Mediazione Civile: I Vantaggi Fiscali che Molti Professionisti e Clienti Ancora Ignorano

Crediti d’imposta, esenzioni e rimborsi fino a 1.718 euro: la guida completa ai benefici economici previsti dalla Riforma Cartabia La mediazione civile rappresenta ormai da tempo un’alternativa efficace alla lite giudiziaria, offrendo tempi più rapidi e minori costi processuali. Tuttavia, ciò che ancora sfugge a molti professionisti e assistiti è che la mediazione non è semplicemente una scelta conveniente: è diventata una vera e propria opportunità di risparmio fiscale, grazie a un articolato sistema di incentivi economici introdotti dalla Riforma Cartabia e disciplinati dal decreto legislativo n. 149/2022. Questo articolo si rivolge agli avvocati che hanno assistito i propri clienti in procedure di mediazione e alle parti che vi hanno partecipato, per illustrare in dettaglio come accedere ai benefici fiscali previsti dalla legge e massimizzare il recupero delle spese sostenute. Il Credito d’Imposta sull’Indennità: Un Vantaggio Anche Senza Accordo Il primo e più importante beneficio riguarda il credito d’imposta riconosciuto sull’indennità di mediazione, ossia il compenso dovuto all’organismo di mediazione per la gestione della procedura. Si tratta di un meccanismo che premia non solo l’esito positivo della mediazione, ma anche il semplice tentativo di risoluzione pacifica della controversia. Quando la mediazione si conclude con un accordo tra le parti, il legislatore riconosce un credito d’imposta pari all’intero importo dell’indennità versata, con un limite massimo di 600 euro. Questo significa che, per le mediazioni il cui costo si mantiene entro tale soglia (la stragrande maggioranza delle procedure obbligatorie), l’indennità viene di fatto completamente recuperata attraverso il sistema fiscale. La vera novità, però, sta nell’articolo 20, comma 4 del decreto legislativo n. 28/2010, come modificato dalla Riforma Cartabia. Anche quando la mediazione non raggiunge un accordo, lo Stato riconosce un credito d’imposta ridotto della metà, fino a un massimo di ben 600 euro (fino a 300 euro per le spese di mediazione e ad altri 300 euro per il compenso del legale). In pratica, chi tenta la via della mediazione, anche senza successo, recupera comunque metà del costo sostenuto per l’indennità. Questo meccanismo è straordinariamente importante perché elimina il principale rischio economico percepito dalla mediazione: anche nel peggiore degli scenari, una quota significativa della spesa viene recuperata. Per i professionisti che assistono i clienti nelle procedure di mediazione, questo rappresenta un argomento concreto per rassicurare chi teme di “sprecare” risorse in un tentativo infruttuoso. L’Assistenza Legale Viene Rimborsata: Il Credito sui Compensi Professionali Un secondo incentivo, spesso sottovalutato, riguarda direttamente il compenso dell’avvocato che assiste la parte nella mediazione. Anche in questo caso, la legge prevede un credito d’imposta specifico, che si aggiunge a quello sull’indennità. Nelle ipotesi di mediazione obbligatoria per legge o delegata dal giudice, ciascuna parte può beneficiare di un credito d’imposta sul compenso corrisposto al proprio difensore, sempre nel limite massimo di 600 euro. Si tratta di un riconoscimento importante del valore dell’assistenza tecnica qualificata nelle procedure di mediazione, che spesso rappresenta un fattore decisivo per il raggiungimento di soluzioni equilibrate e sostenibili. Questo beneficio si applica esclusivamente quando si raggiunge un accordo in mediazione e nelle specifiche ipotesi previste dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 28/2010 (mediazione obbligatoria) o quando la mediazione è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5-quinquies del medesimo decreto. Per i professionisti, ciò significa che la parcella per l’assistenza in mediazione può essere sostanzialmente ridotta o, in alcuni casi, completamente assorbita dal credito spettante al cliente. La Cumulabilità dei Benefici: Fino a 1.718 Euro di Recupero I crediti d’imposta appena descritti non sono alternativi tra loro, ma possono cumularsi. Quando una mediazione obbligatoria o delegata dal giudice si conclude con successo, la parte può sommare i seguenti benefici: Il credito sull’indennità di mediazione, fino a 600 euro, copre il costo della procedura. A questo si aggiunge il credito sul compenso dell’avvocato, anch’esso fino a 600 euro, che riduce significativamente l’esborso per l’assistenza legale. Se poi la mediazione ha permesso di definire una causa già pendente in tribunale, si aggiunge il rimborso del contributo unificato versato per il giudizio, che può arrivare fino a 518 euro a seconda del valore della controversia. Sommando questi tre elementi, il recupero massimo teorico raggiunge 1.718 euro per ciascuna parte. Si tratta di un ammontare tutt’altro che simbolico, che in molti casi supera l’effettivo costo sostenuto per la mediazione, trasformando la procedura non solo in un’alternativa economicamente conveniente al processo, ma in una scelta che può generare un effettivo vantaggio economico netto. Questo aspetto è particolarmente rilevante per i professionisti che devono consigliare i propri assistiti sulla strategia processuale da adottare. La mediazione, sostenuta da questi incentivi, rappresenta spesso la scelta più razionale anche dal puro punto di vista del calcolo costi-benefici, senza considerare i vantaggi in termini di rapidità e certezza della soluzione. Le Esenzioni Fiscali per le Controversie di Alto Valore Oltre ai crediti d’imposta diretti, la legge prevede significative esenzioni fiscali che diventano particolarmente rilevanti nelle controversie di valore economico elevato. Si tratta di benefici che, pur essendo meno visibili nell’immediato, possono tradursi in risparmi di migliaia di euro. L’articolo 17, comma 3 del decreto legislativo n. 28/2010 stabilisce che gli accordi raggiunti in mediazione sono esenti dall’imposta di registro per la parte di valore non eccedente i 100.000 euro. Questa disposizione ha un impatto significativo soprattutto nelle mediazioni che riguardano trasferimenti immobiliari, divisioni ereditarie, transazioni commerciali o accordi societari. L’imposta di registro ordinaria, che si applica in percentuale sul valore dell’atto, può variare dal 3% al 9% a seconda della natura del bene o del diritto trasferito. Su un accordo di mediazione che definisce diritti del valore di 100.000 euro, l’esenzione può quindi tradursi in un risparmio diretto compreso tra 3.000 e 9.000 euro, ben superiore ai crediti d’imposta diretti precedentemente descritti. Inoltre, tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi al procedimento di mediazione, nonché il verbale di accordo, sono esenti dall’imposta di bollo ai sensi dello stesso articolo 17, comma 3. Questo significa che l’intera procedura beneficia di un regime fiscale di completo favore, volto a incentivare il ricorso alla giustizia alternativa. Il Regime di Esenzione Totale per gli Atti
Mutuo con tasso variabile indeterminato: la Cassazione chiarisce i criteri per il tasso sostitutivo

Quando il contratto non specifica correttamente il parametro di riferimento, interviene la legge con criteri precisi. Analisi dell’ordinanza n. 26532/2025 La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26532 depositata il 1° ottobre 2025, è tornata a pronunciarsi su una questione di fondamentale importanza per migliaia di mutuatari italiani: cosa accade quando un contratto di mutuo bancario prevede un tasso di interesse variabile indeterminato o indeterminabile? La risposta della Suprema Corte fornisce un quadro chiaro dei criteri da applicare e chiarisce alcuni dubbi interpretativi ricorrenti. La vicenda giudiziaria La controversia trae origine da un contratto di mutuo ipotecario stipulato nel 1995 tra una mutuataria e un istituto di credito. La cliente, dopo aver cessato i pagamenti nel 2003, aveva proposto un’azione giudiziaria per ottenere la rideterminazione del saldo dovuto, contestando l’applicazione di interessi usurari e la validità stessa del contratto. Il Tribunale di Grosseto aveva condannato la mutuataria al pagamento di oltre 84.000 euro, eliminando dal computo solo gli interessi usurari. La Corte d’Appello di Firenze aveva poi riformato parzialmente la sentenza, riducendo il saldo a circa 29.800 euro, riconoscendo che il tasso di interesse originario era effettivamente indeterminato e indeterminabile, quindi nullo. Il nodo della determinazione del tasso di interesse Il cuore della questione riguarda l’articolo 117, comma 7, lettera a) del Testo Unico Bancario nella formulazione vigente tra il 1995 e il 2005. Questa norma stabilisce che, quando il contratto di mutuo non prevede un tasso di interesse determinato o determinabile, si applica un tasso sostitutivo pari al tasso nominale minimo dei Buoni Ordinari del Tesoro emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto. Si tratta di una disposizione fondamentale che tutela sia il mutuatario sia la banca, sostituendo un elemento contrattuale nullo con un parametro oggettivo e verificabile. La ricorrente aveva sostenuto che, trattandosi di un mutuo a tasso variabile, il concetto di “conclusione del contratto” dovesse essere interpretato in modo estensivo, facendo riferimento non alla data di stipulazione ma alla scadenza di ciascuna rata o, in alternativa, alla scadenza finale del mutuo. Secondo questa tesi, il contratto di mutuo a tasso variabile sarebbe un contratto a “formazione progressiva”, che si perfeziona gradualmente nel tempo. La Cassazione ha respinto nettamente questa interpretazione, affermando che l’espressione legislativa “conclusione del contratto” è inequivoca e si riferisce univocamente al momento della stipulazione dell’accordo tra le parti. La questione della nullità del contratto per mancata erogazione Un altro profilo interessante della decisione riguarda la dedotta nullità del contratto per mancata effettiva erogazione della somma mutuata. La mutuataria aveva sostenuto che il denaro non le fosse mai stato realmente consegnato, ma che fosse stato immediatamente costituito in pegno a favore della banca per garantire un precedente debito. La Corte territoriale aveva respinto questa tesi sia nel merito sia per ragioni processuali, ritenendo che la pretesa nullità dovesse emergere da fatti e documenti già allegati entro i termini delle preclusioni assertive e probatorie. La Cassazione ha confermato questo orientamento, precisando che, se è vero che l’eccezione di nullità non soffre i limiti temporali delle preclusioni assertive e istruttorie e può essere rilevata d’ufficio dal giudice, è altrettanto vero che la nullità deve emergere dagli atti e dai documenti già presenti nel fascicolo processuale. Una volta scaduti i termini per le allegazioni e le richieste istruttorie, deve ritenersi definito una volta per tutte il perimetro della controversia. In questo caso, la Corte ha ritenuto che la clausola contrattuale che prevedeva il pegno sulla somma erogata regolasse semplicemente il periodo transitorio tra l’erogazione e l’iscrizione dell’ipoteca, senza che ciò implicasse una mancata effettiva consegna del denaro. Gli interessi di mora e la mora automatica La sentenza affronta anche la delicata questione degli interessi moratori. Il contratto prevedeva interessi di mora allo stesso tasso di quelli convenzionali. La Corte d’Appello aveva ritenuto che il vizio di indeterminatezza degli interessi convenzionali si estendesse anche agli interessi moratori. Tuttavia, aveva escluso l’applicazione del tasso sostitutivo previsto dall’articolo 117, comma 7, del TUB ai ritardi nell’esecuzione del contratto, applicando invece gli interessi legali a partire dalla scadenza dell’ultima rata prevista dal piano di ammortamento. Questo ragionamento si fonda sull’articolo 1219, comma 2, numero 3, del codice civile, che prevede la cosiddetta “mora automatica” o “mora ex re”. Secondo questa disposizione, il debitore è costituito automaticamente in mora quando non esegue una prestazione che doveva essere effettuata al domicilio del creditore. La Cassazione ha confermato l’applicabilità di questa forma di mora automatica alla fattispecie, respingendo le obiezioni della ricorrente secondo cui la prestazione non sarebbe stata certa, liquida ed esigibile. I giudici di legittimità hanno ribadito il principio consolidato per cui, agli effetti della mora automatica, la liquidità dell’obbligazione ricorre non solo quando il titolo ne determina l’ammontare, ma anche quando indica i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di valutazione discrezionale. La legittimità della segnalazione alla Centrale Rischi L’ultima questione affrontata dalla Cassazione riguarda la segnalazione della mutuataria inadempiente alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia. La ricorrente aveva sostenuto che la segnalazione fosse illegittima perché il mancato pagamento delle rate era frutto della contestazione della loro debenza, e che l’intermediario avrebbe dovuto effettuare una valutazione complessiva della situazione finanziaria del cliente prima di procedere alla segnalazione. La Corte ha respinto anche questa censura, ritenendo che sussistesse una conclamata situazione di inadempimento. La cliente aveva infatti cessato ogni pagamento dal settembre 2003, e persisteva un debito consistente anche nell’ipotesi ricostruttiva più favorevole alla mutuataria. La Suprema Corte ha chiarito che la mera contestazione della debenza non è sufficiente a impedire la segnalazione quando l’inadempimento è oggettivo e non è in discussione l’andamento di altri rapporti obbligatori. Si tratta di un principio importante che bilancia il diritto alla protezione dei dati personali con le esigenze di trasparenza del sistema creditizio. Le implicazioni pratiche per i mutuatari Questa pronuncia della Cassazione offre importanti indicazioni pratiche per chiunque abbia stipulato o stia per stipulare un contratto di mutuo. Innanzitutto, conferma che i contratti bancari devono contenere elementi chiari e determinabili, in particolare per quanto riguarda il tasso di interesse. Quando
Bagaglio Smarrito in Viaggio: Cosa Accade se il Vettore Perde la Tua Valigia?

I diritti del passeggero e le responsabilità del trasportatore: una guida completa Immaginiamo una situazione che, purtroppo, non è così rara: saliamo su un autopullman, un treno o un altro mezzo di trasporto pubblico, consegniamo la nostra valigia al personale per la sistemazione nel bagagliaio, e all’arrivo a destinazione scopriamo con sgomento che il bagaglio è scomparso. Dentro c’erano indumenti, effetti personali, forse anche attrezzature di lavoro o oggetti di valore affettivo. Cosa succede in questi casi? Chi è responsabile? Quali diritti ha il passeggero? Può ottenere un risarcimento e in che misura? Sono valide le clausole stampate sui biglietti o pubblicate sui siti web che limitano la responsabilità della società di trasporti? Proviamo a rispondere a queste domande analizzando il quadro normativo che tutela i viaggiatori. Il principio fondamentale: la responsabilità presunta del vettore Il nostro ordinamento ha fatto una scelta precisa a tutela del passeggero: quando si verifica la perdita o il danneggiamento di un bagaglio affidato al vettore, quest’ultimo è presunto responsabile. Questo principio è sancito dall’art. 1681 c.c., che stabilisce la responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e per la perdita o l’avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, salvo che il vettore non provi di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Si tratta di un regime di responsabilità contrattuale presunta che inverte l’onere della prova rispetto alle regole generali. Il viaggiatore danneggiato ha un compito relativamente semplice: deve dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto attraverso il biglietto, la consegna del bagaglio al vettore, l’evento dannoso rappresentato dalla perdita o dal danneggiamento, e infine l’entità del danno subito. Il vettore, per liberarsi dalla responsabilità, ha invece un onere probatorio molto più gravoso. Deve dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare l’evento dannoso, oppure che l’evento è derivato da caso fortuito, forza maggiore, dalla natura o dai vizi delle cose stesse, o dal fatto del passeggero. Non basta quindi dimostrare di aver usato la normale diligenza: il vettore deve provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. La disciplina specifica dell’art. 1693 c.c. La tutela del passeggero trova ulteriore rafforzamento nell’art. 1693 c.c., che disciplina specificamente la responsabilità del vettore per la perdita e l’avaria delle cose consegnategli per il trasporto. Questa norma stabilisce che il vettore è responsabile dal momento in cui riceve le cose fino a quello in cui le riconsegna al destinatario, salvo la prova del caso fortuito, della natura o dei vizi delle cose stesse o del loro imballaggio, oppure del fatto del mittente o del destinatario. L’integrazione tra l’art. 1681 e l’art. 1693 c.c. crea un sistema di tutela particolarmente efficace per il passeggero, che beneficia di una presunzione legale di responsabilità a suo favore, con conseguente inversione dell’onere probatorio. L’obbligo di custodia: un dovere professionale Ma perché il vettore ha una responsabilità così rigorosa? La risposta sta nella natura del contratto di trasporto. Quando un passeggero affida il proprio bagaglio al vettore, non sta semplicemente portando con sé degli oggetti: sta consegnando in custodia i propri beni a un professionista che, per mestiere, si impegna a conservarli e riconsegnarli integri. Nel contratto di trasporto di persone convivono quindi due obbligazioni distinte. Da un lato vi è l’obbligazione principale di trasferire il viaggiatore da un luogo all’altro, dall’altro sussiste l’obbligazione accessoria, ma non meno rilevante, di custodire i bagagli affidati dal passeggero. Tale obbligo di custodia comporta che il vettore deve vigilare sulla sicurezza dei bagagli durante tutto il trasporto, adottare misure organizzative adeguate per prevenire furti, smarrimenti o danneggiamenti, garantire la corretta identificazione e tracciabilità dei bagagli, e assicurare la riconsegna al legittimo proprietario. La ratio di questa tutela risiede nella particolare posizione di affidamento in cui si trova il passeggero: consegnando il proprio bagaglio al vettore, perde il controllo diretto sui propri beni e deve poter confidare sulla diligenza professionale del trasportatore. Si configura quindi una sorta di contratto di deposito che si innesta nel contratto di trasporto, con tutte le conseguenti responsabilità per il depositario inadempiente. Le clausole limitative: un terreno minato Immaginiamo ora che, di fronte alla perdita del bagaglio, la società di trasporti riconosca la propria responsabilità ma offra un risarcimento irrisorio, ad esempio cento o centocinquanta euro, richiamandosi alle “Condizioni generali di trasporto” pubblicate sul proprio sito internet o stampate in caratteri minuscoli sul retro del biglietto. Queste clausole sono valide? La risposta, nella maggior parte dei casi, è negativa, e per comprenderne le ragioni occorre analizzare due livelli di tutela che il nostro ordinamento appronta a protezione del contraente debole. Il primo ostacolo: l’art. 1341, comma 2, c.c. L’art. 1341, comma 2, c.c. stabilisce un principio chiaro e di portata generale: non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni generali di contratto che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, nonché altre clausole particolarmente gravose elencate dalla norma stessa. La disposizione richiede una specifica approvazione per iscritto, che tradizionalmente si realizza attraverso una doppia sottoscrizione: una per l’intero contratto e una separata, specifica, per le clausole vessatorie. Questo meccanismo ha lo scopo di attirare l’attenzione del contraente debole sulle clausole particolarmente gravose, costringendolo a una riflessione consapevole prima di accettarle. La mera pubblicazione delle condizioni generali su un sito internet, o la loro presenza in caratteri minuscoli sul retro del biglietto, non integra affatto la specifica approvazione richiesta dalla norma. Il passeggero deve essere messo in condizione di leggere, comprendere e accettare consapevolmente le singole clausole limitative, attraverso un’adesione espressa e inequivocabile che ne manifesti la piena consapevolezza. La giurisprudenza ha costantemente ribadito che la specifica approvazione per iscritto richiesta dall’art. 1341, comma 2, c.c. deve essere effettiva e non meramente formale, dovendo risultare che il contraente abbia avuto concreta conoscenza delle clausole vessatorie e le abbia specificamente accettate. Non è sufficiente un generico rinvio a condizioni predisposte unilateralmente, né può considerarsi valida una sottoscrizione
Il Proprietario Può Entrare nella Stanza che Hai Affittato? La Legge è Chiara

Quando l’ingresso del locatore nella camera in locazione configura violazione di domicilio e quali rimedi hai a disposizione Sei uno studente fuorisede che affitta una stanza e un giorno scopri che il proprietario è entrato nel tuo spazio senza il tuo permesso, magari per mostrare la camera a un futuro inquilino. Ti chiedi: può farlo? La risposta della legge è netta e potrebbe sorprenderti. Quella singola camera che hai affittato è il tuo domicilio e nessuno, nemmeno il proprietario che paga le bollette e possiede l’immobile, può entrare senza il tuo consenso. Vediamo insieme perché l’accesso non autorizzato costituisce un reato penale e quali sono i tuoi diritti come conduttore. La Tua Stanza È il Tuo Domicilio Partiamo da un principio fondamentale: anche se stai affittando soltanto una singola stanza in un appartamento condiviso con altri studenti, quella camera rappresenta il tuo domicilio ai sensi dell’articolo 614 del Codice Penale. Il concetto di domicilio, nella legge italiana, non coincide necessariamente con la proprietà dell’immobile, ma identifica qualsiasi luogo di privata dimora dove una persona svolge atti della propria vita privata. La giurisprudenza ha chiarito in modo inequivocabile che il conduttore della singola stanza è titolare del cosiddetto “ius excludendi”, cioè del diritto di escludere chiunque dal proprio spazio privato, anche se condivide cucina e bagno con altri coinquilini. In altri termini, quella camera è il tuo rifugio personale e nessuno può violarlo senza il tuo permesso. Quando l’Ingresso del Proprietario Diventa Reato L’articolo 614 del Codice Penale punisce chiunque si introduce nell’abitazione altrui contro la volontà di chi ha il diritto di escluderlo. La norma prevede la reclusione da uno a quattro anni per chi entra in un luogo di privata dimora senza consenso. Questa protezione vale anche contro il proprietario dell’immobile. Per configurare il reato di violazione di domicilio servono due elementi. Il primo è l’elemento oggettivo, ossia l’ingresso materiale nella stanza senza il consenso del conduttore. Non importa che il locatore abbia ancora le chiavi o che pensi di avere buone ragioni per entrare: se non c’è il tuo permesso esplicito, l’accesso è illegale. Il secondo elemento è quello soggettivo, che consiste nella consapevolezza di violare il diritto altrui all’inviolabilità del domicilio. La motivazione dell’ingresso è del tutto irrilevante: anche se il proprietario voleva solo mostrare la stanza a un futuro inquilino per non perdere tempo nelle ricerche, questo non giustifica la violazione. La legge è talmente chiara su questo punto che la giurisprudenza della Cassazione ha affermato che il locatore può entrare nell’abitazione data in locazione solo con il consenso dell’inquilino, salvo casi di immediata e non rimandabile urgenza, come un allagamento o un incendio. Il fatto che l’agente sia il proprietario dell’immobile è completamente irrilevante ai fini della configurabilità del reato. Quando il Comportamento Diventa Ancora Più Grave Se il locatore, oltre a entrare nella tua stanza, dovesse modificare la situazione di fatto, ad esempio cambiando la serratura o rimuovendo i tuoi oggetti personali, potrebbe configurarsi anche il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto dagli articoli 392 e 393 del Codice Penale. Questo reato si verifica quando qualcuno, pur potendo rivolgersi al giudice per far valere un diritto, decide di farsi giustizia da solo con violenza sulle cose o alle persone. È il caso, ad esempio, del proprietario che, convinto che tu non stia pagando l’affitto, cambia la serratura e ti impedisce di rientrare senza passare attraverso le vie legali. I Tuoi Diritti Civili: Non Solo Penale Oltre alla responsabilità penale, l’ingresso non autorizzato del locatore costituisce anche un grave inadempimento contrattuale. L’articolo 1575 del Codice Civile, al numero 3, stabilisce che il locatore ha l’obbligo di garantire il pacifico godimento dell’immobile durante tutta la durata della locazione. Questo significa che deve astenersi da qualsiasi condotta che possa turbare o limitare il tuo diritto di utilizzare serenamente la stanza che hai affittato. La giurisprudenza ha chiarito che l’accesso non consensuale rappresenta una forma di molestia diretta che viola gravemente questo obbligo fondamentale del contratto di locazione. Quando un locatore viola i suoi obblighi contrattuali, scatta la responsabilità prevista dall’articolo 1218 del Codice Civile, che ti permette di chiedere il risarcimento dei danni. Un aspetto importante da comprendere riguarda il regime probatorio in questi casi. Trattandosi di responsabilità contrattuale, tu devi provare soltanto due cose: che esiste un contratto di locazione valido e che il locatore è entrato senza il tuo consenso. A quel punto, sarà il locatore a dover dimostrare che non poteva fare diversamente, ad esempio perché c’era un’urgenza improrogabile. Questo ribaltamento dell’onere della prova ti favorisce notevolmente. La Violazione della Privacy e del Domicilio L’ingresso non autorizzato non lede solo i tuoi diritti contrattuali, ma viola anche diritti costituzionalmente garantiti. L’articolo 14 della Costituzione italiana tutela l’inviolabilità del domicilio, mentre l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo protegge il diritto alla vita privata e familiare. Queste norme fondamentali riconoscono che il domicilio è lo spazio dove puoi svolgere liberamente la tua vita privata, senza interferenze esterne. Quando questi diritti vengono violati, puoi chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale. Secondo i principi affermati dalle Sezioni Unite della Cassazione, il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti è risarcibile quando la lesione è grave e il danno serio. Nel caso della violazione del domicilio, la lesione assume particolare gravità perché incide su molteplici dimensioni della tua vita: il diritto all’intimità domestica e alla riservatezza, il diritto al pacifico godimento della tua abitazione e la libertà di svolgere atti della vita privata senza interferenze. La giurisprudenza ha riconosciuto che la lesione del diritto al normale svolgimento della vita all’interno della propria casa e del diritto alla libera esplicazione delle proprie abitudini quotidiane sono pregiudizi apprezzabili come danno non patrimoniale. Il danno può essere liquidato in via equitativa dal giudice ai sensi dell’articolo 1226 del Codice Civile, considerando diversi fattori come la durata dell’invasione, la gravità della condotta del locatore e il turbamento psicologico che hai effettivamente subito. Cosa Puoi Fare Concretamente Se ti trovi in questa situazione, hai a
Responsabilità dell’avvocato: non basta un orientamento giurisprudenziale, deve essere quello prevalente

La Cassazione chiarisce quando l’avvocato risponde per la scelta di una strategia difensiva inadeguata, anche se tecnicamente “opinabile” Con un’importante pronuncia dello scorso ottobre, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di responsabilità professionale dell’avvocato: il professionista è tenuto ad adottare la linea difensiva più adeguata all’interesse del cliente, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale prevalente, anche quando personalmente non lo condivida. La sentenza numero 28406 del 27 ottobre 2025, emessa dalla Terza Sezione Civile, offre l’occasione per riflettere sui confini della diligenza professionale forense e sulle conseguenze di scelte strategiche errate. La vicenda alla base della decisione La controversia riguardava un cliente che aveva affidato al proprio avvocato la tutela dei propri diritti ereditari. Alla morte della madre, il cliente aveva scoperto che questa aveva trasferito l’unico immobile di sua proprietà a un’altra figlia e al genero mediante un contratto di vendita a prezzo simbolico, lesivo della quota di legittima a lui spettante. Il professionista aveva consigliato di proporre un ricorso per sequestro giudiziario o conservativo dell’immobile, prospettando un’azione diretta a far accertare il carattere simulato del contratto di vendita e a far dichiarare la nullità per difetto di forma del contratto dissimulato di donazione. La strategia si fondava sull’idea che la donazione indiretta, realizzata mediante vendita a prezzo vile, richiedesse la forma solenne dell’atto pubblico con testimoni prevista per le donazioni tipiche. Il Tribunale aveva però respinto l’istanza cautelare, rilevando l’assenza dei presupposti necessari. Dopo questa sconfitta processuale, il cliente aveva sostenuto spese per oltre ottomila euro e aveva dovuto revocare il mandato, affidandosi a un nuovo professionista. Quest’ultimo aveva correttamente esercitato l’azione di riduzione prevista dagli articoli 533 e seguenti del codice civile, ottenendo la reintegrazione della quota di legittima per un importo di circa quarantaseimila euro. Il cliente aveva quindi citato in giudizio il primo avvocato per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalla condotta professionale inadeguata. Il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità del professionista, ma la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione, escludendo la colpa dell’avvocato sul presupposto che la sua strategia si fondasse su un orientamento giurisprudenziale minoritario ma comunque esistente. Il principio affermato dalla Cassazione La Suprema Corte ha accolto il ricorso del cliente, cassando la sentenza d’appello e affermando un principio di grande rilevanza pratica. Gli obblighi professionali dell’avvocato, pur essendo obblighi di mezzi e non di risultato, richiedono che il professionista operi con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, assicurando che la scelta difensiva cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente. In particolare, la Cassazione ha chiarito che l’avvocato deve adottare mezzi difensivi che non solo non risultino pregiudizievoli per il cliente, ma si rivelino come i più adeguati rispetto al raggiungimento del risultato perseguito. Questo significa che il professionista non può limitarsi a individuare una qualsiasi interpretazione giuridica astrattamente sostenibile, ma deve orientarsi verso quella che offre le maggiori probabilità di successo alla luce dell’orientamento giurisprudenziale consolidato. Il punto cruciale della decisione riguarda il comportamento che l’avvocato deve tenere di fronte a una questione giuridica su cui esistono orientamenti contrastanti. Secondo i giudici di legittimità, quando una soluzione giuridica, pur opinabile e magari non condivisa dal professionista, sia stata tuttavia affermata dalla giurisprudenza consolidata, l’avvocato non è esentato dal tenerne conto. Al contrario, deve porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze sfavorevoli per il proprio assistito derivanti dalla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico prevalente. Nel caso specifico, l’avvocato aveva basato la propria strategia su un orientamento giurisprudenziale ormai definitivamente superato. La tesi secondo cui il contratto misto di vendita e donazione richiederebbe la forma solenne dell’atto pubblico con testimoni era stata sostenuta da alcune pronunce della Cassazione risalenti agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Tuttavia, dall’inizio del nuovo millennio si era affermato e consolidato l’orientamento contrario, divenuto autentico “diritto vivente”: per le donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico con testimoni prevista dall’articolo 782 del codice civile, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato. La Corte ha dunque censurato la sentenza d’appello per aver fondato l’esclusione della responsabilità professionale sulla mera esistenza di un orientamento giurisprudenziale favorevole, senza considerare che tale orientamento era ormai da tempo superato e opposto a quello consolidatosi da quasi due decenni. L’avvocato, non tenendo conto dell’incompatibilità del mezzo difensivo adottato con la regola di diritto vivente, aveva posto in essere una strategia processuale destinata a produrre conseguenze sfavorevoli per il cliente. Le implicazioni pratiche per professionisti e clienti Questa pronuncia ha importanti ricadute operative per gli avvocati. Il principio affermato impone al professionista un dovere di aggiornamento costante sulla giurisprudenza, con particolare attenzione agli orientamenti consolidati e alle evoluzioni interpretative. Non è sufficiente individuare una tesi astrattamente sostenibile o un precedente isolato: occorre valutare quale sia l’orientamento prevalente e ragionevolmente prevedibile che il giudice applicherà. Sul piano della responsabilità professionale, la sentenza chiarisce che la colpa dell’avvocato può configurarsi anche quando la strategia adottata si fondi su un orientamento minoritario o superato, se questo comporta conseguenze pregiudizievoli per il cliente. Il riferimento agli articoli 1176, secondo comma, e 2236 del codice civile va quindi interpretato nel senso che il professionista risponde quando non adotta la soluzione più adeguata all’interesse del cliente, conformemente al diritto vivente. Per i clienti, la decisione rappresenta un’importante garanzia: possono legittimamente attendersi che il proprio difensore non si limiti a individuare una qualsiasi tesi astrattamente sostenibile, ma orienti la strategia difensiva verso le soluzioni che offrono le maggiori probabilità di successo, tenendo conto degli orientamenti giurisprudenziali consolidati. Quando ciò non avviene, con conseguente pregiudizio per gli interessi del cliente, la responsabilità professionale può essere invocata. La sentenza suggerisce anche una riflessione più ampia sul rapporto tra autonomia professionale dell’avvocato e dovere di conformarsi al diritto vivente. Il professionista conserva certamente la libertà di proporre interpretazioni innovative o di contestare orientamenti consolidati quando ciò sia nell’interesse del cliente e vi siano margini concreti di successo. Tuttavia, quando un orientamento si sia definitivamente cristallizzato, la scelta di ignorarlo in favore di tesi minoritarie e superate può integrare inadempimento degli
“Visto e piaciuto” non salva il venditore in mala fede: la Cassazione tutela chi acquista veicoli usati

La Suprema Corte conferma che la clausola contrattuale non esonera dalla garanzia quando i difetti sono stati occultati dolosamente dal venditore Un acquirente compra un autocarro usato, lo esamina prima della vendita e firma il contratto con la classica clausola “visto e piaciuto”. Durante il viaggio di ritorno, però, il veicolo manifesta gravi problemi di marcia. Le verifiche successive rivelano che la struttura portante presentava danni significativi, abilmente nascosti da una riverniciatura. A questo punto sorge la domanda: la clausola “visto e piaciuto” protegge il venditore anche quando ha deliberatamente occultato i difetti? La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27968/2025 pubblicata il 21 ottobre 2025, ha fornito una risposta chiara: no, il venditore in mala fede non può invocare questa clausola per sottrarsi alle proprie responsabilità. La clausola “visto e piaciuto”: cos’è e come funziona La clausola “visto e piaciuto” è una delle più diffuse nei contratti di compravendita, specialmente quando si tratta di beni usati come automobili, macchinari o immobili. Con questa espressione, l’acquirente dichiara di aver esaminato personalmente il bene e di accettarlo nelle condizioni in cui si trova al momento della vendita. L’articolo 1490, secondo comma, del Codice civile stabilisce che il venditore può essere esonerato dalla garanzia per i vizi della cosa venduta mediante un’apposita pattuizione. La clausola “visto e piaciuto” rappresenta proprio una di queste pattuizioni: in sostanza, l’acquirente rinuncia preventivamente a contestare eventuali difetti che avrebbe potuto riscontrare con un’ispezione accurata. Questo meccanismo ha una sua logica: quando si acquista un bene usato a un prezzo ribassato proprio in considerazione del suo stato, è ragionevole che l’acquirente si assuma il rischio di alcuni difetti. Il venditore, dal canto suo, può vendere “come visto” senza doversi preoccupare di ogni minimo problema. Il limite della mala fede: quando la clausola non protegge più La Cassazione ha però ribadito un principio fondamentale: la clausola “visto e piaciuto” perde ogni efficacia quando il venditore ha taciuto in mala fede i vizi del bene, soprattutto se questi sono stati deliberatamente occultati e vengono scoperti solo dopo l’utilizzo della cosa. Nel caso esaminato dalla Seconda Sezione Civile, il venditore aveva fatto riverniciare la carrozzeria dell’autocarro proprio per mascherare i danni strutturali. Questa condotta è stata ritenuta dalla Corte di merito un vero e proprio occultamento doloso dei difetti. La riverniciatura non era un normale intervento di manutenzione estetica, ma uno stratagemma per nascondere problemi gravi che avrebbero dovuto essere dichiarati all’acquirente. La Suprema Corte ha confermato questo ragionamento, richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato secondo cui la buona fede contrattuale impone al venditore di non ingannare l’acquirente. Se i vizi sono stati intenzionalmente celati, la clausola “visto e piaciuto” diventa inapplicabile e il venditore resta pienamente responsabile, potendo l’acquirente ottenere la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo pagato. Il certificato di revisione non è una garanzia assoluta Un aspetto interessante della sentenza riguarda il valore probatorio del certificato di revisione. Il venditore aveva sostenuto che il veicolo aveva superato la revisione il giorno prima della vendita, e quindi non poteva presentare i difetti lamentati dall’acquirente. La Cassazione ha chiarito che il certificato di revisione fa piena prova, fino a querela di falso, soltanto di quanto è stato direttamente verificato durante il controllo tecnico. In altri termini, il certificato attesta che il veicolo è conforme alle prescrizioni di legge in materia di sicurezza stradale, ma non esclude la presenza di altri vizi che possono emergere successivamente o che non rientrano nell’ambito specifico della revisione. Nel caso concreto, i danni alla struttura portante erano stati occultati dalla riverniciatura e non erano emersi durante la revisione, che ha uno scopo diverso rispetto a una perizia approfondita sullo stato complessivo del veicolo. Pertanto, il superamento della revisione non poteva smentire le prove raccolte in giudizio circa l’esistenza dei vizi. Cosa significa questa sentenza per chi compra e chi vende Questa pronuncia ha implicazioni pratiche rilevanti per chiunque sia coinvolto nella compravendita di beni usati, in particolare veicoli. Per gli acquirenti, la sentenza rappresenta una tutela importante: anche se si firma un contratto con clausola “visto e piaciuto”, si può comunque ottenere la risoluzione del contratto e il rimborso del prezzo se si dimostra che il venditore ha occultato in mala fede i difetti. Naturalmente, sarà necessario provare che i vizi esistevano al momento della vendita e che il venditore ne era consapevole, il che può richiedere perizie tecniche e testimonianze. Per i venditori, la lezione è altrettanto chiara: la clausola “visto e piaciuto” offre una protezione limitata e non autorizza a nascondere difetti noti. Chi vende un bene usato con problemi deve comportarsi in buona fede, dichiarando apertamente le condizioni del bene o quantomeno astenendosi da condotte ingannevoli come riparazioni cosmetiche che mascherano guasti strutturali. In caso contrario, si rischia non solo di dover restituire il prezzo, ma anche di essere condannati al risarcimento dei danni e alle spese legali. Dal punto di vista pratico, è sempre consigliabile far verificare il veicolo da un meccanico di fiducia prima dell’acquisto, anche in presenza della clausola “visto e piaciuto”. Per il venditore, la trasparenza sulle condizioni del bene è la migliore strategia per evitare contenziosi futuri. In conclusione La Cassazione conferma che il diritto contrattuale italiano si fonda sul principio di buona fede e correttezza. Le clausole contrattuali, per quanto legittime, non possono essere utilizzate per coprire comportamenti sleali o fraudolenti. La clausola “visto e piaciuto” resta uno strumento valido per bilanciare i rischi nella vendita di beni usati, ma il suo utilizzo deve avvenire nel rispetto della trasparenza e dell’onestà commerciale. Hai acquistato un veicolo usato e hai scoperto difetti nascosti? Oppure devi vendere un bene e vuoi sapere come tutelarti correttamente? 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Investimenti rischiosi e obblighi informativi: la Cassazione chiarisce quando decorrono gli interessi in caso di risoluzione del contratto

La Suprema Corte ribadisce i doveri dell’intermediario e precisa il regime degli interessi sulle somme da restituire dopo la dichiarazione di risoluzione contrattuale Con ordinanza n. 27965 del 21 ottobre 2025, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di intermediazione finanziaria, affrontando una questione di particolare rilevanza pratica: quando decorrono gli interessi sulle somme che l’intermediario deve restituire all’investitore a seguito della dichiarazione giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento agli obblighi informativi. La vicenda trae origine dall’acquisto, avvenuto nel maggio 2001, di obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina. L’investitore, ritenendo di non aver ricevuto adeguate informazioni sui rischi dell’operazione, aveva convenuto in giudizio l’istituto bancario che aveva intermediato l’operazione. La Corte d’Appello di Catania aveva dichiarato la risoluzione del contratto di acquisto e condannato la banca a restituire l’intero importo investito, disponendo che sulle somme decorressero gli interessi legali dalla data dell’acquisto dei titoli. L’intermediario impugnava la sentenza con ricorso per cassazione articolato in ben nove motivi. Gli obblighi informativi valgono anche per gli investitori esperti La pronuncia si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, che la Suprema Corte ribadisce con particolare nettezza. Anche l’investitore con elevata propensione al rischio, speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi, deve poter valutare la propria scelta nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli siano stati segnalati. Come affermato dalla Cassazione nelle precedenti pronunce richiamate nell’ordinanza (tra cui Cass. n. 12990/2023, Cass. n. 7288/2023 e Cass. n. 19891/2022), l’inottemperanza dell’intermediario agli obblighi informativi fa insorgere la presunzione di sussistenza del nesso di causalità tra inadempimento e pregiudizio lamentato dall’investitore. La prova contraria, a carico dell’intermediario, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio da parte dell’investitore, desunta anche da scelte rischiose pregresse. La Corte precisa che la propensione al rischio deve essere tenuta distinta dall’adempimento degli obblighi informativi, dal momento che questi ultimi assumono rilevanza fondamentale anche nei confronti di un investitore che presenti un elevato profilo di rischio. Non può intendersi la propensione al rischio come mera ed acritica accettazione di qualsiasi livello di incertezza degli esiti dell’investimento, indipendentemente dal livello di informazione resa dall’intermediario. Al contrario, l’intermediario che viene meno ai propri doveri di informazione determina una condizione di disorientamento dell’investitore, impedendogli di svolgere quella valutazione razionale che distingue la propensione al rischio – intesa come accettazione del grado elevato di un’incertezza di cui si è pienamente e lucidamente consapevoli – dal mero azzardo acritico, non ponderato e quindi irrazionale. L’onere della prova grava sull’intermediario Ulteriore profilo affrontato dalla Suprema Corte attiene alla ripartizione dell’onere probatorio. La decisione ribadisce che grava sull’intermediario finanziario l’onere di provare di aver adempiuto agli obblighi informativi posti a suo carico dall’art. 23 del D.Lgs. n. 58/1998 (Testo Unico della Finanza). Tale principio si ricollega alla speciale protezione che l’ordinamento appresta in favore dell’investitore, considerato parte contrattuale strutturalmente debole nel rapporto con l’intermediario professionale. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la banca non avesse assolto all’onere probatorio con riferimento all’ordine di acquisto dei titoli argentini, non risultando che l’intermediario avesse evidenziato all’investitore la natura speculativa delle obbligazioni ed i relativi rischi patrimoniali. In particolare, era stata rilevata la mancata compilazione, nell’ordine di investimento, della parte relativa alla segnalazione di inadeguatezza dell’operazione, nonché l’assenza di ulteriori elementi necessari ai fini della piena osservanza delle prescrizioni di cui agli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob n. 11522/1998. Obblighi restitutori e compensazione: chi deve provare cosa In tema di obblighi restitutori conseguenti alla dichiarazione di risoluzione del contratto, la Suprema Corte richiama il principio della compensazione impropria già enunciato in precedenti pronunce (Cass. n. 2661/2019 e Cass. n. 11239/2025). L’onere di provare l’an e il quantum del credito da portare in compensazione grava sul soggetto che ha formulato la relativa domanda. Nel caso di specie, l’intermediario avrebbe dovuto dare prova dell’importo delle cedole riscosse dall’investitore, quale elemento costitutivo della propria domanda riconvenzionale volta alla compensazione. Operava invece a detrimento della banca le conseguenze del mancato raggiungimento della prova. Parimenti, l’intermediario non aveva indicato e provato né l’ammontare della somma effettivamente percepita dall’investitore a titolo di importo residuale offerto dalla Repubblica Argentina a seguito del default, concludendo conseguentemente che non vi era possibilità di procedere ad alcuna compensazione tra i reciproci obblighi restitutori. Il punto cruciale: quando decorrono gli interessi Il profilo più innovativo della pronuncia attiene alla decorrenza degli interessi sulle somme oggetto di restituzione. Su questo specifico aspetto, la Cassazione ha accolto l’ottavo motivo di ricorso proposto dall’intermediario, cassando la sentenza della Corte d’Appello e rinviando per nuovo esame. La Corte territoriale aveva stabilito che sulle somme da restituire dovessero essere computati gli interessi dalla data del versamento effettuato per l’acquisto dei titoli (maggio 2001). La Suprema Corte ha ritenuto tale statuizione erronea, richiamando il principio già espresso con l’ordinanza n. 3912/2018: allorquando sia stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’intermediario, la prova della mala fede di quest’ultimo non può reputarsi in re ipsa per effetto della mera imputabilità all’intermediario medesimo dell’inadempimento che abbia determinato la risoluzione del contratto. Conseguentemente, il credito dell’investitore avente ad oggetto il rimborso del capitale investito produce interessi, in base ai principi in tema di ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c., solo con decorrenza dalla proposizione della domanda giudiziale. Grava su chi richiede che gli interessi vengano fatti decorrere dalla data del versamento l’onere di provare che l’intermediario era in mala fede. La Corte ha precisato che non può invocarsi in senso contrario altra recente pronuncia (Cass. n. 423/2025), che si è occupata del distinto tema della data di decorrenza dell’importo delle cedole riscosse, e non del profilo della restituzione dell’importo versato per l’investimento. Quest’ultima decisione ha chiarito che in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, la regola ex art. 2033 c.c. sulla spettanza di frutti e interessi non riguarda quelli previsti dal contratto, che costituiscono attribuzioni patrimoniali oggetto di restituzione in ragione della retroattività prevista dall’art. 1458 c.c., ma i
Compensi professionali dell’avvocato: la Cassazione chiarisce i criteri di liquidazione tra attività stragiudiziale e giudiziale

La Suprema Corte definisce i confini applicativi del rito sommario per i compensi forensi e ribadisce i principi di interpretazione contrattuale nella determinazione degli onorari Una recente pronuncia della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, affrontando questioni cruciali che riguardano tanto i professionisti legali quanto i loro assistiti. La decisione interviene su temi di grande rilevanza pratica, quali l’ambito di applicazione del procedimento sommario previsto per le controversie sui compensi, i criteri di interpretazione degli accordi tra avvocato e cliente, e le regole per la determinazione delle maggiorazioni tariffarie in presenza di pluralità di controparti. La vicenda processuale trae origine da una richiesta di pagamento di compensi professionali avanzata da un avvocato nei confronti del proprio assistito, un ingegnere, per l’attività svolta sia in fase stragiudiziale sia nel corso di un complesso giudizio civile relativo a una successione ereditaria. L’importo richiesto ammontava complessivamente a circa duecentodiciassettemila euro, di cui circa novantacinquemila per l’attività stragiudiziale e circa cinquantaquattromila per quella giudiziale. Il professionista aveva assistito il cliente inizialmente in una fase negoziale e successivamente in un procedimento giudiziario conclusosi con una transazione dopo un tentativo di mediazione. Le parti avevano stipulato un primo accordo nel novembre duemilanove, prevedendo che il compenso sarebbe stato determinato secondo le tariffe forensi vigenti all’epoca. Con una successiva scrittura del maggio duemiladodici, avevano precisato che gli onorari sarebbero stati applicati nella misura massima prevista dal decreto ministeriale. Tuttavia, il cliente aveva corrisposto al professionista soltanto un acconto di diecimila euro, senza poi saldare il residuo nonostante le reiterate richieste. Il Tribunale di Milano, investito della controversia attraverso un procedimento per decreto ingiuntivo, aveva accolto solo parzialmente le richieste del professionista, riconoscendo compensi per circa ventottomila euro relativi esclusivamente all’attività giudiziale, rigettando invece integralmente la domanda concernente l’attività stragiudiziale. Questa decisione aveva spinto l’avvocato a proporre ricorso per cassazione, articolato su quattro distinti motivi di censura. Il procedimento sommario e i compensi stragiudiziali Il primo nucleo tematico affrontato dalla Suprema Corte riguarda l’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione previsto dall’articolo quattordici del decreto legislativo centocinquanta del duemilaundici per le controversie relative ai compensi professionali forensi. Il ricorrente sosteneva che anche le prestazioni stragiudiziali potessero essere richieste mediante tale rito speciale, in quanto strettamente connesse all’attività giudiziaria successivamente svolta per il medesimo cliente e con finalità unitarie. La Corte ha confermato l’orientamento consolidato secondo cui il procedimento sommario contemplato dalla norma si applica esclusivamente ai giudizi concernenti la liquidazione di compensi per prestazioni giudiziali rese in materia civile, potendosi estendere alle attività stragiudiziali soltanto quando queste risultino strettamente correlate alle prime. Il discrimine fondamentale risiede nel carattere di autonomia o di complementarietà dell’attività stragiudiziale rispetto a quella propriamente processuale. Nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che il Tribunale milanese avesse correttamente accertato il carattere autonomo delle prestazioni stragiudiziali rispetto all’attività giudiziaria successiva. Tale valutazione, fondata sull’esame delle concrete modalità di svolgimento del mandato professionale, appartiene al merito della controversia e non può essere rimessa in discussione in sede di legittimità se adeguatamente motivata. Il giudice di merito aveva infatti rilevato che le attività stragiudiziali svolte tra il duemilanove e il duemiladodici presentavano una propria fisionomia distinta, non configurandosi come mera preparazione o complemento necessario dell’azione giudiziaria intrapresa successivamente. Questo principio assume particolare rilievo pratico per i professionisti legali, poiché impone una valutazione attenta della natura delle prestazioni rese prima di scegliere lo strumento processuale attraverso cui far valere le proprie ragioni creditorie. L’utilizzo improprio del rito sommario per prestazioni stragiudiziali autonome può infatti esporre al rischio di un rigetto in rito della domanda, con conseguente necessità di instaurare un nuovo giudizio secondo le forme ordinarie. L’interpretazione degli accordi sul compenso professionale Il secondo aspetto di grande interesse riguarda l’applicazione dei principi di interpretazione contrattuale agli accordi intercorsi tra avvocato e cliente in ordine alla determinazione del compenso. Il caso presentava la peculiarità che le parti avevano formalizzato la propria intesa attraverso due distinti documenti scritti, redatti a distanza di tempo l’uno dall’altro. La Cassazione ha accolto la censura del ricorrente su questo punto, richiamando il fondamentale principio stabilito dall’articolo milletrecentosessantatré del codice civile. Tale norma impone al giudice, quando una medesima vicenda negoziale e i relativi effetti abbiano formato oggetto di più atti scritti, di esaminarli tutti congiuntamente per stabilire il rapporto intercorrente tra le varie clausole e documenti. Occorre cioè verificare se le pattuizioni successive costituiscano un chiarimento, un’integrazione, una modificazione, una trasformazione oppure un annullamento delle precedenti convenzioni. Il Tribunale di primo grado aveva invece compiuto un errore metodologico, concentrando la propria analisi esclusivamente sulla scrittura del maggio duemiladodici e deducendone che il professionista non avesse diritto ad alcun compenso oltre ai soli onorari. Tale approccio risultava viziato perché non prendeva in considerazione l’originario accordo del novembre duemilanove, che aveva costituito la base iniziale del rapporto professionale e nel quale erano stati definiti i criteri generali di determinazione del compenso. La corretta metodologia interpretativa avrebbe richiesto un esame sistematico di entrambi i documenti, per verificare se la seconda scrittura intendesse effettivamente escludere i diritti precedentemente riconosciuti oppure se si limitasse a specificare la misura degli onorari senza incidere sulle altre componenti del compenso previste dalla tariffa professionale vigente. In particolare, il ricorrente sosteneva che la precisazione relativa all’applicazione degli onorari nella misura massima non implicasse necessariamente la rinuncia ai cosiddetti diritti, che costituivano una voce distinta e autonoma della parcella professionale, caratterizzata da importi fissi e inderogabili secondo la disciplina tariffaria dell’epoca. Questo aspetto della pronuncia riveste notevole importanza pratica perché evidenzia come la formazione progressiva degli accordi professionali richieda particolare attenzione nella redazione dei documenti successivi, che devono chiarire in modo inequivocabile se intendano sostituire integralmente le precedenti pattuizioni oppure semplicemente integrarle o specificarle. Per il professionista, ciò comporta la necessità di prestare massima cura nella formulazione delle scritture integrative, evitando ambiguità che possano successivamente essere interpretate in senso sfavorevole. Per il cliente, emerge l’importanza di verificare che ogni modifica degli accordi originari venga espressa in termini chiari e
Conformità catastale e vendita immobiliare: quando la dichiarazione basta per trasferire la proprietà

La Cassazione chiarisce che per l’esecuzione specifica del preliminare è sufficiente la dichiarazione di conformità, anche se non veritiera, salvo falsità evidenti La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27531 del 15 ottobre 2025, ha affrontato una questione di grande rilevanza pratica per chi acquista o vende immobili: qual è il ruolo della conformità catastale nell’esecuzione specifica del contratto preliminare? Quando una difformità tra lo stato di fatto dell’immobile e le planimetrie catastali impedisce realmente il trasferimento della proprietà per via giudiziale? La vicenda trae origine da un contratto preliminare di compravendita stipulato alla fine degli anni Novanta. L’acquirente, di fronte all’inadempimento degli eredi del venditore originario, aveva chiesto al giudice di disporre il trasferimento coattivo dell’immobile ai sensi dell’articolo 2932 del codice civile, quella norma che consente al promissario acquirente di ottenere con sentenza lo stesso effetto che avrebbe prodotto il contratto definitivo mai concluso. Durante il giudizio era emerso un ostacolo: la conformità catastale dell’immobile. Il Tribunale di Verona, dopo aver sollevato d’ufficio la questione, aveva richiesto e ottenuto sia una dichiarazione sostitutiva di atto notorio da parte dell’attore, sia un’attestazione di conformità firmata da un architetto. Tuttavia, una consulenza tecnica d’ufficio successivamente disposta aveva rilevato difformità tra lo stato di fatto e le planimetrie catastali. La Corte d’Appello di Venezia, basandosi proprio su queste risultanze tecniche, aveva rigettato la domanda di trasferimento, ritenendo che l’incoerenza catastale impedisse l’emissione della sentenza prevista dall’articolo 2932 del codice civile. La Suprema Corte ha però ribaltato questa impostazione, accogliendo il ricorso dell’acquirente e fornendo importanti chiarimenti sui requisiti della conformità catastale e sulla natura della nullità prevista dalla normativa di settore. La natura formale della nullità catastale Il punto di partenza dell’analisi della Cassazione è l’articolo 29, comma 1-bis, della legge n. 52 del 1985, come modificato nel 2010. Questa disposizione stabilisce che gli atti pubblici e le scritture private autenticate aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali su fabbricati già esistenti devono contenere, a pena di nullità, tre elementi: l’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione degli intestatari di conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. In alternativa alla dichiarazione di parte, la norma consente che venga prodotta un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato. La Corte ha qualificato questa nullità come “formale e testuale”, secondo la categoria prevista dall’articolo 1418, terzo comma, del codice civile. Questa precisazione non è un mero esercizio di teoria giuridica, ma ha conseguenze pratiche decisive. Una nullità formale, infatti, è collegata alla mancata osservanza di prescrizioni che attengono alle modalità redazionali dell’atto, non alla sostanza del rapporto o alla conformità effettiva tra dichiarazione e realtà. In parole più semplici: la legge sanziona con la nullità l’assenza della dichiarazione o dell’attestazione di conformità catastale, non l’eventuale falsità o inesattezza di tale dichiarazione. Come ha sottolineato la sentenza, si tratta di un’invalidità collegata a un “an” (la presenza o assenza della dichiarazione) e non a un “quomodo” (la verifica dell’effettiva conformità). Perché questa distinzione è così importante La distinzione operata dalla Cassazione risponde innanzitutto alla ratio della normativa introdotta nel 2010. L’obiettivo del legislatore era principalmente di carattere fiscale: contrastare l’evasione attraverso l’emersione dei cosiddetti fabbricati “fantasma”, cioè immobili mai dichiarati in catasto o dichiarati con caratteristiche diverse da quelle reali. Lo strumento individuato è stato quello di imporre ai disponenti di dichiarare formalmente la conformità catastale, responsabilizzandoli sotto il profilo civile e penale. La norma non intende invece attribuire al notaio o al giudice il compito di verificare materialmente lo stato degli immobili. Questo sarebbe oltretutto tecnicamente complesso e rallenterebbe enormemente sia le compravendite volontarie sia i giudizi di esecuzione specifica. La legge si accontenta quindi della dichiarazione formale, lasciando che eventuali difformità sostanziali vengano accertate e sanzionate in altra sede dall’amministrazione finanziaria. La Cassazione ha inoltre chiarito che, per determinare se esista o meno una difformità rilevante, occorre fare riferimento alle disposizioni vigenti in materia catastale. Non tutte le difformità, infatti, richiedono l’aggiornamento catastale. Come precisato dalla Circolare dell’Agenzia del Territorio n. 2 del 2010, le modifiche più lievi non compromettono la conformità. Rilevano soltanto le variazioni che incidono sullo stato, sulla consistenza, sull’attribuzione della categoria e della classe, ossia su quegli elementi dai quali dipende la rendita catastale. Per esempio, lo spostamento di una porta interna o di un tramezzo che non modifica il numero di vani né la loro funzionalità non costituisce una difformità rilevante. Analogamente, per le unità immobiliari la cui consistenza si calcola in metri quadrati o cubi, le modifiche interne di modesta entità che non incidono sulla consistenza o sulla destinazione degli ambienti non richiedono l’aggiornamento catastale. Al contrario, sono rilevanti gli interventi di ristrutturazione, ampliamento, frazionamento, cambio di destinazione d’uso o rilevante redistribuzione degli spazi interni. Le implicazioni per il giudizio di esecuzione specifica Nel contesto specifico del giudizio ex articolo 2932 del codice civile, la Cassazione ha affermato che la conformità catastale oggettiva costituisce una “condizione dell’azione” e non un presupposto sostanziale del trasferimento. Questa qualificazione tecnica significa che il giudice deve verificare la presenza della dichiarazione o dell’attestazione di conformità al momento della decisione, ma non è tenuto a compiere un’indagine tecnica per accertare se tale dichiarazione sia veritiera. È sufficiente, quindi, che nel giudizio venga prodotta la dichiarazione del promittente venditore o l’attestazione di un tecnico abilitato perché si realizzi la condizione necessaria all’accoglimento della domanda. Il giudice può e deve disporre il trasferimento coattivo anche qualora emergano elementi istruttori che facciano dubitare dell’effettiva conformità, purché non si tratti di una falsità talmente evidente da essere rilevabile “ictu oculi”, cioè a prima vista anche da un soggetto tecnicamente inesperto. Questo principio garantisce una sostanziale parificazione tra il trasferimento volontario (che avviene con atto notarile sulla base della dichiarazione di conformità) e quello coattivo (che avviene con sentenza). In entrambi i casi, è la dichiarazione formale a legittimare l’effetto traslativo, non la verifica sostanziale della conformità. La posizione del dichiarante e le possibili conseguenze La sentenza chiarisce però che l’impostazione descritta non lascia
Compensi avvocati: la Cassazione chiarisce quando spetta il compenso per la fase istruttoria

La Suprema Corte stabilisce che basta la semplice trattazione della causa per maturare il diritto al compenso, anche senza attività probatoria La Cassazione Civile, Seconda Sezione, con ordinanza n. 25711/2025 (R.G. 16546/2023), ha fornito un importante chiarimento in materia di liquidazione dei compensi professionali degli avvocati, specificando quando matura il diritto al compenso per la cosiddetta “fase istruttoria” del processo civile. I fatti del caso La vicenda origina da una richiesta di liquidazione del compenso professionale presentata da un legale ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 per l’attività difensiva svolta in un processo civile. Il Tribunale di primo grado aveva accolto solo parzialmente la richiesta, liquidando euro 5.534,00 ma escludendo dalle voci degli onorari quella relativa alla fase istruttoria, motivando tale esclusione con il fatto che detta fase “non si era svolta”. Il professionista ha quindi presentato ricorso per Cassazione, lamentando che in realtà aveva regolarmente partecipato a numerose udienze di trattazione ed aveva esaminato diversi documenti prodotti dalla controparte, svolgendo quindi concretamente attività riconducibile alla fase istruttoria. Il principio di diritto stabilito dalla Cassazione La Suprema Corte ha accolto il ricorso, stabilendo un principio di diritto di fondamentale importanza per la professione forense. Secondo i giudici di legittimità, l’art. 4, comma 5, del d.m. n. 55 del 2014 prevede che la liquidazione del compenso per l’attività difensiva nel processo civile debba considerare diverse fasi: studio della controversia, introduzione del giudizio, fase istruttoria e fase decisionale. Il punto cruciale dell’argomentazione riguarda l’interpretazione del concetto di “fase istruttoria”. La Cassazione chiarisce che la fase istruttoria comprende tutte le attività di trattazione della causa che si svolgono tra la fase introduttiva e quella decisionale, che inizia con la precisazione delle conclusioni. Tale interpretazione trova conferma nelle tabelle allegate al decreto ministeriale, che denominano questa fase come “Fase istruttoria e/o di trattazione”. L’elemento innovativo della decisione L’aspetto più significativo della pronuncia risiede nella considerazione che il compenso professionale per la fase istruttoria spetta anche prescindendo dall’effettivo svolgimento di attività a contenuto strettamente probatorio. È sufficiente la semplice trattazione della causa, intesa come partecipazione del difensore a una o più udienze davanti al giudice oppure il deposito di memorie illustrative, modificative o integrative delle domande e difese proposte. Questo orientamento, già consolidato dalla giurisprudenza di legittimità (come testimoniano le precedenti Cass. n. 28627 del 2023, Cass. n. 8561 del 2023, Cass. n. 20993 del 2020 e Cass. n. 4698 del 2019), viene ora ribadito con particolare chiarezza, fornendo agli operatori del diritto un punto di riferimento sicuro. Le implicazioni pratiche per la professione forense Questa decisione ha rilevanti conseguenze pratiche per tutti gli avvocati che si trovano a richiedere la liquidazione del compenso professionale. In particolare, la pronuncia chiarisce che nei giudizi di cognizione, almeno in primo grado, la trattazione della causa costituisce sempre un’attività necessaria, indipendentemente dal fatto che vengano assunte prove testimoniali, disposte consulenze tecniche d’ufficio o compiute altre attività strettamente istruttorie. Ne consegue che ogni volta che l’avvocato partecipa a udienze di trattazione o deposita atti difensivi successivi alla citazione e precedenti alla precisazione delle conclusioni, matura automaticamente il diritto al compenso per la fase istruttoria, secondo i parametri previsti dalle tabelle ministeriali. Un orientamento che tutela la professionalità La decisione della Cassazione rappresenta un importante riconoscimento del valore dell’attività professionale dell’avvocato anche nelle sue manifestazioni apparentemente più semplici. La partecipazione alle udienze e la predisposizione di atti difensivi richiedono sempre studio, preparazione e competenza tecnica, elementi che meritano adeguato riconoscimento economico. Inoltre, questa interpretazione garantisce maggiore certezza nella determinazione dei compensi, evitando dispute fondate su valutazioni soggettive circa l’effettivo svolgimento di attività istruttorie in senso tecnico. Conclusioni e prospettive L’ordinanza in esame consolida definitivamente un orientamento giurisprudenziale favorevole alla professione forense, chiarendo che la denominazione “fase istruttoria e/o di trattazione” presente nelle tabelle ministeriali non è casuale, ma riflette la volontà del legislatore di ricomprendere in questa voce tutte le attività processuali intermedie. Per gli avvocati che si trovano a gestire procedure di liquidazione del compenso, questa pronuncia offre un solido argomento giuridico per sostenere le proprie ragioni, mentre per i Tribunali costituisce un chiaro indirizzo interpretativo da seguire nell’applicazione della normativa sui compensi professionali.