La Conversione Religiosa Giustifica Addebito della Separazione
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Dopo alcuni anni di matrimonio, Tizia e Caio avevano deciso di separarsi, e ciascuno aveva imputato all’altro la colpa del fallimento dell’unione.

Caio aveva chiesto che la colpa della separazione fosse addebitata alla moglie, poiché lei aveva abbracciato una fede religiosa diversa, le cui pratiche l’avevano distratta da ogni attenzione e cura verso il marito e la famiglia.

La concomitanza tra la conversione religiosa ed il mutamento del comportamento di Tizia era stata confermata in aula da un testimone.

Il Tribunale di Napoli aveva rigettato, però, la richiesta di addebito della separazione a danno della moglie, e la decisione era stata confermata dalla Corte di Appello, a cui aveva fatto ricorso il marito.

Per i giudici di merito, il mutamento di fede religiosa e la conseguente partecipazione alle pratiche collettive del nuovo culto, corrispondeva all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost., non potendo di per sé considerarsi come ragione di addebito della separazione, sempre che l’adesione al nuovo credo religioso non si traduca in comportamenti incompatibili con i concorrenti doveri di coniuge previsti dall’art. 143 c.c., in tal modo determinando una situazione di improseguibilità della convivenza.

Avevano poi affermato che la violazione dei doveri coniugali ascritta a Tizia, in termini di atteggiamenti di indifferenza verso il marito (tanto da non occuparsi più delle faccende domestiche), non aveva trovato adeguata conferma nella deposizione testimoniale raccolta,

Secondo i giudici del merito, anche la scelta di Tizia di dedicarsi alla congregazione religiosa o di trascorrere tempo davanti al computer non aveva avuto un’effettiva incidenza causale, perché si era inserita nel complessivo progetto di vita di “separati in casa” della coppia.

Caio ha proposto però ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo che venisse riconosciuta la contrarietà alla legge della decisione di appello, ed ottenendo il ribaltamento della decisione assunta – sul punto – nei due gradi di merito con l’ordinanza n. 19502 del 10.7.2023.

Per i giudici della Cassazione, non può esservi dubbio sul fatto che la dichiarazione di addebito della separazione implica la prova che l’irreversibile crisi coniugale debba ricollegarsi in via esclusiva al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o entrambi i coniugi.

Deve essere perciò dimostrato il rapporto di causa ad effetto tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza; ragion per cui, in caso di mancato raggiungimento della prova in relazione al fatto che il comportamento contrario ai predetti doveri tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, non è possibile pronunciare la separazione con addebito.

Il giudice di merito, tuttavia, se ritiene che una determinata condotta, che di per sé risulterebbe in violazione dei doveri conseguenti al matrimonio, non è idonea a giustificare l’addebito della separazione ai sensi dell’art. 151 c.c., essendo non la causa del fallimento dell’unione matrimoniale ma la conseguenza di una situazione di crisi già irrimediabilmente in atto, è tenuto a basare un tale convincimento sulla descrizione dettagliata della situazione di vita creatasi fra i coniugi prima di quella condotta e della prova della crisi già esplora in precedenza.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli aveva fatto riferimento ad una situazione di “reciproca sostanziale autonomia di vita”, testimoniata dal fatto che i due coniugi dormivano separati, ma non aveva spiegato se quella scelta era stata antecedente o successiva alla conversione religiosa della moglie.

La Corte di Cassazione ha rilevato, inoltre, che il teste ascoltato dal tribunale aveva riferito degli atteggiamenti di disaffezione costituiti dal fatto che Tizia si era rifiutata di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato, ma ha raccontato pure di continue denigrazioni.

Questo atteggiamento, che era stato ignorato dalla Corte di merito, ove fosse consistito in un comportamento moralmente violento, doveva essere considerato incompatibile con gli obblighi di assistenza morale e materiale e collaborazione nell’interesse della famiglia a cui ciascuno dei coniugi è tenuto ex art. 143, comma 2, c.c., tanto da assumere una incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi causa eventualmente preesistente di crisi del rapporto coniugale.

La Suprema Corte ha cassato perciò la sentenza impugnata, rimettendo gli atti alla Corte di Appello di Napoli per una nuova decisione rispettosa dei principi enunciati.



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