ma anche del notaio per non aver svolto, prima dell’atto di acquisto, tutti i necessari controlli sulle sue caratteristiche. Il tribunale aveva accolto la richiesta dell’acquirente, ritenendo che il notaio era responsabile dell’accaduto per non essersi avveduto della mendacità delle dichiarazioni dell’alienante, e quindi rogando la compravendita di un immobile di 5,5 vani laddove la consistenza era diversa e minore, per cui aveva condannato entrambi i convenuti, in solido, a risarcirlo con il pagamento di Euro 7500 oltre interessi. Il notaio aveva quindi proposto appello, sostenendo che nel mandato ricevuto dal cliente non potevano essere comprese tutte quelle attività di indagine e di accertamento propedeutico all’esatto adempimento, nell’interesse delle parti e soprattutto del mandante. La Corte di Appello di Napoli aveva condiviso la tesi del notaio, rigettando la domanda di risarcimento rivolta nei suoi confronti, ma a questo punto era stato il cliente a rivolgersi alla Corte di Cassazione contro la sentenza di secondo grado. I giudici romani hanno così esaminato la vicenda, e con l’ordinanza n. 33439, depositata l’14 novembre 2022, hanno accolto il ricorso proposto dall’acquirente e rimesso il procedimento alla Corte di Appello di Napoli per una nuova decisione della vertenza su diverso criterio di valutazione. Nella ricostruzione critica della Cassazione, il giudice d’appello era incorso in errore per aver circoscritto l’obbligo del notaio di verifica e controllo, senza considerare il dovere informativo del notaio, che, secondo un recente orientamento, include anche l’obbligo di consiglio o di dissuasione, la cui omissione è fonte di responsabilità per violazione delle clausole generali di buona fede oggettiva e correttezza. È obbligo del notaio incaricato per il rogito di compravendita immobiliare e, in parte, obbligo di buona fede oggettiva, lo svolgimento delle attività accessorie e successive necessarie per conseguire il risultato voluto dalle parti e, in particolare, il compimento delle c.d. “visure” catastali e ipotecarie per individuare esattamente il bene e verificarne la libertà, salvo un espresso esonero. Quindi il notaio incaricato della redazione di un contratto di compravendita immobiliare deve compiere le attività preparatorie e successive necessarie per ottenere il risultato pratico voluto dalle parti, rientrando tra i suoi doveri quello di “individuare esattamente il bene” e di verificarne “la consistenza… e la conformità alle norme urbanistiche vigenti”.
Caduta in Piscina: Chi Paga i Danni?

Tempo di lettura: 3 minuti Brutta caduta per una signora mentre camminava a piedi nudi sul bordo della piscina ed ora chi paga i danni? La signora Tizia era andata alle terme e stava camminando lungo il bordo della piscina all’interno dello stabilimento, quando era caduta violentemente a terra subendo danni fisici e patrimoniali, per i quali aveva chiesto il risarcimento alla società che gestiva la struttura. Di fronte al rifiuto dell’azienda termale, la infortunata aveva agito innanzi al tribunale civile, che però aveva rigettato la domanda, affermando che la vittima della caduta aveva tenuto una condotta imprudente, percorrendo a piedi nudi il bordo della piscina, prevedibilmente e normalmente scivoloso, tanto più perché posto in all’aperto. La corte di appello aveva confermato poi la decisione, condividendo le stesse motivazioni esposte dal giudice di primo grado, e la infortunata aveva deciso così di rivolgere le sue doglianze ai giudici di legittimità. La vicenda ha consentito alla Corte di cassazione di chiarire, con l’ordinanza n. 21675 del 20 luglio 2023, l’importanza della valutazione del comportamento del danneggiato al fine di accogliere, ovvero di escludere, il diritto al risarcimento nei casi di danni da cose in custodia. Per i giudici di legittimità, quando il danneggiato tiene un atteggiamento incauto, è necessario stabilire se il danno sia stato comunque causato dalla cosa, o piuttosto dal comportamento della stessa vittima, o infine se abbiano contribuito entrambi i fattori, e tale indagine deve procedere alla individuazione della causa determinante dell’evento bilanciando i doveri di precauzione (di chi custodisca la cosa) e di cautela (a cui è tenuto l’infortunato). Quando la condotta del danneggiato si presenta come un contributo intenso e rilevante per la produzione dell’evento, rispetto al quale la cosa abbia costituito una mera occasione dell’infortunio, viene meno il rapporto causale con essa. In altri termini, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela a cui sono tenute tutte le persone, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione Italiana. Quanto più la situazione di pericolo (e di possibile danno) è prevedibile e può essere superata con l’adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più deve ritenersi rilevante l’apporto fornito all’infortunio dal comportamento imprudente dello stesso. Nei casi di imprudenza più grave, l’apporto della condotta dell’infortunato può costituire la causa principale di quanto accaduto, escludendo il suo diritto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti. Nel caso della signora Tizia, la violazione delle norme di sicurezza dettate per regolamentare le autorizzazioni amministrative costituiva indice di una possibile colpa imputabile al gestore o al custode della piscina, ma era apparsa meno intensa – sul piano del contributo causale – rispetto alla condotta incauta della vittima, talmente grave da apparire preponderante e decisiva nella ricostruzione della causa del fatto. Sia il tribunale che la corte di appello avevano svolto correttamente un bilanciamento tra la pericolosità della cosa (il bordo piscina umido) e gli obblighi di cautela dell’utente, concludendo entrambe per la sussistenza della pericolosità, ma, allo stesso tempo, per l’agevole prevedibilità e percepibilità della stessa, trattandosi di piscina all’aperto, e per la colpevole scelta di non premunirsi degli accorgimenti minimi per evitare di subirne gli effetti, camminando la vittima a piedi nudi. Il fatto che le norme in materia di sicurezza prevedano accorgimenti proprio assumendo l’ipotesi di simili passi, non significa che, potendosi verificare e percepire la scivolosità del terreno, l’utente sia in diritto in diritto di ignorare le ovvie cautele per evitarne le conseguenze, non predisponendo le quali può innescare autonomamente, la catena causale autonoma che esclude il suo diritto al risarcimento. Il ricorso della signora Tizia è stato perciò rigettato dalla Corte di Cassazione.
ATTENTI AL CANE: BASTA UN CARTELLO PER NON RISARCIRE?

Tempo di lettura: 3 minuti Tizio stava passeggiando tranquilamente con il proprio cane, ma all’improvviso vedeva scendere da un’auto un cane di razza pitbull, sfuggito al suo padrone Caio, che si dirigeva di gran carriera verso di lui. Dopo un attimo il pitbull aveva aggredito il cane di Tizio, il quale invano aveva tentato di staccarlo, finendo così per rimediare anche lui un morso alla mano che gli aveva procurato lesioni con una prognosi di guarigione di dieci giorni. Il Giudice di Pace aveva ritenuto il padrone del pitbull colpevole del reato di cui all’art. 590 c.p. e concesse le circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di Euro 180,00 di multa oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita liquidati in totali Euro 2000,00. Il Giudice monocratico del Tribunale di Reggio Emilia aveva poi confermato la sentenza nel successivo giudizio di impugnazione. Caio ha proposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione sostenendo che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che il suo cane fosse senza guinzaglio, e che era stata ingiustamente ritenuta credibile, per giungere alla sua condanna, la testimonianza resa da Tizio, che si era costituito parte civile. I giudici di legittimità, con la sentenza n. 21821 del 24.7.2023, hanno dichiarato però inammissibile il ricorso di Caio, precisando, con l’occasione, alcuni principi di assoluto interesse per le frequenti vicende simili a quella in esame. La Corte di Cassazione ha ricordato innanzitutto che, in tema di lesioni colpose, la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l’obbligo di controllare e custodire l’animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi, finanche all’interno dell’abitazione A fronte poi di un cane di una razza che, per mole ed indole si palesi più aggressivo, l’obbligo di custodia che grava sul detentore si attiva ancor più. Ne consegue che al proprietario del cane fa capo una posizione di garanzia per la quale egli è tenuto ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell’animale, considerando la razza di appartenenza ed ogni altro elemento rilevante. Per i giudici della Cassazione, il principio è corretto, ed è collegato alla posizione di garanzia che fa capo al detentore del cane, per la quale egli è tenuto ad adottare cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell’animale, pure oggi che è stata esclusa la rilevanza normativa della colpa collegata alla pericolosità dell’animale per l’abrogazione della lista delle razze pericolose, con una valutazione operata in concreto, Pertanto, la responsabilità del proprietario di un animale per le lesioni arrecate a terzi dall’animale medesimo, può essere affermata ove si accerti la violazione degli obblighi di custodia, ed al fine di escludere l’elemento della colpa, rappresentato dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia dell’animale pericoloso, non basta peraltro che questo si trovi in un luogo privato o recintato, ma è necessario che in tale luogo non possano introdursi persone estranee. La Corte ha ricordato, inoltre, come di recente avesse già ritenuto che un cartello “ATTENTI AL CANE” ben in vista al cancello d’ingresso della villetta non bastasse, da solo, per escludere la responsabilità del padrone per il comportamento violento del cane che aveva aggredito e cagionato lesioni ad un postino, in quanto egli dovesse comunque provvedere ad un’adeguata custodia, così da evitare la possibilità di danni alle persone. Nel caso in esame, peraltro, la circostanza che il cane fosse al guinzaglio risultava smentita dalle stesse dichiarazioni rese da Caio, il quale aveva affermato che il cane aveva il guinzaglio ma “se lo è trascinato dietro”.