Alterazione della targa con nastro adesivo: falsità materiale o illecito amministrativo?

La Cassazione ribadisce la configurabilità del reato e chiarisce l’applicazione delle attenuanti nel reato continuato La modifica temporanea di una targa automobilistica mediante l’applicazione di nastro adesivo nero costituisce falsità materiale in certificati amministrativi, integrando un reato distinto dall’illecito amministrativo previsto dal Codice della Strada. Con questa importante precisazione, la Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con sentenza n. 36532/2025 del 14 ottobre 2025, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per aver alterato i dati identificativi del proprio veicolo. Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte presenta una questione tutt’altro che infrequente nella prassi giudiziaria. Un automobilista aveva applicato del nastro adesivo di colore nero sulla targa del proprio veicolo, occultando parzialmente alcuni caratteri identificativi. Questa condotta aveva portato alla sua condanna per falsità materiale in certificati amministrativi, in applicazione degli articoli 477 e 482 del codice penale, oltre che per ulteriori reati commessi in continuazione. La vicenda processuale si era conclusa con una sentenza della Corte d’Appello di Lecce che aveva confermato la condanna rideterminando la pena. Il ricorrente aveva impugnato questa decisione in Cassazione articolando due motivi principali, entrambi respinti dalla Suprema Corte con argomentazioni che meritano un’analisi approfondita per la loro rilevanza pratica e interpretativa. Il primo motivo di ricorso si concentrava sulla natura giuridica della condotta contestata. Il ricorrente sosteneva che l’alterazione temporanea della targa mediante nastro adesivo, facilmente rimovibile, non avrebbe integrato il reato di falsità materiale in quanto la targa originaria sarebbe rimasta integra e perfettamente leggibile una volta rimosso il nastro. A sostegno di questa tesi, la difesa richiamava alcuni precedenti della Quinta Sezione Penale della Cassazione. La Corte ha respinto questo primo motivo richiamando l’orientamento consolidato in materia. Secondo la giurisprudenza di legittimità, il reato previsto dagli articoli 477 e 482 del codice penale si configura quando il privato modifica i dati identificativi contenuti in certificati o autorizzazioni amministrative. Nel caso specifico della targa automobilistica, la condotta punibile consiste nell’alterazione o contraffazione del documento che attesta l’immatricolazione del veicolo. Il ragionamento della Cassazione si fonda su una distinzione fondamentale tra l’illecito amministrativo e il reato penale. L’articolo 100, comma 12, del Codice della Strada sanziona dal punto di vista amministrativo la circolazione con veicolo munito di targa contraffatta o non propria, quando il conducente non sia l’autore della contraffazione. Si tratta di una violazione posta a tutela della funzione di identificazione del veicolo in circolazione. Il reato di falsità materiale, invece, è posto a tutela della pubblica fede e della funzione certificativa della targa quale documento che attesta la regolarità e legittimità dell’immatricolazione del veicolo stesso. La Suprema Corte ha precisato che questa delimitazione dei confini tra illecito amministrativo e reato penale opera secondo un criterio basato sul bene giuridico tutelato. Mentre l’illecito amministrativo della circolazione con targa contraffatta è funzionale all’identificazione del veicolo che circola sulla strada, il reato di contraffazione o alterazione di targa tutela la pubblica fede e la connessa funzione certificativa della targa, intesa come documento che rileva non solo ai fini della mera circolazione ma anche ai fini della regolarità e legittimità dell’immatricolazione. Particolarmente interessante è l’argomentazione con cui la Cassazione ha respinto la tesi difensiva secondo cui l’alterazione sarebbe stata meramente transitoria. Il fatto che il nastro adesivo fosse facilmente rimovibile e che la targa originaria rimanesse integra sotto l’alterazione non esclude la configurabilità del reato. La modifica temporanea dei dati identificativi attraverso l’occultamento di alcuni caratteri è stata ritenuta sufficiente a integrare la fattispecie criminosa, in quanto idonea a eludere l’identificazione del veicolo ed eliminata solo con la rimozione del nastro adesivo. La Corte ha inoltre sottolineato che i precedenti giurisprudenziali richiamati dalla difesa non erano pertinenti alla fattispecie in esame. In particolare, la sentenza Schiesaro del 2010 riguardava un caso di parziale copertura della targa mediante applicazione di elastico nero sulla parte inferiore, mentre la sentenza Minonzio del 2012 affrontava la questione della modifica dei dati identificativi mediante apposizione di strisce di nastro adesivo di colore nero. Quest’ultimo precedente, peraltro, aveva rigettato il ricorso con cui si contestava la sussistenza del reato, confermando quindi l’orientamento restrittivo sulla configurabilità della falsità materiale. Il secondo motivo di ricorso presentava profili di maggiore complessità tecnica riguardando l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62, numero 6, del codice penale. Questa disposizione riconosce un’attenuante a favore di chi, prima del giudizio, ha riparato interamente il danno mediante risarcimento di esso. Nel caso in esame, la condotta dell’imputato era stata ritenuta collegata dal vincolo della continuazione con altri reati, in particolare una rapina pluriaggravata. Il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avesse erroneamente applicato la circostanza attenuante della riparazione del danno solo al reato più grave, senza estenderne gli effetti ai reati satellite posti in continuazione. Su questo secondo motivo, la Cassazione ha richiamato il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Chiodi del 2008. Secondo tale orientamento, nel reato continuato la circostanza attenuante della riparazione del danno deve essere valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato dal vincolo della continuazione. In altri termini, i reati unificati dalla continuazione conservano la loro piena autonomia in ordine alla valutazione della circostanza attenuante. Questo principio si inserisce nel più ampio quadro della disciplina del concorso formale di reati e del reato continuato. Secondo la giurisprudenza consolidata, qualora la condotta riparatoria intervenga in riferimento soltanto ad alcuni dei singoli fatti di reato unificati dal vincolo della continuazione, gli effetti dell’attenuante si producono sulla pena base quando il risarcimento riguarda il reato più grave, e sugli aumenti di pena quando riguarda i reati satellite. La Corte ha precisato che questo criterio discende direttamente dalla sentenza Chiodi delle Sezioni Unite, la quale ha affermato il principio secondo cui nel reato continuato la circostanza attenuante della riparazione del danno va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato dal medesimo disegno criminoso. Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Lecce aveva correttamente applicato questi principi. Avendo riscontrato che la condotta riparatoria dell’imputato era intervenuta soltanto con riferimento al reato più grave di rapina

Reddito di cittadinanza: la Cassazione conferma che omettere la propria attività imprenditoriale è reato

La Terza Sezione Penale chiarisce i confini del dolo nelle false dichiarazioni per ottenere prestazioni assistenziali La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 498 del 14 maggio 2025, ha fornito un importante contributo interpretativo in materia di false dichiarazioni per l’ottenimento del reddito di cittadinanza. La decisione, emanata dalla Terza Sezione Penale, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro una condanna per violazione dell’articolo 7, comma 1, del decreto legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni nella legge n. 26 del 2019. La vicenda trae origine da una condanna inflitta dal Tribunale di Livorno nel novembre 2022 e successivamente confermata dalla Corte d’appello di Firenze nel dicembre 2024. Il caso riguardava un soggetto che, nel presentare la domanda per ottenere il reddito di cittadinanza, aveva omesso di comunicare informazioni essenziali relative alla propria situazione lavorativa e patrimoniale. In particolare, l’interessato aveva taciuto di essere titolare di un’impresa di compravendita di autoveicoli con un inventario di ben trentadue veicoli, oltre a non aver indicato correttamente la propria residenza familiare effettiva. La normativa sul reddito di cittadinanza impone ai richiedenti obblighi dichiarativi particolarmente stringenti, proprio perché il beneficio è destinato esclusivamente a chi si trova in condizioni di effettivo bisogno economico. La legge richiede che le informazioni fornite siano non solo veritiere, ma anche complete, per consentire all’amministrazione di valutare correttamente la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge. Il ricorso presentato davanti alla Cassazione si fondava essenzialmente su due argomenti. Il primo contestava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sostenendo che le omissioni informative fossero frutto di semplice negligenza e non di un intento doloso. Il secondo motivo lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l’inadeguatezza della pena irrogata rispetto alla gravità del fatto. La Suprema Corte ha respinto entrambe le censure con argomentazioni che meritano particolare attenzione. Quanto al primo profilo, i giudici di legittimità hanno chiarito che per integrare il reato previsto dall’articolo 7 del decreto legge n. 4 del 2019 è sufficiente il dolo generico. Questo significa che non occorre dimostrare una particolare intenzione fraudolenta o un piano premeditato di inganno, ma è sufficiente che il soggetto sia consapevole dell’obbligo di fornire informazioni complete e veritiere e che, ciononostante, ometta volontariamente di comunicare dati rilevanti. La Corte ha sottolineato come l’incompletezza delle dichiarazioni non possa essere considerata una semplice svista quando riguarda elementi così significativi come la titolarità di un’attività imprenditoriale con un consistente parco veicoli. In questi casi, l’omissione non può essere attribuita a ignoranza o a una comprensione errata dei propri doveri dichiarativi, poiché si tratta di informazioni che il richiedente conosce perfettamente e che riguardano la sua stessa situazione personale ed economica. Particolarmente significativo è il passaggio in cui la sentenza evidenzia che l’interessato non poteva non essere consapevole dell’obbligo di dichiarare la propria posizione lavorativa effettiva. La consapevolezza dell’esistenza di un dovere di completezza informativa, unita alla volontaria omissione di dati essenziali, configura quella rappresentazione della doverosità delle informazioni che integra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Sul secondo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la Cassazione ha ritenuto che la decisione della Corte territoriale fosse adeguatamente motivata e conforme ai principi giurisprudenziali consolidati. La presenza di precedenti penali a carico del condannato, unitamente alla gravità del comportamento tenuto, giustificava l’esclusione del beneficio delle circostanze attenuanti. Inoltre, la pena applicata risultava contenuta nel minimo edittale previsto, con un aumento per effetto della recidiva reiterata che la Corte ha ritenuto proporzionato alla situazione concreta. Questa pronuncia si inserisce in un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, che ha più volte ribadito la necessità di un rigoroso rispetto degli obblighi dichiarativi in materia di prestazioni assistenziali. Il reddito di cittadinanza, essendo una misura di sostegno economico finanziata dalla collettività, deve essere effettivamente destinato a chi ne ha diritto secondo i criteri stabiliti dal legislatore. La falsità o l’incompletezza delle dichiarazioni non solo lede il corretto funzionamento del sistema di welfare, ma sottrae risorse che potrebbero essere destinate a chi versa in condizioni di effettivo bisogno. Le implicazioni pratiche di questa sentenza sono rilevanti per chiunque presenti o abbia presentato domanda per il reddito di cittadinanza o altre prestazioni assistenziali. La decisione conferma che non è sufficiente limitarsi a compilare i moduli richiesti in modo superficiale o incompleto, sperando che eventuali omissioni possano essere giustificate come errori in buona fede. Al contrario, chi omette di dichiarare elementi sostanziali della propria situazione economica o lavorativa si espone a conseguenze penali che possono comportare la reclusione, oltre all’obbligo di restituire le somme indebitamente percepite. La sentenza evidenzia inoltre come il sistema di controlli sulle dichiarazioni sostitutive sia ormai sufficientemente articolato da permettere l’emersione delle situazioni fraudolente. Le verifiche incrociate tra diverse banche dati pubbliche consentono di individuare discrepanze e omissioni che, quando riguardano elementi essenziali come la titolarità di attività d’impresa, difficilmente possono sfuggire agli accertamenti dell’autorità competente. Un altro aspetto degno di nota è il rilievo che la Corte attribuisce alla completezza informativa. Non basta che le informazioni fornite siano tecnicamente veritiere: esse devono anche essere complete, nel senso che non possono essere omessi dati rilevanti per la valutazione dei requisiti di accesso al beneficio. Questa interpretazione estensiva dell’obbligo dichiarativo risponde all’esigenza di garantire che l’amministrazione disponga di tutti gli elementi necessari per una corretta istruttoria della pratica. La condanna alle spese processuali e al pagamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dall’articolo 616 del codice di procedura penale, completa il quadro sanzionatorio. Questa misura accessoria, che si aggiunge alla pena detentiva, sottolinea ulteriormente la gravità con cui l’ordinamento considera le violazioni degli obblighi dichiarativi in materia assistenziale. Per i cittadini che si trovano in difficoltà economiche e intendono accedere a forme di sostegno pubblico, questa sentenza rappresenta un monito chiaro: è fondamentale fornire informazioni complete e veritiere fin dalla presentazione della domanda. Qualsiasi dubbio sulla necessità di dichiarare determinati elementi dovrebbe essere risolto optando per la massima trasparenza, eventualmente avvalendosi di una consulenza professionale qualificata. Per le imprese e i professionisti,