Operazioni Inesistenti e Onere della Prova: la Cassazione fa Chiarezza

La Sezione Tributaria definisce i criteri per distinguere tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti e ripartisce l’onere probatorio tra Fisco e contribuente La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 29478/2025 della Sezione Tributaria, pubblicata il 7 novembre 2025, interviene su una questione cruciale per imprese e professionisti: come si dimostra l’inesistenza delle operazioni ai fini fiscali e chi deve provare cosa? La pronuncia nasce da un contenzioso relativo ad un avviso di accertamento per IRPEF, IVA e IRAP riferito all’anno d’imposta 2008, in cui l’Agenzia delle Entrate contestava a una società di costruzioni l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, emesse da presunte società “cartiere”. La Questione delle Operazioni Inesistenti Il caso riguardava una società operante nel settore delle costruzioni che aveva ricevuto fatture da fornitori successivamente risultati privi di struttura operativa, dipendenti e sede reale. L’Amministrazione finanziaria aveva quindi disconosciuto la detrazione IVA e la deducibilità dei costi relativi a tali operazioni, qualificandole come inesistenti. La contribuente si era opposta sostenendo che le opere fossero state effettivamente realizzate e che l’avviso di accertamento fosse comunque tardivo. Il giudice di appello aveva accolto il ricorso della società, ma la Cassazione ha censurato la decisione per un vizio fondamentale: il mancato chiarimento sulla natura delle operazioni contestate. La Distinzione Fondamentale: Inesistenza Oggettiva vs Soggettiva La Suprema Corte ribadisce un principio essenziale che ogni imprenditore e professionista deve conoscere: esistono due tipologie di operazioni inesistenti, ciascuna con un diverso regime probatorio. Le operazioni oggettivamente inesistenti sono quelle che non sono mai avvenute nella realtà materiale. Si pensi al caso di fatture emesse per lavori mai eseguiti o merci mai consegnate. In questa ipotesi, secondo la giurisprudenza consolidata richiamata dalla sentenza (Cass. n. 17619/2018), una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostra l’oggettiva inesistenza delle operazioni, ad esempio provando che l’emittente è una società “cartiera” o “fantasma” priva di struttura operativa, spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Tale onere non può ritenersi assolto mediante la semplice esibizione delle fatture, la regolarità formale delle scritture contabili o l’utilizzo di mezzi di pagamento tracciabili, elementi che vengono comunemente utilizzati proprio per far apparire reale un’operazione fittizia. Le operazioni soggettivamente inesistenti sono invece quelle realmente avvenute, ma con soggetti diversi da quelli indicati in fattura. Ad esempio, i lavori sono stati effettivamente eseguiti, ma non dalla società fatturante bensì da terzi non dichiarati. In questa situazione, la Cassazione richiama la propria giurisprudenza (Cass. n. 9851/2018 e n. 27555/2018) precisando che l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta. Tale prova può essere fornita anche in via presuntiva, ma deve basarsi su elementi oggettivi e specifici, dimostrando che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza propria della sua qualità professionale, della sostanziale inesistenza del contraente. Qualora l’Amministrazione assolva questo onere probatorio, grava sul contribuente la prova contraria di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto per non essere coinvolto in un’operazione fraudolenta. Non assumono rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi. Il Principio Europeo della Neutralità dell’IVA La Corte richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in particolare le sentenze Glencore Agriculture Hungary (C-189/18) e SC C.F. SRL (C-430/19), che sanciscono un principio cardine: il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA l’imposta versata a monte costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell’IVA, che garantisce la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche. Come affermato dalla Corte di Giustizia il 16 ottobre 2019, tale diritto, previsto dagli articoli 167 e seguenti della direttiva IVA, costituisce parte integrante del meccanismo dell’IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia, la lotta contro frodi ed evasione fiscale costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva IVA. Pertanto, è compito delle autorità e dei giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione quando sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che tale diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente. Il beneficio può essere negato a un soggetto passivo solamente qualora si dimostri, sulla base di elementi oggettivi, che il destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode relativa all’IVA. La Questione del Raddoppio dei Termini Un aspetto rilevante della pronuncia riguarda la decadenza dal potere accertativo in relazione all’IRAP. La Cassazione accoglie parzialmente il ricorso incidentale della contribuente, affermando che per l’IRAP non può operare il raddoppio dei termini di accertamento previsto in caso di violazioni tributarie che integrino fatti penalmente rilevanti. Il motivo è semplice ma decisivo: l’IRAP non è un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali. Di conseguenza, secondo il principio affermato dalla Corte (Cass. n. 10483/2018), il raddoppio dei termini non può trovare applicazione. Per quanto riguarda invece IRPEF e IVA, fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 128/2015 (2 settembre 2015), i termini per l’accertamento previsti dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 57 del D.P.R. n. 633/1972 erano raddoppiati esclusivamente sulla base dell’astratta sussistenza dei presupposti in presenza dei quali si configura l’obbligo di denuncia penale, conformemente a quanto stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 247/2011. Nel caso di specie, poiché l’avviso di accertamento era stato notificato il 1° luglio 2015, prima dell’entrata in vigore della novella normativa che ha modificato la disciplina del raddoppio richiedendo l’effettiva trasmissione della notizia di reato entro i termini ordinari, continuava ad applicarsi il regime precedente. Gli Errori del Giudice di Appello La Cassazione censura la decisione del giudice di secondo grado per due profili fondamentali. In primo luogo, la sentenza non chiarisce se le operazioni contestate fossero qualificate come oggettivamente o soggettivamente inesistenti, operazione preliminare indispensabile da cui discendono conseguenze probatorie radicalmente diverse. In secondo luogo, il giudice ha assertivamente escluso la natura di “cartiere” delle società fatturanti senza dare conto del compendio probatorio presente agli atti, che secondo quanto

Indagini bancarie senza autorizzazione: la Cassazione conferma la validità dell’accertamento fiscale

La Corte Suprema ribadisce che l’assenza di autorizzazione formale non rende inutilizzabili i dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria, salvo prova di concreto pregiudizio per il contribuente Con l’ordinanza n. 27128 del 9 ottobre 2025, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha affrontato una questione di grande rilevanza pratica per imprese e professionisti sottoposti a verifiche fiscali: la legittimità dell’utilizzo di dati bancari acquisiti dalla Guardia di Finanza in assenza della formale autorizzazione del Comandante Regionale, prevista dall’art. 32, comma 1, n. 7, del DPR 600/1973 e dall’art. 51, comma 2, n. 7, del DPR 633/1972. La vicenda trae origine da un accertamento fiscale relativo all’anno di imposta 2004, emesso nei confronti di una società operante nel settore della compravendita immobiliare. L’Amministrazione finanziaria, attraverso due distinte verifiche della Guardia di Finanza, aveva ricostruito ricavi non dichiarati per complessivi oltre cinquecentomila euro, recuperando così IRES, IRAP e IVA non versate, oltre a interessi e sanzioni. La peculiarità del caso risiedeva nel fatto che le indagini finanziarie avevano riguardato non soltanto i conti intestati direttamente alla società contribuente, ma anche conti formalmente intestati ad altre società, risultati però nella disponibilità effettiva dei soci attraverso deleghe operative. La società ha impugnato l’accertamento fino in Cassazione, sollevando due contestazioni fondamentali. La prima riguardava proprio la legittimità dell’estensione delle indagini finanziarie a conti intestati formalmente ad altri soggetti giuridici, operazione compiuta senza la prescritta autorizzazione del vertice territoriale della Guardia di Finanza. La seconda censura concerneva invece una presunta duplicazione di materia imponibile, sostenendo che versamenti bancari non giustificati fossero stati erroneamente cumulati con i ricavi già accertati derivanti dalle compravendite immobiliari. Il principio di diritto sulla mancanza di autorizzazione per le indagini finanziarie Sul primo motivo di ricorso, la Suprema Corte ha rigettato le doglianze della contribuente confermando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato. Il Collegio ha ribadito che la mancanza dell’autorizzazione prevista dalle norme tributarie per l’acquisizione di dati bancari non determina automaticamente l’inutilizzabilità delle informazioni così raccolte. Questo principio trova fondamento nella natura stessa dell’autorizzazione richiesta, che la Cassazione qualifica come atto avente funzione meramente organizzativa interna all’Amministrazione, privo di natura impositiva. Come già affermato dalle sentenze nn. 22754 del 2020, 13353 del 2018, 1306 del 2023 e 4853 del 2024, l’assenza di autorizzazione può condurre all’inutilizzabilità dei dati acquisiti soltanto in presenza di due condizioni tassative: deve essere dimostrato un concreto pregiudizio subito dal contribuente, oppure deve risultare violato un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio. Nel caso esaminato, la società ricorrente non aveva allegato né dimostrato alcuna di queste circostanze. La Corte ha inoltre precisato che in materia tributaria non trova applicazione il principio, proprio del processo penale, dell’inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita. Questa distinzione deriva dall’autonomia del procedimento di accertamento fiscale rispetto al procedimento penale, come sancito dagli artt. 2 e 654 del codice di procedura penale e dall’art. 220 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice. Quest’ultima norma impone il rispetto delle garanzie procedurali penalistiche soltanto quando, nel corso di attività ispettive amministrative, emergano indizi di reato, ma esclusivamente ai fini dell’applicazione della legge penale, non già ai fini tributari. Particolarmente significativo è il richiamo operato dalla sentenza alla recente giurisprudenza della Corte EDU, con specifico riferimento alla pronuncia del 6 febbraio 2025 nel caso Italgomme Pneumatici s.r.l. contro Italia. La Cassazione ha chiarito che il principio affermato nella presente controversia non entra in conflitto con i principi espressi dalla giurisprudenza europea, come già precisato dalle ordinanze nn. 22249, 22261 e 22263 del 2025. Quanto alla prospettata questione di legittimità costituzionale, fondata sulla presunta disparità di trattamento tra contribuente sottoposto ad accertamento tributario e imputato in sede penale, la Corte ne ha escluso la non manifesta infondatezza proprio in ragione della strutturale autonomia dei due procedimenti, ribadita anche dalla recentissima sentenza n. 13939 del 2025. La presunzione legale sui movimenti bancari e l’onere della prova analitica Il secondo motivo di ricorso è stato dichiarato inammissibile per genericità. La società contribuente aveva contestato l’esistenza di una doppia imposizione, sostenendo che versamenti bancari non giustificati fossero stati erroneamente sommati ai ricavi già ricostruiti attraverso l’analisi delle compravendite immobiliari documentate. Tuttavia, come rilevato dai giudici di legittimità, il ricorso si era limitato a evocare in termini generici l’esistenza di una presunta prova documentale idonea a dimostrare la natura non commerciale dei versamenti, senza fornire puntuali riferimenti né all’avviso di accertamento né al processo verbale di constatazione. La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire un principio fondamentale in materia di accertamento basato su indagini finanziarie, già espresso dalla sentenza n. 13112 del 2020. Quando l’Amministrazione finanziaria utilizza la presunzione legale prevista dall’art. 32 del DPR n. 600 del 1973, qualificando come ricavi non dichiarati i movimenti bancari non giustificati, il contribuente che intenda contestare tale qualificazione deve fornire una controprova analitica rigorosa, con specifica indicazione della riferibilità di ogni singolo versamento bancario a operazioni già accertate o comunque non imponibili. Nel caso esaminato, la contribuente aveva semplicemente richiamato il fatto che la stessa Guardia di Finanza, nel processo verbale di constatazione, aveva inizialmente classificato alcuni versamenti come non riconducibili a operazioni commerciali. La Corte ha però osservato che rientra nella competenza e nella sfera di discrezionalità dell’Ufficio finanziario, nella fase di definizione dell’avviso di accertamento, la valutazione autonoma degli elementi individuati nel verbale ai fini della rettifica delle dichiarazioni. La mera circostanza che alcuni versamenti fossero stati inizialmente esclusi in sede di verifica non esonera il contribuente dall’onere di fornire, in sede contenziosa, una dimostrazione analitica e specifica della natura non imponibile di ciascuna movimentazione contestata. Implicazioni operative per imprese e professionisti La pronuncia in commento offre importanti indicazioni pratiche per chi si trova coinvolto in procedimenti di accertamento fiscale basati su indagini finanziarie. In primo luogo, emerge chiaramente che la contestazione formale della mancanza di autorizzazione per l’accesso ai dati bancari costituisce, nella generalità dei casi, una difesa inefficace. Per superare la presunzione di legittimità dell’attività accertativa, il contribuente deve invece concentrarsi sulla dimostrazione di un concreto pregiudizio subito a causa dell’irregolarità procedurale, oppure